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RISCRIVERE
I POETI NEI PERSONAGGI DI PLATONE
David K. O'Connor
University of Notre Dame
Traduzione italiana di
Gisella D'Addelfio
Platone conferisce
profondità ai suoi personaggi scrivendo in tre dimensioni. Nei
principali dialoganti della Repubblica - Socrate e i suoi
più giovani amici, Glaucone e Adimanto, fratelli di Platone,
nella vita reale -, Platone descrive esseri pienamente umani.
Innanzitutto alla vista del lettore, vi sono persone che
argomentano e argomenti, così la dimensione logica del
personaggio, diventa, in modo molto immediato, visibile. Questi
uomini, però, non sono mere teste pensanti o menti disincarnate.
Essi hanno attorno a loro l'odore della mortalità, con le loro
storie individuali, le loro personalità, i loro impegni. Non è
soltanto una questione di quali argomenti sono svolti, ma di che
tipo di uomo svolgerebbe un particolare argomento, lo
accetterebbe, o lo desidererebbe molto. In effetti, Socrate
comincia virtualmente la sua conversazione con i fratelli
dicendo che risponderebbe ai loro argomenti in modo differente
se avesse una differente visione del loro carattere (368a-b).
Noi cogliamo qualcosa di questa dimensione etica e psicologica
dello scritto di Platone quando, per esempio, Socrate deve
scherzosamente difendersi in un finto processo, ricordandoci che
un giorno egli sarà processato seriamente, quando Glaucone
lascia scorrere una vena erotica che preferirebbe non avere,
quando i limiti di Adimanto sono implicitamente rivelati da
Socrate che li supera nella conversazione con il suo più
brillante fratello.
Così i personaggi di Platone fanno più che rivelare l'esplicita
logica di un argomento. La dimensione etica delle parole ci pone
sulla pista di segreti moventi e non riconosciute ironie; ma
quello che i personaggi significano va oltre qualsiasi cosa i
semplici individui Socrate, Glaucone, Adimanto potrebbero dire,
a prescindere da quanto logicamente acuto e psicologicamente
adeguato lo scritto di Platone possa essere. Infatti, in mano a
Platone, Socrate e gli altri non sono soltanto individui; essi
diventano rappresentanti ed esemplari delle possibilità umane
come tali. Platone investe i suoi personaggi di questa ulteriore
dimensione di significato proiettandoli in gigantesche figure
del mito. Per questa proiezione, la Repubblica dipende
primariamente dal racconto omerico della discesa di Odisseo
nell'oltretomba (Odissea XI), nota come "La visita ai
morti" (in greco, Nekuia).
Questa intimità con il mito è, ed è il minimo che si possa dire,
non proclamata a suon di tromba nella Repubblica.
Nel decimo e ultimo libro di quest'opera, Socrate riflette sulle
mancanze dei poeti che sono stati gli educatori della Grecia,
specialmente Omero. Egli quasi li esclude dalla sua perfetta
città-nel-discorso. Socrate giunge a questo giudizio con un
senso di perdita ed una riluttanza quasi imbarazzata. "Una certa
affezione e un certo timore reverenziale nutriti fin da giovane
nei confronti di Omero mi trattengono dal farlo" egli dice; e
ancora "non è lecito aver più rispetto per l'uomo che per la
verità" (595b-c). Ma è una verità dura nonostante ciò, e più in
là Socrate suggerisce che se qualcuno può fornire un argomento
che mostri che la poesia fa bene alla città, "noi saremmo ben
felici di accoglierla, perché siamo perfettamente coscienti del
fascino che esercita anche su di noi" (607c).
[trad. Radice]
A questo punto, i lettori potrebbero pensare che Platone abbia
bandito l'amicizia e il fascino dei poeti per sempre; ma se noi
teniamo le orecchie bene aperte, la Repubblica in modo
discreto riecheggia con i toni di Omero. La più corposa
risonanza giunge nella consistente appropriazione di Platone del
grande mito della vita dopo la morte che conclude la
Repubblica, e il suo riscrivere Omero risuona attraverso
tutta l'opera, e dà alla Repubblica il suo carattere a
tre dimensioni.
Sentire la voce di Platone, lettore dei poeti,
risuonare nei personaggi di Platone, scrittore della
Repubblica, ci apre alla terza mitica dimensione di questo
gigantesco dialogo. Quando Platone crea il suo racconto omerico
della "visita ai morti", egli porta nell'analisi logica e nel
dramma etico del dialogo, un tono sommesso da commento mitico,
commento costruito a partire dagli echi dei suoi esiliati
predecessori nell'educazione della Grecia.
