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Palermo

25-29 ottobre, 2005

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Europa: Specchio del futuro*

 

Ralph McInerny

University of Notre Dame

 

 

 

L’ammasso di terra dell’Europa stava già lì prima dell’Impero Romano, ma fu l’impero a darle una lingua e una legge comuni. E fu la struttura imperiale a permettere la diffusione del Cristianesimo in quelle terre che il conquistatore considerò barbare. Uno sdegno di natura linguistica, naturalmente. Questa gente strana e selvaggia non parlava latino. Ma il contrasto non fu uno di quelli che riguardò semplicemente la sintassi e il vocabolario. E, tuttavia, per quanto sanguinosa, la conquista portò con sé quel precario beneficio chiamato pax romana. In ciò che Hegel avrebbe pensato in termini di Astuzia della Ragione nella storia, ma che si dovrebbe meglio pensare in termini di Provvidenza, le legioni resero possibile la cristianizzazione dell’Europa.

Il commento di Hilaire Belloc che l’Europa è la fede e la fede è l’Europa è stato spesso frainteso come se significasse che il Cristianesimo è un affare regionale. Ma Belloc stava richiamando l’attenzione sul fatto che l’unificazione reale dell’Europa ebbe luogo sotto l’egida della croce. E quel che fu compiuto in Europa si diffuse ampiamente e lontano nel mondo. La fiera affermazione di San Paolo, civis romanus sum, lo condusse a Roma con un’entrata che pochi avrebbero considerato trionfale. I secoli di conflitto, di martirio, durante i quali i cristiani si costituirono gradualmente come parte della res publica, erano cominciati.

L’apostata Edward Gibbon, nel suo vasto e tendenzioso resoconto della caduta dell’impero romano, punta il suo indice d’accusa sui cristiani. [1] Agostino, dal suo punto di osservazione in nord Africa, si era confrontato con la stessa accusa nella Città di Dio. In quest’opera grande e tentacolare – un racconto di due città – egli richiama l’attenzione sulla tensione creativa che avrebbe definito il futuro dell’Europa. Con Costantino, con la conversione dei re barbari e col futuro Sacro Romano Impero, questa tensione avrebbe potuto sembrare risolta, ma rimase. Quando il tredicesimo secolo si volse al quattordicesimo, Dante rimuginò sulla questione e sognò due poteri uguali, il Papa e l’Imperatore, ciascuno che derivava il suo potere da Dio. Un sogno non avverato, naturalmente. Platone aveva visto l’uomo come un piccolo stato, e in ogni cristiano v’è una battaglia costante tra il suo io battezzato e quello non battezzato: così fu per l’Europa. [2]

 

Nel nostro patriottismo cronologico, noi tendiamo a vedere la modernità come se cominciasse nel 1789, e senza dubbio così è. Il proposto abbattimento di principi e preti, l’atteggiamento superficiale di Kant in Che cos’è l’illuminismo?, resero lampante che il futuro dell’Europa avrebbe implicato una degradata e secolarizzata forma di Cristianesimo.

Gli spiritati profeti dell’Illuminismo ci invitano a considerare il contrasto tra quel che fu predetto e quel che di fatto seguì. E ciò, a sua volta, mi porta a considerare quelle grandi opere profetiche del ventesimo secolo che predissero il nostro tempo, talvolta con inquietante prescienza.

A metà del secolo, v’erano due romanzi che tentarono di scrutare nel futuro che è divenuto il nostro presente. Aldous Huxley pubblicò Il mondo nuovo [Brave New World]; e poi ci fu 1984 di George Orwell. Un tratto comune di queste storie magnifiche è che le loro critiche si basano su princìpi secolari, umanisti. Ciò appare in maniera ancor più dolorosa in Fahrenheit 451 (la temperatura a cui la carta brucia) di Ray Bradbury.[3] Huxley previde la disumanizzazione che sarebbe risultata dalla tecnologia asservita ai fini prometeici dell’uomo. I bambini sarebbero stati modellati in laboratori, prodotti secondo livelli differenziati, da delta ad alfa, programmati per certi compiti in società. Il sesso sarebbe divenuto mera ricreazione edonistica; l’amore e la fedeltà neppure sbiaditi ricordi. Huxley mette a confronto gli abitanti di questo ipotetico paradiso razionale con un’enclave di umani normali, soggetti all’età e alla malattia, alla gravidanza e alla nascita, e al persistere della morte. Nel coraggioso [brave] mondo nuovo, vi sono una più o meno perpetua gioventù, l’assenza di malattia e, poi, l’eutanasia. L’eroe del romanzo visita l’area di umani normali e lì si desta in lui un senso di vita a cui è stranamente attratto. Il mondo futuro di Orwell è un mondo totalitario, del grande Leviatano che annienta l’individualità e la riservatezza. È un’immagine potente del totalitarismo. Assente da entrambi gli scorci romanzeschi sul futuro è qualsiasi cosa anche remotamente rassomigliante la religione e un fine trascendente degli uomini.

