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Associazione Thomas International
 
     
 

L’indipendente, 30 ottobre 2005

 

 

L’Occidente e la felicità?

Un obiettivo che si fa sempre più indefinibile

 

 

Fulvio Di Blasi

 

 

 

 

Nell’Europa di oggi, e in gran parte della società occidentale, la gente è sempre più preoccupata della propria felicità ma sembra essere più incerta che mai su che cos’è che rende felici. Ci sono sicuramente molti fattori che concorrono a questo bizzarro e allarmante effetto. Il consumismo invita freneticamente ad agognare miriadi di prodotti come se in ciascuno di essi, spot dopo spot, si celassero la fonte e il segreto della realizzazione personale. I mass media presentano modelli perfetti di facile felicità che non sono mai in grado di oltrepassare la soglia della fiction e che intessono troppo spesso, in chi li prende sul serio, un triste abito di disillusione e di cinismo. L’economia globale spinge verso un tipo di ricchezza che non sembra dare vera felicità a chi la ottiene. [È degno di nota che un numero crescente di manager e professionisti di successo abbiamo seri problemi di droga.] Tutto ciò è molto in sintonia con la filosofia pubblica più riuscita della modernità: l’utilitarismo. Bentham e Mill hanno infatti messo il concetto di felicità al centro dell’economia e della politica. Ma si tratta di una felicità, la loro, che si misura sui desideri statisticamente rilevabili della maggior parte delle persone in un certo momento della vita sociale, e che cerca poi di elaborare un “paniere di beni” per nutrirla e soddisfarla meglio. Questa filosofia è come una gara d’appalto per novelli venditori di felicità che dovranno cercare di indurre, prima, e accaparrarsi, poi, con spot, film, manifesti e campagne in grande stile, i desideri e i sogni della gente.

 

Il liberalismo politico contemporaneo, da parte sua, tende a suggerire che non vi sia una risposta universale alla domanda sul bene umano e la felicità. A torto o a ragione, si è giunti a pensare che la fonte di tutti i totalitarismi e le intolleranze della storia sia la verità etica sul bene umano. Come dire che se un sistema politico assume un’idea portante su che cos’è che rende felici gli uomini, diverrà intollerante e dittatoriale con tutti coloro che non condividono quell’idea. Lo stato moderno si è costruito su una sorta di “etica pubblica della neutralità etica” secondo cui ogni idea sul bene e sulla felicità va egualmente rispettata (tranne quella, naturalmente, che non condivide questa etica pubblica). Si è parlato di opposizione del “giusto” rispetto al “bene” e di necessaria priorità del primo sul secondo. John Rawls ha reso famose questa opposizione e quest’ordine di priorità facendone, nel suo libro più famoso (e più contestato), «una delle caratteristiche centrali» della propria concezione della giustizia politica (J. Rawls, Una teoria della giustizia, p. 43). Che significa? Significa che il sistema politico deve cercare di creare delle condizioni pubbliche di convivenza pacifica (la “giustizia”) il più possibile relativistiche (o neutrali) rispetto a ciò che chiunque possa pensare sia “bene” per gli esseri umani. È chiaro, e ormai ne convengono tutti, che parlare di giustizia in termini relativistici o neutrali è contraddittorio. La giustizia privilegerà sempre alcuni valori etici piuttosto di altri: per esempio, valori etici deboli e minimalisti piuttosto che convinzioni più esigenti. È una contraddizione, però, che fa pragmaticamente comodo a molti, e si è in genere disposti a passarci sopra.

La neutralità liberale ben si sposa con un altro dei tratti forti della società moderna: la tendenza a un razionalismo astratto che esalta l’uguaglianza e universalità della natura fino al completo oblio della storicità e individualità della persona. Sono i frutti dell’Illuminismo e del suo concetto di ragione, contro cui né Pascal né Kierkegaard né Nietzsche né le reazioni romantica e storicista hanno potuto molto. Oggi siamo tutti così martellati dall’eguaglianza di tutti gli esseri umani e dal rispetto dei diritti dell’uomo che quasi ci imbarazza ammettere di preferire passare qualche ora con nostro figlio piuttosto che con qualsiasi bambino del mondo o di sentirci più felici al pensiero di essere italiani piuttosto che, per esempio, francesi o inglesi. Come si possono giustificare queste discriminazioni, questi attentati contro la dignità della natura umana e il valore dell’uguaglianza? Se la felicità va contro la coerenza, allora sarebbe più coerente essere meno coerenti. Forse è questo che fanno molti giovani d’oggi, che più che d’uguaglianza sembrano in cerca di distinzione, più che di neutralità del senso della vita.