Noi siamo stati preparati al duro giudizio socratico nel decimo
libro dalla sua famigerata discussione con Adimanto sul
"censurare" i poeti, nei libri secondo e terzo (376d-398b). Se
qualche grande poeta sorge nella città che noi stiamo fondando,
dice Socrate, "lo dirotteremmo verso altre città, [.] a noi, che
miriamo a quel che è utile, servirebbe un poeta o un narratore
di miti, magari meno piacevole, però più serio." (398a-b).
Socrate ha in mente il beneficio per l'educazione dei guardiani
nella sua città-nel-discorso, e pone l'attenzione sul bisogno di
riformare il contenuto della "musica" (che significa
specialmente la poesia di Omero), per farne un veicolo di virtù
civile e patriottismo. Nel primo passaggio che esaminiamo per
comprendere il modo in cui esso ritrae gli umani, Socrate
critica la presentazione che Omero fa del destino degli eroi che
muoiono in battaglia (386a-d):
"Ma poi, se [i custodi] devono prepararsi ad essee coraggiosi?"
[disse Socrate]. "Non si dovranno allora dir loro, insieme con
queste cose, altre in grado di far sì che essi temano la morte
il meno possibile? [...] Chi ritiene che l'Ade esista e sia
tremendo, pensi che potrà non temere la morte e in battaglia
preferire la morte alla sconfitta e all'asservimento?"
"Certo no" [disse Adimanto].
"Bisogna dunque, a quanto pare, che noi
sovrintendiamo anche a coloro che si dedicano a raccontare
questo genere di favole, e raccomandiamo loro di non deplorare
così semplicemente i fatti dell'Ade, ma piuttosto di lodarli,
perché altrimenti direbbero cose non vere e neppure utili a
diventare un buon combattente."
"Bisogna proprio"disse.
"Cancelleremo dunque, dissi io, a cominciare dai
versi che seguono tutte le affermazioni dello stesso genere:
Vorrei esser bifolco, servire un padrone,
un diseredato, che non avesse ricchezza
piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte".
[trad. Vegetti]
"Pensi" [disse Socrate] "che [l'uomo che è uscito dalla caverna]
sarebbe ancora desideroso di ottenerli [degli onori che gli
abitanti della caverna si tributavano reciprocamente], o
invidioso di quelli che ricevono onori e potere fra i
prigionieri, o piuttosto, condividendo quel che dice Omero,
preferirebbe di molto "esser bifolco, servire un padrone, un
diseredato" e sopportare qualsiasi prova pur di non opinare
quelle cose e vivere quella vita?"
"Così" disse [Glaucone] "credo anch'io: tutto accetterebbe di
soffrire piuttosto che
vivere in quel modo".
Questa è la seconda volta in cui Socrate fa
riferimento all'anima di Achille, il che ci mette di fronte ad
una difficoltà. Infatti, ora Socrate usa le parole di Omero
esattamente per compromettere l'attaccamento di un determinato
uomo al potere politico e agli affari di una qualsiasi città.
Queste precise parole erano state censurate per la loro tendenza
a produrre precisamente l'effetto che Socrate vuole produrre
qui: esse tendono a compromettere un incondizionato attaccamento
del singolo alla politica e alla città. L'orientamento che
Socrate dà a Glaucone ora contraddice nettamente la pedagogia su
cui egli stesso e Adimanto si erano trovati d'accordo
precedentemente.
Socrate ha criticato il triste inferno di Omero in quanto
scoraggia i custodi su cui la città deve fare affidamento
proprio per il loro coraggio. Ma tale identificazione socratica
della politica con l'inferno non ha forse lo stesso effetto,
seppure per ragioni differenti? Socrate sembra essere un cattivo
educatore del particolare uomo Glaucone, così come si era detto
Omero fosse stato dei custodi. Socrate cita Omero per rendere la
scelta tra la filosofia e la politica la scelta tra la vita e la
morte. E questo non si coniuga forse questo malamente con
l'ottimistica e radicale ambizione di fondare una città "pura",
anche se solo nel discorso?
Queste sono domande imbarazzanti. Sono anche domande platoniche?
Alcuni lettori dubiteranno che lo siano. Il fatto che Platone
abbia creato questa eco omerica attraverso centotrenta pagine di
testo potrebbe dopo tutto essere una coincidenza, un errore, o
un'infelicità di poco conto. Tutti gli argomenti dati, tutte le
posizioni definite, in breve tutta la complessità logica del
dialogo che è intercorsa tra questi due punti potrebbe eclissare
il significato della piccola voce omerica, un sussurro di mito
perso in un vortice di filosofia. Ma il sussurro comincia molto
presto. "Discesi ieri al Pireo in compagnia di Glaucone"
recitano le parole di apertura della Repubblica. Questa
apertura potrebbe essere irrilevante; portare un amico dalla
città di Atene giù fino al suo porto non costituisce in se
stesso un evento portentoso, sebbene Socrate sembri non averlo
fatto molto spesso. Il suo ospite Cefalo, un uomo anziano
ossessionato dalla sua paura della vita dopo la morte si
lamenta: "Socrate, non vieni spesso a visitarci scendendo al
Pireo" (328c) [trad. Vegetti].
