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Europa: Specchio del
futuro
Ralph McInerny
University of Notre Dame
L’ammasso di terra
dell’Europa stava già lì prima dell’Impero Romano, ma fu
l’impero a darle una lingua e una legge comuni. E fu la
struttura imperiale a permettere la diffusione del Cristianesimo
in quelle terre che il conquistatore considerò barbare. Uno
sdegno di natura linguistica, naturalmente. Questa gente strana
e selvaggia non parlava latino. Ma il contrasto non fu uno di
quelli che riguardò semplicemente la sintassi e il vocabolario.
E, tuttavia, per quanto sanguinosa, la conquista portò con sé
quel precario beneficio chiamato pax romana. In ciò che
Hegel avrebbe pensato in termini di Astuzia della Ragione nella
storia, ma che si dovrebbe meglio pensare in termini di
Provvidenza, le legioni resero possibile la cristianizzazione
dell’Europa.
Il commento di Hilaire Belloc che
l’Europa è la fede e la fede è l’Europa è stato spesso frainteso
come se significasse che il Cristianesimo è un affare regionale.
Ma Belloc stava richiamando l’attenzione sul fatto che
l’unificazione reale dell’Europa ebbe luogo sotto l’egida della
croce. E quel che fu compiuto in Europa si diffuse ampiamente e
lontano nel mondo. La fiera affermazione di San Paolo, civis
romanus sum, lo condusse a Roma con un’entrata che pochi
avrebbero considerato trionfale. I secoli di conflitto, di
martirio, durante i quali i cristiani si costituirono
gradualmente come parte della res publica, erano
cominciati.
L’apostata Edward Gibbon, nel suo
vasto e tendenzioso resoconto della caduta dell’impero romano,
punta il suo indice d’accusa sui cristiani. Agostino, dal suo punto di osservazione
in nord Africa, si era confrontato con la stessa accusa nella
Città di Dio. In quest’opera grande e tentacolare –
un racconto di due città – egli richiama l’attenzione sulla
tensione creativa che avrebbe definito il futuro dell’Europa.
Con Costantino, con la conversione dei re barbari e col futuro
Sacro Romano Impero, questa tensione avrebbe potuto sembrare
risolta, ma rimase. Quando il tredicesimo secolo si volse
al quattordicesimo, Dante rimuginò sulla questione e sognò
due poteri uguali, il Papa e l’Imperatore, ciascuno che derivava
il suo potere da Dio. Un sogno non avverato, naturalmente.
Platone aveva visto l’uomo come un piccolo stato, e in ogni
cristiano v’è una battaglia costante tra il suo io battezzato
e quello non battezzato: così fu per l’Europa.
Nel nostro patriottismo
cronologico, noi tendiamo a vedere la modernità come se
cominciasse nel 1789, e senza dubbio così è. Il proposto
abbattimento di principi e preti, l’atteggiamento superficiale
di Kant in Che cos’è l’illuminismo?, resero lampante che
il futuro dell’Europa avrebbe implicato una degradata e
secolarizzata forma di Cristianesimo.
Gli spiritati profeti dell’Illuminismo
ci invitano a considerare il contrasto tra quel che fu predetto
e quel che di fatto seguì. E ciò, a sua volta, mi porta a
considerare quelle grandi opere profetiche del ventesimo secolo
che predissero il nostro tempo, talvolta con inquietante
prescienza.
A metà del secolo, v’erano due romanzi
che tentarono di scrutare nel futuro che è divenuto il nostro
presente. Aldous Huxley pubblicò Il mondo nuovo [Brave
New World]; e poi ci fu 1984 di George Orwell. Un
tratto comune di queste storie magnifiche è che le loro critiche
si basano su princìpi secolari, umanisti. Ciò appare in maniera
ancor più dolorosa in Fahrenheit 451 (la temperatura a
cui la carta brucia) di Ray Bradbury.
Huxley previde la disumanizzazione che sarebbe risultata dalla
tecnologia asservita ai fini prometeici dell’uomo. I bambini
sarebbero stati modellati in laboratori, prodotti secondo
livelli differenziati, da delta ad alfa, programmati per certi
compiti in società. Il sesso sarebbe divenuto mera ricreazione
edonistica; l’amore e la fedeltà neppure sbiaditi ricordi.
Huxley mette a confronto gli abitanti di questo ipotetico
paradiso razionale con un’enclave di umani normali, soggetti
all’età e alla malattia, alla gravidanza e alla nascita, e al
persistere della morte. Nel coraggioso [brave]
mondo nuovo, vi sono una più o meno perpetua gioventù, l’assenza
di malattia e, poi, l’eutanasia. L’eroe del romanzo visita
l’area di umani normali e lì si desta in lui un senso di vita a
cui è stranamente attratto. Il mondo futuro di Orwell è un mondo
totalitario, del grande Leviatano che annienta l’individualità e
la riservatezza. È un’immagine potente del totalitarismo.