È paradossale che la crescita del desiderio di felicità degli individui di oggi sembri direttamente proporzionale alla crescita del tentativo di ignorarla al livello della teoria etica e politica pubblica. Il mondo pubblico sta diventando troppo “neutrale” per essere felice. E si fa sempre più opprimente la sensazione che la felicità possa solo essere trovata fuggendo (o alienandosi) dal mondo “civile”, con le sue campagne educative pubbliche e i suoi valori astratti. Certo, la società deve ormai essere multiculturale, ma questo non può divenire un ostacolo al bene dei suoi membri.

 

In età classica, l’etica cominciava col concetto di felicità inteso come l’ultima ragione d’agire degli esseri umani. Lo stesso concetto doveva poi informare il pensiero politico, sull’assunto che la politica dovrebbe aiutare i cittadini a ottenere ciò a cui maggiormente aspirano. Da questo punto di vista, una comunità politica è più forte quanto più offre risposte migliori alla felicità dell’uomo. Forse è anche per questo che nel nostro tempo si fanno meno figli, perché lo stato non offre quei segni di speranza e di vera felicità da cui il desiderio di figli scaturisce. Ed è anche ragionevole pensare che le difficoltà che attualmente s’incontrano sulla strada di un’Unione Europea più forte e coesa siano strettamente collegate alla perdita di una visione culturale comune su questo aspetto chiave della vita etica e politica.

 

Un segno interessante di crisi di una certa etica pubblica astratta e neutrale è il sorprendente successo filosofico del concetto di “narrativa”. L’idea di fondo è più semplice di quanto si possa a prima vista pensare: vale a dire, che la natura umana può essere meglio compresa, non da un punto di vista astratto e statico, ma nel contesto di una storia dotata di senso. Il concetto di narrativa indica il narrarsi della storia, il succedersi e il collegarsi delle azioni che compongono il tutto della vita. Il paragone è tra la vita umana e un romanzo. Chi è il personaggio di un romanzo si sa solamente man mano che si scrive o si legge, man mano che le sue azioni vengono all’esistenza. Tali azioni, poi, hanno significato solo se contestualizzate in un particolare orizzonte di senso. Il primo modo per introdurre il lettore all’identità del personaggio di una storia è, in effetti, descrivere l’ambiente in cui la vita di tale personaggio si svolge e s’inserisce: famiglia, educazione, amici (e nemici), scuola, ufficio, società… Tutte queste cose vanno scritte non solo perché rivelano accidentalmente la personalità del protagonista ma anche perché, in qualche modo, ne fanno parte integrante. Considerare il collegamento tra individuo e società come analogo al collegamento tra personaggio e ambientazione di una storia è davvero interessante. Ne emerge immediatamente, ad esempio, che la personalità (o identità) dell’individuo e la personalità (o identità) della società sono interrelate. Nessuno è libero di costruire la propria personalità indipendentemente dall’ambiente sociale; un ambiente che è a sua volta il frutto contingente dell’incontro di tante libertà individuali. Sotto questo profilo, è certamente sensato parlare di un diritto a partecipare alla configurazione culturale della comunità politica utilizzando qualunque argomento che si reputi rilevante per lo sviluppo della personalità propria e dei propri cari: sia quell’argomento “il rispetto della libertà religiosa”, o “il rispetto di alcune tradizioni specifiche”, o della “propria religione”, ecc.

Quel che mi preme di più, al momento, è il collegamento tra il concetto di narrativa e l’importanza della vita vista in una dimensione storica e sociale dotata di senso. Il personaggio del nostro romanzo forse si sente più felice quando pensa alla campagna in difesa della patria cui ha partecipato da giovane, e si commuove durante le parate commemorative di essa. O, forse, questo personaggio è americano, e si sente più felice quando pensa alla lunga storia della propria nazione, dalla guerra d’indipendenza in poi, in difesa dei valori della libertà democratica. O forse è italiano, e si sente più felice quando pensa che le sue radici culturali affondano nella Grecia e nella Roma pagana e cristiana, e la sua lingua nel latino e nel genio di Dante. Certo, all’italiano del sud non può piacere molto collegare la propria storia alle più recenti conquiste politiche del Regno di Piemonte e all’anticattolicesimo esasperato che le ha accompagnate. Questo anticattolicesimo ha negato e continua a negare una tradizione fortissima di valori e istituzioni cristiane, e l’unità nazionale non si può fondare sulla falsità storica... e sulle targhe, nomi di strade, statue a cavallo, ecc. Speriamo che Garibaldi si sia pentito, prima di morire, dei suoi pensieri, parole, opere e omissioni…