La ripetizione di due forme del termine "discesa" (in greco,
katabasis) hanno sfumature mitiche. Infatti, katabasis
è la parola usata per indicare un viaggio nell'oltretomba. In
particolare, è questa la parola che lo stesso Odisseo usa quanto
racconta a sua moglie Penelope la propria "visita ai morti" (Odissea
XXIII.252).
La discesa iniziale, che per se stessa potrebbe essere troppo
debole come allusione, è richiamata nel "Mito di Er", il mito
conclusivo della Repubblica circa la vita dopo la morte.
Socrate dice a Glaucone come le anime dei morti ascendono dal
castigo sotto la terra o discendono dalla ricompensa nei cieli
(614d) e si preparano a scegliere una nuova vita che
vivranno quando, di lì a poco, rinasceranno in una nuova
incarnazione. Dopo aver tirato a sorte per determinare l'ordine
della scelta, le anime cominciano a fare le loro scelte. Molte
scelgono in modo non saggio; ma non così l'ultima anima
(620c-d):
"L'anima di Odisseo," [disse Socrate], "cui la sorte aveva
riservato proprio l'ultimo posto di tutti, si avviò alla scelta
lasciando da parte ogni desiderio di gloria, memore delle
sofferenze della vita precedente; si aggirò pertanto a lungo,
alla ricerca della vita di un uomo qualunque senza
preoccupazioni,
e la trovò a fatica relegata in un angolo, trascurata dagli
altri. Non appena la scorse, la prese di buon grado, dicendo che
non avrebbe fatto altra scelta neppure se fosse stata
sorteggiata per prima."
[trad. Radice]
É Socrate stesso che sembra essere proiettato in un
mesto Odisseo che si ritira a vita privata dal subbuglio delle
sue "fatiche" (in greco, ponoi) - parola usata per
indicare le avventure i compiti dell'eroe. L'eroe ascenderà e
tornerà alla vita con un nuovo modo di vedere che lo tiene puro
dall'ambizione politica.
Questa è la mitologizzazione platonica della precedente
conversazione di Socrate con Adimanto, che sembrava allora
meramente personale ed etica (496a-e):
"Ben piccolo dunque, Adimanto," [disse Socrate,] "resta il
numero di coloro si uniscono degnamente alla filosofia. [.] [Il
vero filosofo] resta inattivo e attende alle proprie cose [.].
Vedendo gli altri traboccare di illegalità, si ritiene contento
di poter vivere almeno la propria vita quaggiù puro
d'ingiustizia e di azioni empie, e alla sua fine potrà
lasciarla, accompagnato da una bella speranza, con l'animo
sereno e disteso"
[trad. Vegetti]
Socrate descrive una "discesa" altre quattro volte nel dialogo,
e tutte e quattro rinforzano ed abbelliscono questo tema dell'Odissea.
Infatti, tre volte c'è una diretta connessione con il secondo
riferimento di Socrate al lamento dell'anima di Achille nella
"Allegoria della Caverna" (la quarta, 511 b, è parte
dell'immediatamente precedente descrizione della linea divisa).
In tutte e tre queste volte, Socrate dice a Glaucone che, anche
nella città perfetta, i custodi che completano la loro
educazione filosofica vorranno fuggire dalla politica,
riconoscendo in essa un mondo dei morti al confronto con la vita
della mente, all'esterno della caverna. Ma, dice Socrate,
saranno costretti a "scendere" giù nel mondo della politica e
ad occuparsi di tutte le sue insignificanti "fatiche" (ponoi)
e dei suoi onori (516e, 519b, 520d, 539e).
Fin qui, noi abbiamo considerato Socrate come Odisseo,
l'intrepido e intelligente ospite di passaggio, esule in questa
terra di fatiche per il bene di altri. (Nella loro descrizione
del discorso di difesa di Socrate al suo processo, Platone e
Senofonte fanno entrambi proiettare a Socrate il suo esame dei
concittadini come un'eroica fatica; cfr. Platone, Apologia
22a, e Senofonte, Apologia 17.) L'appropriazione di
Platone della "visita ai morti" è significativamente più ambigua
di quanto non sarebbe questo eroico Socrate. Per vedere questa
ambiguità, è di nuovo di aiuto ritornare al passaggio in cui
Socrate e Adimanto "correggono" la descrizione omerica della
vita oltre la morte.