Assente da entrambi gli scorci romanzeschi sul futuro è
qualsiasi cosa anche remotamente rassomigliante la religione e
un fine trascendente degli uomini.
Sguardi sul futuro più teologicamente
soddisfacenti sono offerti dall’Anticristo di Vladimir
Soloviev e da Il padrone del mondo di Hugh Benson:
entrambi dell’inizio del ventesimo secolo. Questi romanzi
finiscono entrambi con l’Armageddon, e i resoconti che offrono
sulla futura Città dell’Uomo sono pieni di significato a motivo
della presenza interpretativa in essi della Città di Dio.
Papa Benedetto XVI
ha sottolineato l’insensatezza di cercare di capire l’Europa
senza prestare attenzione alle sue radici cristiane. È quest’ovvio
richiamo un segno dei sempre più numerosi scaffali di libri
dedicati alla rovina dell’Europa? Certamente lo è, ma in modi
sorprendentemente differenti. La demografia del vecchio
continente, quando sommata alla crescente e pullulante presenza
islamica, ha allarmato molti, tra cui, degna di nota è Bat Y’eor,
con la sua accusa di dhimmitude. Oriana Fallaci, che
descrive se stessa come un’atea cattolica, ha dedicato una
trilogia di libri a lanciare l’allarme sull’islamizzazione
dell’Europa: un processo in cui ella vede complicità da parte
dei politici europei.
Ma si riduce tutto al riconoscimento di quel che c’è in gioco
sul piano teologico?
Consentitemi un parallelismo. Negli
ultimi decenni, è stata condotta nei colleges e nelle
università una forte, e per lo più riuscita, campagna per
rimpiazzare quel che viene chiamato il Canone Occidentale. Le
grandi opere della letteratura occidentale compongono questo
canone, opere la cui eccellenza è stata riconosciuta per secoli:
Dante, Chaucer, Shakespeare, Milton, ecc. C’è sempre stata
discussione su chi debba appartenere alla lista. T. S. Eliot ha
dedicato molti sforzi a fare aggiungere alcuni autori e a farne
togliere altri. Invero, si potrebbe dire che l’obiettivo della
critica riposa precisamente nello stabilire e nel difendere
questa lista di grandi libri. Il recente attacco non si è
incentrato sul discutere – in base a criteri riconosciuti – se
alcuni libri appartengano o no al canone. Al contrario, è stata
sollevata la questione stessa dei criteri. Ci si è detto che i
criteri secondo cui il canone occidentale è stato stabilito
riflettono il dominio maschile e sciovinista, ed assunti
classisti ed economici, col risultato che i libri consigliati
sono parte di uno sforzo propagandistico, per quanto
inconsapevole, di preservare i privilegi della classe al potere.
Il risultato è che ogni raccomandazione di libri da leggere ha
un fondamento ideologico.
Questa è una lunga storia, ma spero di
aver dato della disputa indicazioni sufficienti a volgere gli
occhi a un nobile sforzo di venire in difesa dei libri del
canone occidentale. Sto pensando a The Western Canon di
Harold Bloom, in cui il distinto critico prende in
considerazione le accuse che ho appena suggerito e cerca di
rispondervi. Benché insufficiente come difesa, è abbastanza
comprensibile che uno studioso, che ha dedicato la vita allo
studio, l’interpretazione e la promozione non solo dei classici
della tradizione occidentale, ma anche di una massa di altri
scritti di minor peso, debba essere nervoso e sconcertato di
trovarsi circondato nell’accademia da colleghi il cui scopo è di
demolire le basi stesse degli sforzi della sua vita.
Leggiamo Dante, come
leggiamo Shakespeare, con la sensazione che stiamo
intuendo che cosa significa essere un uomo. George Santayana ha
definito Dante un poeta filosofico non perché abbia strutturato
argomentazioni al modo dei filosofi ma perché la grande domanda
«Qual è il significato di tutto?» riceve risposta dalla visione
del mondo presupposta nella sua opera. La visione del tutto a
cui il filosofo lavora laboriosamente per mezzo della
riflessione, è ciò che il poeta semplicemente assume per poi
lavorarvi dentro.
Ora, una delle lagnanze contro le
opere del canone occidentale – penso sia la principale – dipende
dagli assunti religiosi, cristiani, dei grandi autori. La mente
secolarizzata è offesa dai ricordi del soprannaturale, o perfino
dall’assunto che alcune azioni siano inequivocabilmente cattive.