Il collegamento con la storia, con la narrativa, riguarda anche un nucleo più ristretto della vita degli individui, ed è fatto di migliaia di eventi significativi e di tradizioni familiari e sociali. Pensiamo a una mamma che prepara il cenone di Natale rispettando le più “accreditate” tradizioni familiari… quelle che danno felicità al focolare. Pensiamo a un anziano che venga rimosso dalla casa, dal paese e dalle abitudini in cui si pensa e capisce se stesso. Lo si renderebbe di certo infelice e, probabilmente, se ne accelererebbe il cammino verso la morte. O pensiamo anche a quando dobbiamo prendere delle decisioni importanti sul nostro futuro. Lo facciamo sempre guardando al passato: alla nostra famiglia, ai rapporti sociali e di amicizia che abbiamo instaurato, a ciò che ci è successo, a come abbiamo esercitato i nostri talenti, a quel che abbiamo appreso, e a mille altri dettagli ed eventi difficili da esaurire. L’idea è che ci sia un senso che colleghi il passato al futuro. Un senso che ci accolga, ci protegga e ci porti da qualche parte. Questo senso ci torna facilmente in mente negli ultimi momenti della vita, e può renderli pieni di felicità o di amarezza. Ed è un senso che ha perfino bisogno di andare oltre questo mondo, alla ricerca di una pienezza di significato della nostra storia su questa terra. La provvidenza, come narrativa dell’universo, prima ancora di essere un concetto teologico, è un’esigenza del cuore umano.

Il concetto di narrativa è stato sviluppato inizialmente da MacIntyre nell’ambito di una rivisitazione dell’etica aristotelica (cfr., soprattutto, il suo libro Dopo la virtù). Lo spunto è venuto dal concetto di virtù, che richiama necessariamente una dimensione sociale e, appunto, narrativa delle azioni buone o cattive. Le virtù, come ad esempio, la generosità, la fortezza, la temperanza, ecc., richiedono dei contesti sociali e linguistici di significato formatisi lentamente in una comunità. Una persona che venisse da una comunità completamente diversa potrebbe scambiare per coraggio un’azione che un’altra comunità definirebbe avventata o imprudente. Un’altra persona potrebbe scambiare per religiosità un’azione che noi definiremmo disumana (come lasciare morire un bambino per non fare una trasfusione di sangue). Il concetto di virtù aristotelico richiama dunque una dimensione sociale e una dimensione narrativa e storica del bene umano e di come rendere le persone felici.

Quando Aristotele parla direttamente della felicità come del fine ultimo dell’uomo, ne offre tre tratti definitori. La felicità dev’essere anzitutto un bene ricercato per se stesso e non uno strumento per ottenere qualcos’altro. È questo è ovvio, altrimenti la felicità, il vero appagamento dell’agente, risiederebbe piuttosto in quel “qualcos’altro”. La felicità, poi, non è mai desiderabile come mezzo per qualcos’altro. Anche questo dovrebbe essere ovvio, altrimenti la felicità non comprenderebbe tutto quel che è in grado di appagare l’agente. La felicità, se davvero tale, dev’essere invece completa di tutto ciò che appaga. Infine, dice Aristotele, la felicità è autosufficiente nel senso che, qualora fosse ottenuta, appagherebbe pienamente i desideri dell’agente senza bisogno di aggiungerle nient’altro.

Forse questo passo è troppo azzardato e richiederebbe ben altri approfondimenti, ma se si uniscono questi tratti del concetto aristotelico di felicità alle intuizioni cui accennavamo poco sopra, si potrebbe concludere che la felicità che davvero appaga l’essere umano (e lo fa morire sereno), deve comprendere un senso narrativo della propria vita che comprenda le tradizioni familiari e sociali, e la verità della storia patria, e l’origine e il senso delle proprie radici. Una società che non capisca questo è destinata a produrre cittadini sempre più infelici e a minare le basi del suo futuro.