Infatti, dopo che Socrate e Adimanto hanno censurato il lamento
dell'anima di Achille, il successivo passaggio dell'Odissea
che essi disapprovano (Odissea X.494-495) è il consiglio
di Circe ad Odisseo di cercare l'anima di Tiresia, il profeta
tebano che sarà la guida di Odisseo nell'oltretomba, e il suo
consigliere su come ritornare a casa. Tiresia si distingue da
tutte le altre ombre per uno speciale dono concessogli da
Persefone, la regina del regno dei morti (Socrate cita solo il
secondo verso, nel passo 386d):
A lui solo Persefone diede anche da morto
la facoltà di esser savio; gli altri sono ombre vacanti.
Questo è l'unico passaggio in cui Omero chiama
direttamente le persone dell'oltretomba "ombre" (in greco,
skiai). (Odisseo un poco più avanti dice che l'anima di sua
madre Anticlea era "come un ombra" quando egli cercava di
abbracciarla: Odissea XI.207). Platone, con la sua
straordinaria sensibilità come lettore e come scrittore, era
colpito dalla parola "ombre". Nella "allegoria della caverna"
egli usa "ombra" otto volte in tre pagine per descrivere ciò che
l'anima non filosofica vede. (515a-517d). Questa densità delle
ombre platoniche risuona con la conversazione di Odisseo con
Achille, che rinforza l'appropriazione del mito omerico da parte
di Platone. (Anche Socrate usa "ombre" una mezza dozzina di
volte per descrivere i livelli più bassi della linea divisa, nei
passi 509d-510d e 532b-c, esattamente come usa "discesa" sia a
proposito della linea sia della caverna.)
Queste ombre, però, aggiungono anche una nota
potenzialmente discordante alla discesa, con l'intrusione di
Tiresia. Altri dialoghi sfruttano questa proiezione di Socrate
del personaggio omerico di Tiresia che guida la discesa di
Odisseo, in particolare il Protagora (315b9 e c8) e il
Menone (100a5). Quando pensiamo a Socrate stesso che
discende e ascende, noi abbiamo una proiezione mitica; ma quando
noi lo proiettiamo invece sul profeta cieco e accorto, che guida
qualcun altro attraverso la discesa e, ancor di più, attraverso
l'ascesa che egli stesso non potrebbe fare, Socrate assume un
carattere mitico molto diverso. "Discesi" ha cominciato Socrate;
ma "insieme con Glaucone" ha continuato. La proiezione di
Socrate, come carismatico compagno di Glaucone, più che egli
stesso guida, si adatta molto bene all'azione drammatica
dell'apertura della Repubblica. La figura di un vecchio,
che si distingue per il suo ingegno e la sua saggezza, conduce
un protagonista più giovane, più fragile e lo aiuta a trovare la
sua strada nel mondo delle ombre. La trama richiede che l'eroe
risalga il percorso di nuovo. Ma la guida cieca potrebbe cadere
sul margine della strada, non importa con quanta forza egli si
appoggi al suo bastone.
Platone sviluppa il tema di Tiresia nella stessa
sezione in cui ricapitola il lamento di Achille, all'interno
della "allegoria della caverna"; infatti quest'ultima non è il
racconto di un qualche eroe autosufficiente che, solo grazie ai
suoi propri sforzi, fugge verso la luce. Essa è concepita
primariamente come il racconto di una "educazione" (514a), di
una "conversione" (518b-d). Questa conversione non è piacevole,
né è pienamente volontaria. I prigionieri nella caverna sono
liberati solo dietro il fastidioso pungolo di una guida che li
"trascinerà" su (515e). Questa spiacevole guida opera
"costringendoli a rispondere alle sue domande" (514d). Quando i
prigionieri vedono come la guida confonda uno di loro cercando
di "liberarlo e condurlo su" vorranno persino ucciderlo (515d,
517a). Come il riferimento al lamento di Achille, questa
introduzione da parte di Glaucone e di Socrate al tema di una
guida nell'oltretomba aggiunge una dimensione mitica ad una
conversazione precedente con Adimanto. Supponi che qualcuno
persuada un giovane di talento, aveva detto Socrate ad Adimanto,
a rigettare l'influenza corruttrice dei suoi amici e lacchè, e
"lo faccia voltare e trascini verso la filosofia" Questi amici e
lacchè non faranno forse tutto ciò che è in loro potere per
distruggere un tale uomo, "complottando contro di lui in privato
e attaccandolo in pubblico?" (495e). Il processo e l'esecuzione
di Socrate per la sua influenza su giovani di talento sono
previsti con Adimanto, poi resi con il mito con Glaucone.