Sguardi sul futuro più teologicamente soddisfacenti sono offerti dall’Anticristo di Vladimir Soloviev e da Il padrone del mondo di Hugh Benson: entrambi dell’inizio del ventesimo secolo. Questi romanzi finiscono entrambi con l’Armageddon, e i resoconti che offrono sulla futura Città dell’Uomo sono pieni di significato a motivo della presenza interpretativa in essi della Città di Dio.

 

Papa Benedetto XVI ha sottolineato l’insensatezza di cercare di capire l’Europa senza prestare attenzione alle sue radici cristiane. È quest’ovvio richiamo un segno dei sempre più numerosi scaffali di libri dedicati alla rovina dell’Europa? Certamente lo è, ma in modi sorprendentemente differenti. La demografia del vecchio continente, quando sommata alla crescente e pullulante presenza islamica, ha allarmato molti, tra cui, degna di nota è Bat Y’eor, con la sua accusa di dhimmitude. Oriana Fallaci, che descrive se stessa come un’atea cattolica, ha dedicato una trilogia di libri a lanciare l’allarme sull’islamizzazione dell’Europa: un processo in cui ella vede complicità da parte dei politici europei.[4] Ma si riduce tutto al riconoscimento di quel che c’è in gioco sul piano teologico?

Consentitemi un parallelismo. Negli ultimi decenni, è stata condotta nei colleges e nelle università una forte, e per lo più riuscita, campagna per rimpiazzare quel che viene chiamato il Canone Occidentale. Le grandi opere della letteratura occidentale compongono questo canone, opere la cui eccellenza è stata riconosciuta per secoli: Dante, Chaucer, Shakespeare, Milton, ecc. C’è sempre stata discussione su chi debba appartenere alla lista. T. S. Eliot ha dedicato molti sforzi a fare aggiungere alcuni autori e a farne togliere altri. Invero, si potrebbe dire che l’obiettivo della critica riposa precisamente nello stabilire e nel difendere questa lista di grandi libri. Il recente attacco non si è incentrato sul discutere – in base a criteri riconosciuti – se alcuni libri appartengano o no al canone. Al contrario, è stata sollevata la questione stessa dei criteri. Ci si è detto che i criteri secondo cui il canone occidentale è stato stabilito riflettono il dominio maschile e sciovinista, ed assunti classisti ed economici, col risultato che i libri consigliati sono parte di uno sforzo propagandistico, per quanto inconsapevole, di preservare i privilegi della classe al potere. Il risultato è che ogni raccomandazione di libri da leggere ha un fondamento ideologico.

Questa è una lunga storia, ma spero di aver dato della disputa indicazioni sufficienti a volgere gli occhi a un nobile sforzo di venire in difesa dei libri del canone occidentale. Sto pensando a The Western Canon di Harold Bloom, in cui il distinto critico prende in considerazione le accuse che ho appena suggerito e cerca di rispondervi. Benché insufficiente come difesa, è abbastanza comprensibile che uno studioso, che ha dedicato la vita allo studio, l’interpretazione e la promozione non solo dei classici della tradizione occidentale, ma anche di una massa di altri scritti di minor peso, debba essere nervoso e sconcertato di trovarsi circondato nell’accademia da colleghi il cui scopo è di demolire le basi stesse degli sforzi della sua vita.

 

Leggiamo Dante, come leggiamo Shakespeare, con la sensazione che stiamo intuendo che cosa significa essere un uomo. George Santayana ha definito Dante un poeta filosofico non perché abbia strutturato argomentazioni al modo dei filosofi ma perché la grande domanda «Qual è il significato di tutto?» riceve risposta dalla visione del mondo presupposta nella sua opera. La visione del tutto a cui il filosofo lavora laboriosamente per mezzo della riflessione, è ciò che il poeta semplicemente assume per poi lavorarvi dentro.