Ciò suggerisce che ogni seria difesa del canone occidentale
debba cominciare con una difesa degli assunti fondamentali di
quelle che sono state a lungo considerate le grandi conquiste
artistiche della nostra civiltà. È qui che Harold Bloom delude.
Egli si avvicina pericolosamente all’idea di raccomandare il
canone occidentale sulla base del fatto che egli ha trascorso
una vita intera su di esso e, personalmente, gli piacciono le
opera in esso comprese. In breve, c’è qui l’odore del
soggettivismo, o di ciò che potrebbe chiamarsi emotivismo
letterario.
Un pieno apprezzamento dell’arte
occidentale implica una ragionata accettazione dei suoi assunti.
La filosofia e la teologia sono inevitabili, o finiremo con
qualche versione del Cattolicesimo ateo di Oriana Fallaci. Un
amore per le conquiste dell’arte occidentale che rimanga più o
meno indipendente dalle sue fondamenta filosofiche e teologiche
non è ignobile, ma è tristemente inadeguato.
Non voglio esprimere qualcosa di
particolarmente sottile. Solo, salva reverentia, quello
che mi sembra l’argomento di Benedetto XVI. Ci sono molti
approcci ragionevoli ed intermediari alla crisi in cui versiamo.
Ma essi hanno la forza che hanno perché, seppur
inconsapevolmente, prendono a prestito da quello che è il solo
approccio profondo e adeguato. Si può amare e apprezzare Dante
per molte ragioni – buone ragioni – ma è davvero possibile
impadronirsi del suo mondo senza impadronirsene, cioè, senza
condividere la sua fede? Se il ruolo della Santa Vergine nella
Commedia, per esempio, viene visto come una mera
allegoria letteraria, si perderà l’intero apporto di questa
umile serva cui Dante si rivolge mane e sera.
Se il 1789 è una data essenziale per
l’occidente, ancor più importante è il 1879. Questo era l’anno
della Aeterni Patris di Leone XIII, che ci diresse a
quella filosofia cristiana che si formò nei secoli ma che si era
eclissata a partire dall’Illuminismo, con conseguenze sociali e
morali devastanti. Il malore cui si era rivolto Leone XIII è
cresciuto, ma il rimedio è lo stesso. Dunque la Fides et
Ratio di Giovanni Paolo II. Dunque anche la lezione di
Benedetto a Regensburg.
Per difendere la fede, dobbiamo prima venire in difesa della
ragione. Senza una filosofia coerente, la teologia è
impossibile. E senza entrambe la filosofia e la teologia, la
nostra società affonderà più profondamente nelle difficoltà.
Nella vita del
dottor Samuel Johnson scritta da Boswell si trovano molti
commenti dispregiativi su Gibbon, che il grande
lessicografo conosceva. Ci si disfa di Gibbon, per esempio,
menzionandolo come quel «famigerato infedele» [Gibbon si
erano convertito al Cattolicesimo e l’aveva poi ripudiato].
Cfr., James Boswell,
Life of Johnson, curato da
R. W. Chapman e J. D. Fleeman, Oxford University Press,
Oxford, 1980, p. 1038.
Che il concetto di
Europa possa essere difficile da definire è la tesi di
Remi Brague in
Europe, la voie romaine, ora disponibile anche in
inglese nella traduzione di Samuel Lester dal titolo
Eccentric Culture, A Theory of Western Civilization (St.
Augustine’s Press, South Bend, IN, 2002). Per quel che
conta, si capisce facilmente il commento di James Joyce che
l’Irlanda è un ripensamento [afterthought]
dell’Europa. Forse desiderando che fosse ancora vera.
Nel romanzo di
Bradbury, qualunque cosa sia stampata è sacra, e le nostre
simpatie sono invocate in favore delle riverenza
indiscriminata per la parola pubblicata. Il romanzo potrebbe
costituire un parere giuridico nel caso dell’American
Library Association contro la censura quando, ad esempio, i
cittadini si oppongono alla pornografia nella biblioteca
pubblica. Bradbury sembra non essersi preoccupato dei
giornali, ma di certo i caminetti del mondo si
congelerebbero se il New York Times di ieri non fosse usato
per rimpinguare il fuoco. Viene da pensare al magnifico
saggio del Cardinale
Newman, “The Tamworth Reading Room”.
Altri trovano
questa predizione esagerata. Cfr,
Philip Jenkins,
God’s Continent: Christianity, Islam, and Europe’s
Religious Crisis, Oxford University Press, Oxford, 2007;
cfr., anche, Richard
John Neuhaus, “The Much Exaggerated Death of Europe”,
in First Things, maggio, 2007.
Cfr., adesso,
Jame V. Schall,
S.J., The Regensburg Lecture, St. Augustine’s Press,
South Bend, IN, 2007.
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