L'azione drammatica di Socrate che racconta a
Glaucone "l'allegoria della Caverna" rappresenta la precisa
storia dell'educazione raccontata nella "allegoria". Socrate ha
il ruolo di guida di Glaucone nell'ascesa dalla caverna
dell'ambizione politica. Egli enfatizza dinanzi a Glaucone che
uno che sia salito fino alla luce non tornerebbe di nuovo giù
nella caverna delle ombre, a meno che non fosse costretto da
qualche necessità. Il mondo della politica assume il significato
mitico di essere il mondo dei morti, un mondo di mere anime.
L'identità di Socrate come mentore assume l'ulteriore
significato mitico di profeta, la guida delle anime attraverso
l'oltretomba, ed egli circoscrive la sua implicita pretesa di
uno speciale discernimento in un regno altrimenti abitato da
vuote ombre.
Supponi che Socrate stia svolgendo il ruolo di
Tiresia nei confronti di Glaucone-Odisseo, così come di Odisseo
stesso. Questa duplice identità mitica sarebbe la versione della
Repubblica della decisiva ambiguità al cuore delle socratiche
dichiarazioni e smentite di conoscenza presenti in così tanti
dialoghi di Platone. Socrate stesso ha il tipo di conoscenza
richiesta per un'ascesa fuori dalla caverna, oppure egli può
solo indicare la via d'uscita per qualcun altro. La cosa che più
assomiglia ad una risposta nella Repubblica è all'inizio
di una delle sue sezioni più problematiche, la discussione
sull'idea del Bene. Questo Bene assoluto, dice Socrate ad
Adimanto, è quello che
"ogni anima persegue e al quale finalizza ogni azione, col
presentimento
che pur abbia un valore - e tuttavia in questo essa è nel dubbio
[...] quell'ideale di tale portata e rilevanza saremmo disposti
a tollerare che resti nell'ombra anche per quelli che eccellono
nello Stato e nelle cui mani senza riserve ci consegniamo?"
(505e-506a).
[trad. Vegetti]
I lettori condividono l'attesa di Adimanto che la
risposta di Socrate sia "No" e in modo naturale pensano egli sia
sul punto di rimuovere il dubbio (in greco, aporia) e
l'oscurità, fornendo qualcosa di più chiaro di una divinazione
(parola con la stessa radice della parola "profeta"). Ma non è
così.
"Predìco" prosegue Socrate, "che prima di saperlo nessuno potrà
adeguatamente conoscere quelle stesse cose [le cose giuste e
belle]" (506a). [trad. Vegetti]
La ripetizione risuona; anche Socrate soltanto
"predice" cosa è questo Bene assoluto? Quando Adimanto e
Glaucone premono su di lui perché spieghi questo misterioso
bene, Socrate rimanda. E in modo criptico dice a Glaucone: "la
possibilità di giungere a quello che io ne penso ora mi sembra
superiore a ciò che miriamo al presente" lasciando nell'oscurità
se il suo rifiuto è provocato da limiti suoi o degli altri
(506e). La sua esitazione finale è altrettanto discreta, quando
cioè Glaucone gli chiede di mettere da parte l'immagine della
caverna e di dire chiaramente come si ottiene questa conoscenza
salvifica:
"Non scorgeresti più un'immagine di ciò di cui parliamo, ma la
verità stessa, almeno come essa mi appare. Se è realmente così,
oppure no, non è il caso di affermarlo recisamente: ma che
qualcosa di tal genere sia da vedere, questo va sostenuto."
(533a)
Socrate percepisce che c'è qualcosa da vedere, ma
non dice che egli la vede.
Platone ha escogitato un silenzio molto eloquente
per tenere sospesa la soddisfazione della curiosità dei suoi
ascoltatori. Ma entrambi i fratelli non sono trattati meglio da
Socrate.
Che tipo di guida diventa Socrate per Glaucone? Questo dipende
da dove riteniamo Glaucone parta. Platone descrive Glaucone con
considerevoli particolari psicologici. Socrate percepisce in lui
una estrema virilità (357a), nota il suo coraggio militare
(368a), un talento per la musica (398e) e una forte passione
erotica (402d-e, 468b-c, 474d-475a; vedi anche 458d). Glaucone
inoltre mostra, attraverso tutto il dialogo, un intelletto
penetrante, per non parlare di un ingegno qualche volta
sarcastico a spese di Socrate (per esempio, 509c, 547a-b, 595c e
596d). Alla fine, il suo interesse a fondare una città, anche se
solo nel discorso, ci indica la molto intensa passione politica
di Glaucone (un'indicazione confermata da Senofonte,
contemporaneo di Platone, in Memorabili III.6). Egli
combina l'amore per l'onore caratteristica dell'ambizione
politica e militare con tratti più musicali ed erotici, una
combinazione che si trova raramente (cfr. 375c-376c, 475a-b,
485b, 548d-e). In breve, Glaucone sembra avere proprio le doti
naturali che egli e Socrate enumerano quando descrivono i
custodi e i filosofi nella loro città ideale (474b-487a). O
forse più precisamente, questa descrizione della natura
filosofica ideale è anche un'idealizzazione di Glaucone,
un'attenzione sulla sua aspirazione piuttosto che semplicemente
una analisi del suo presente sé. Deve essere con una qualche
euforia che, poi, alla fine di questo passaggio il Glaucone
reale sente Socrate dire del potenziale Glaucone, "Allora quando
questi [uomini] abbiano raggiunto la maturità, non solo
nell'età, ma anche nella formazione non affideresti a loro, e
solo a loro, la responsabilità dello Stato?" (487a).