Ora, una delle lagnanze contro le opere del canone occidentale – penso sia la principale – dipende dagli assunti religiosi, cristiani, dei grandi autori. La mente secolarizzata è offesa dai ricordi del soprannaturale, o perfino dall’assunto che alcune azioni siano inequivocabilmente cattive. Ciò suggerisce che ogni seria difesa del canone occidentale debba cominciare con una difesa degli assunti fondamentali di quelle che sono state a lungo considerate le grandi conquiste artistiche della nostra civiltà. È qui che Harold Bloom delude. Egli si avvicina pericolosamente all’idea di raccomandare il canone occidentale sulla base del fatto che egli ha trascorso una vita intera su di esso e, personalmente, gli piacciono le opera in esso comprese. In breve, c’è qui l’odore del soggettivismo, o di ciò che potrebbe chiamarsi emotivismo letterario.

Un pieno apprezzamento dell’arte occidentale implica una ragionata accettazione dei suoi assunti. La filosofia e la teologia sono inevitabili, o finiremo con qualche versione del Cattolicesimo ateo di Oriana Fallaci. Un amore per le conquiste dell’arte occidentale che rimanga più o meno indipendente dalle sue fondamenta filosofiche e teologiche non è ignobile, ma è tristemente inadeguato.

Non voglio esprimere qualcosa di particolarmente sottile. Solo, salva reverentia, quello che mi sembra l’argomento di Benedetto XVI. Ci sono molti approcci ragionevoli ed intermediari alla crisi in cui versiamo. Ma essi hanno la forza che hanno perché, seppur inconsapevolmente, prendono a prestito da quello che è il solo approccio profondo e adeguato. Si può amare e apprezzare Dante per molte ragioni – buone ragioni – ma è davvero possibile impadronirsi del suo mondo senza impadronirsene, cioè, senza condividere la sua fede? Se il ruolo della Santa Vergine nella Commedia, per esempio, viene visto come una mera allegoria letteraria, si perderà l’intero apporto di questa umile serva cui Dante si rivolge mane e sera.

Se il 1789 è una data essenziale per l’occidente, ancor più importante è il 1879. Questo era l’anno della Aeterni Patris di Leone XIII, che ci diresse a quella filosofia cristiana che si formò nei secoli ma che si era eclissata a partire dall’Illuminismo, con conseguenze sociali e morali devastanti. Il malore cui si era rivolto Leone XIII è cresciuto, ma il rimedio è lo stesso. Dunque la Fides et Ratio di Giovanni Paolo II. Dunque anche la lezione di Benedetto a Regensburg.[5] Per difendere la fede, dobbiamo prima venire in difesa della ragione. Senza una filosofia coerente, la teologia è impossibile. E senza entrambe la filosofia e la teologia, la nostra società affonderà più profondamente nelle difficoltà.

 

 


 


* Traduzione dall’inglese di Fulvio Di Blasi.

[1] Nella vita del dottor Samuel Johnson scritta da Boswell si trovano molti commenti  dispregiativi su Gibbon, che il grande lessicografo conosceva. Ci si disfa di Gibbon, per esempio, menzionandolo come quel «famigerato infedele» [Gibbon si erano convertito al Cattolicesimo e l’aveva poi ripudiato]. Cfr., James Boswell, Life of Johnson, curato da R. W. Chapman e J. D. Fleeman, Oxford University Press, Oxford, 1980, p. 1038.

[2] Che il concetto di Europa possa essere difficile da definire è la tesi di Remi Brague in Europe, la voie romaine, ora disponibile anche in inglese nella traduzione di Samuel Lester dal titolo Eccentric Culture, A Theory of Western Civilization (St. Augustine’s Press, South Bend, IN, 2002). Per quel che conta, si capisce facilmente il commento di James Joyce che l’Irlanda è un ripensamento [afterthought] dell’Europa. Forse desiderando che fosse ancora vera.

[3] Nel romanzo di Bradbury, qualunque cosa sia stampata è sacra, e le nostre simpatie sono invocate in favore delle riverenza indiscriminata per la parola pubblicata. Il romanzo potrebbe costituire un parere giuridico nel caso dell’American Library Association contro la censura quando, ad esempio, i cittadini si oppongono alla pornografia nella biblioteca pubblica. Bradbury sembra non essersi preoccupato dei giornali, ma di certo i caminetti del mondo si congelerebbero se il New York Times di ieri non fosse usato per rimpinguare il fuoco. Viene da pensare al magnifico saggio del Cardinale Newman, “The Tamworth Reading Room”.

[4] Altri trovano questa predizione esagerata. Cfr, Philip Jenkins, God’s Continent: Christianity, Islam, and Europe’s Religious Crisis, Oxford University Press, Oxford, 2007; cfr., anche, Richard John Neuhaus, “The Much Exaggerated Death of Europe”, in First Things, maggio, 2007.

[5] Cfr., adesso, Jame V. Schall, S.J., The Regensburg Lecture, St. Augustine’s Press, South Bend, IN, 2007.

 
 
     
 

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