Ma Glaucone non ha la possibilità di dare a questa
domanda l'enfatico "Sì" che deve avere avuto sulle labbra, per
non dire nel suo cuore. Adimanto interrompe con una sfida che
complica l'ottimismo circa il modo in cui un uomo come Glaucone
potrebbe passare dal suo sé reale al suo sé perfetto, diventando
in questo processo un filosofo-re. Tutto questo va bene in
teoria, dice Adimanto, ma non è vero in pratica. Quando giunge
alla politica, la filosofia rende quelli che "vi hanno insistito
troppo a lungo" politicamente inutili, o persino malvagi
(487b-d). Con la sorpresa dei fratelli, Socrate non cerca di
respingere questa accusa. Egli persino la radicalizza, dicendo
che la maggior parte sono resi malvagi (489d, 490e). "Ognuna
delle qualità che abbiamo lodate in questa natura può perdere
l'anima che la possiede e distoglierla dalla filosofia", dice
Socrate, e lo stesso fanno doti quali la ricchezza e la buona
sorte (491b, 495a). [trad.Vegetti]
Le stesse doti naturali che sono necessari prerequisiti per la
filosofia espongono anche l'uomo a tentazioni quasi
irresistibili verso la tirannia. Il peggio può solo venire dalla
corruzione del meglio (491d-e); il potenziale filosofo è anche
il potenziale tiranno. Noi ci aspetteremmo di vedere che Socrate
si associa ai giovani uomini che trovano qualcosa di
affascinante nella tirannia, i quali sono aperti alle sue
seduzioni,esattamente come ci aspetteremmo di vederlo unirsi con
quelli con un talento per la filosofia.
Glaucone vuole detestare i tiranni, ma sente il loro fascino ed
è il potente per quanto riluttante erede della concezione della
tirannia proposta (nel primo libro) da Trasimaco e condannata da
Socrate. I sofisti erano affascinati troppo facilmente, dice
Glaucone, come un serpente (358b) ed egli chiede a Socrate una
più convincente confutazione della vita del tiranno, basata su
un desiderio sfrenato. Il suo discorso (all'inizio del secondo
libro) rimette brillantemente il serpente in libertà. Egli
protesta, anche un po' troppo: egli "rinnova" la tirannia solo
per amore di chiarezza
"[.] benché Socrate questa non sia proprio la mia opinione. Mi
trovo però in difficoltà". (358 c) [trad. Vegetti]
Questo presunta "difficoltà" (aporia) ha un vago odore di
marcio, come un profumo dolce su un fetido sudore, e il suo
rinnovamento è acre della intimità con la sua nascosta passione.
Il vigore virile di Glaucone (cfr. 359b con 357a e 359a con
361d) nella difesa del tiranno è soprattutto esposto
nell'esperimento mentale, che egli ha composto: "l'anello di
Gige"(359c-360b). Una volta, un antenato di Creso, Gige, si
stava occupando delle pecore, dove egli "serviva" (359d; la
stessa espressione usata da Achille nel suo lamento) del re. Una
grande tempesta ed un terremoto squarciarono la terra, aprendo
una voragine, in cui egli scese. Lì egli vide molte cose
meravigliose degne di un mito (359d) e recuperò un anello
magico. Quando scoprì che questo anello aveva il potere di
rendere invisibile colui che lo indossava, il pastore usò questo
potere per uccidere il re, commettere adulterio con sua moglie e
assumere il trono. Glaucone chiede ai suoi ascoltatori di
considerare se avrebbero agito in modo differente, nel caso in
cui avessero avuto un tale anello al dito. L'invisibilità è
rivelatrice di una nascosta passione. L'uomo giusto e quello
ingiusto "non farebbero nulla di diverso l'uno dall'altro, ma
entrambi andrebbero nella stessa direzione" (360c).
[trad. Vegetti, parz. mod.]
Questa morale immorale, qualunque sia la sua generale
applicabilità, certamente ci dice molto su quello che Glaucone
trova dentro di sé. La ragione per cui egli si sente "confuso"
da argomenti in lode della tirannia è che una parte di lui è in
accordo con questi argomenti. Il suo esperimento mentale scopre
quello che egli preferirebbe dissimulare, e di cui forse
vorrebbe sbarazzarsi completamente.
La sua confusione è causata da un insieme di ossessione e
disgusto, portato molto vicino alla superficie quando il decimo
libro mette a nudo la natura erotica del tiranno.Questo aiuta a
motivare la riluttanza di Glaucone a riconoscere il suo
temperamento manifestamente erotico. Quando Socrate lo cita come
un'autorità su ciò che un "uomo che ama" direbbe, Glaucone si
mette sulla difensiva: "Se vuoi riferirti a me, disse, quando
dici che gli innamorati si comportano così, te lo concedono per
amore della discussione" (474d-475a)
[trad. Vegetti]. Ma il suo esperimento mentale ha avuto
successo per questo stratagemma. Perché, d'altra parte, nel
racconto, egli pone tutta questa enfasi sull'adulterio e, più in
generale, sulla sregolatezza sessuale (360b)? É per la stessa
ragione che, quando Socrate suggerisce che i giovani e i ragazzi
dovrebbero ricompensare i soldati coraggiosi con corone, strette
di mano e baci, Glaucone suggerisce andando oltre:
"A nessuno [dei coraggiosi soldati] sia concesso di respingere
chi vorrà baciarlo, cosicché se qualcuno è innamorato di un
maschio o di una femmina, sia più motivato a conquistare i primi
posti nella gara del coraggio"(468b-c). [trad. Radice]
La passione erotica è una parte profonda di Glaucone come
qualsiasi cosa potrebbe essere. Essa è una parte centrale di ciò
che lo rende un uomo giusto per la filosofia (cfr. specialmente
474c-d), ma allo stesso tempo è ciò che minaccia di renderlo
meno uomo.
Glaucone potrebbe con successo evitare di
confrontarsi con il suo sé erotico, se egli non avesse cattivi
sogni. Socrate e Adimanto riconoscono nei nostri sogni senza
difesa una prova del nostro sé nascosto, sogni che adombrano gli
studi classici greci sul tirannico e sul tragico: incesto,
parricidio e cannibalismo (571c-d). "Le leggi e le buone
intenzioni, con l'opera della ragione" possono indebolire questi
cattivi desideri, ma ancora essi sono presenti "in ciascuno di
noi, anche in quelli che all'apparenza sono più controllati"
(571b, 572b). [trad. Radice]
Il massimo che noi possiamo fare è calmare questi desideri nella
speranza di svegliare una parte differente di noi. Socrate
chiama questa migliore parte di noi la parte "calcolatrice" o
"pensante", ma il suo lavoro nel sonno e nel sogno ci dà lo
shock di un riconoscimento:
"[la parte migliore dell'anima] dovrà essere lasciata libera di
indagare in perfetta solitudine e di tendere al coglimento di
ciò che ancora non conosce delle cose passate, presenti o
future. [...] E in tale stato sai bene che egli [un uomo]
attinge in grado massimo alla verità e quelle visioni di sono
gli appaiono allora assai meno conturbanti". (571e-572b) [trad.
Radice]
Socrate sembra descrivere la stessa facoltà che egli
precedentemente ha descritto come divinazione del Bene: l'anima
"ha il presentimento" che esso "pur abbia un valore, e tuttavia
è nel dubbio, per il fatto che non ha la capacità di cogliere
con sufficiente chiarezza l'essenza del Bene" (505e). Opposta
alla sregolatezza del desiderio erotico è non la sicurezza della
conoscenza, ma l'oscura intuizione del profeta. Questo passaggio
ci ricorda come le facoltà profetiche di Cefalo a proposito
della vita dopo la morte (330d-e) erano state svegliate solo
quando egli, come Sofocle, era divenuto sufficientemente anziano
da essere sessualmente impotente, sfuggendo a "molti folli
padroni" che anche affascinano il tiranno (329b-d e 573a-c).
Anche in Glaucone, il sé erotico è in competizione con il sé
profetico ed egli non ha la saggezza che viene dall'essere
vecchio. Nessuna meraviglia, dunque, se nella sua confusione ha
bisogno di un Tiresia.
Supponi di essere "sceso" a causa di "una tempesta e
un terremoto" (359d) in una caverna aperta nella terra, nella
silenziosa magnificenza di una tomba dove risiede l'anello
dell'invisibilità. Dove saresti? Socrate risponde alla domanda
verso la fine del dialogo quando dice a Glaucone:
"Dunque nel nostro discorso," [Socrate] disse, "abbiamo posto in
evidenza tutti gli altri temi, ma non abbiamo ancora magnificato
né le ricompense, né la fama che toccano alla giustizia, come, a
vostro dire, avrebbero fatto Esiodo e Omero. Tuttavia non
abbiamo forse scoperto che la giustizia costituisce il bene più
prezioso per l'anima in quanto tale, la quale, quindi, deve fare
ciò che è onesto, sia che abbia, sia che non abbia l'anello di
Gige e, oltre a questo anello, anche l'elmo dell'Ade?"
(612a-b) [trad. Radice]
Socrate sta tornando a riferirsi ad una lamentela
che Adimanto, non Glaucone, aveva fatto contro Esiodo e Omero
(363a; Glaucone aveva fatto questa lamentela solo contro "i
più", 358a), dando alla sua risposta una dimensione mitica. Se
la tua invisibilità rivelasse i desideri che Glaucone ha
suggerito, il tuo anello e il tuo elmo potrebbero essere doni
del diavolo; perché tu sei all'inferno. La risonanza mitica
dell'esperimento mentale di Glaucone completa la sua
penetrazione psicologica.
É facile sentire, nella "discesa" nella voragine del tirannico
pastore, tutte le altre discese e tutte le altre caverne del
dialogo. E "tempesta e terremoto" che squarciano la terra hanno
anch'essi i loro echi omerici. Alla fine dell'opera (621b),
"tempesta e terremoto" segnano l'ascesa delle anime reincarnate
dall'oltretomba platonico. Più singolare che, nel secondo
passaggio omerico che Adimanto disapprova per la sua descrizione
dell'oltretomba (nel passo 386d, che cita Iliade XX.64-65),
Ade si preoccupa del fatto che la terra è stata squarciata,
esponendo il mondo dei morti alla vista dei vivi, dalla contesa
tra il tuono di Zeus dall'alto e lo scuotimento della terra dal
basso ad opera di Poseidone (XX.55-63). Ancora una volta, quello
che Adimanto disapprova come pedagogia, Glaucone rappresenta
come mito. Quest'eco spiegherebbe la singolarità di questo
particolare passaggio omerico tra i sette riuniti da Socrate in
una lista (386c-387a). Degli altri sei, tre riguardano la
discesa nell'oltretomba narrata nell'Odissea e tre la
morte di Patroclo, l'amato amico di Achille, nell'Iliade;
tutti hanno una più ovvia connessione con la dimensione mitica
del dialogo.
La tensione nel carattere erotico di Glaucone lascia il lettore
con una mente duplice, o meglio, con due stati d'animo rispetto
ai consigli che Socrate dà a Glaucone. Socrate promuove uno
stato d'animo riformista, attivista, che ha un'alta
considerazione di una politica purificata. Questo raggiunge il
suo più alto sviluppo proprio quando a Socrate non può, a causa
interruzione di Adimanto, rivolgersi alla città-nel-discorso con
Glaucone. Da questo punto, Socrate desta uno stato d'animo
rinunciatario, ritirato che svaluta il potere politico
comparandolo con il governare nell'inferno
piuttosto che con il
vivere alla luce del sole. Quando Socrate recita il lamento di
Achille una seconda volta, siamo costretti a riferire un sorriso
ironico al suo precedente allevare l'ambizione di radicale di
Glaucone?
Io credo sia un errore lasciare che lo stato d'animo
rinunciatario eclissi la sua più positiva valutazione della
politica. Sebbene questi suoi stati d'animo potrebbero non
credere l'uno nell'altro, essi non si contraddicono a vicenda. Ma la sfumatura originaria dello
stato d'animo riformatore viene messo in difficoltà da un
pallido proiettarsi del dubbio, dubbio sul fatto che la riforma
possa mai aspettarsi di guadagnare il nome di azione. Al centro
tematico del dialogo (473c-e), Socrate suggerisce che
i mali umani
cesseranno
solamente quando o i filosofi diverranno re o i re filosofi.
Mentre è solo appena possibile che questa benedizione dovrebbe
realizzarsi - Socrate dice che essa "non è interamente una mera
preghiera" (540d; veda anche 499b-c) -, non è neanche qualcosa
che qualcuno potrebbe portare a compimento soltanto attraverso
una decisione. La più grande benedizione politica possibile per
esseri umani è una questione di coincidenza (473d), sorte
(499b), o di un'ispirazione divina (499c).
Questa bruta resistenza dei più alti obiettivi politici al
controllo umano non sembra così importante se si è nello stato
d'animo rinunciatario. Infatti l'essere del tutto privati di
ogni opportunità di governare è solamente per evitare una
distrazione, e la percezione che questa mancanza comporterebbe
una perdita reale risulta attenuata, o del tutto soppressa. Ma
io sento anche un tipo di rimpianto nella Repubblica,
come per qualcosa di bello da cui è stato necessario astenersi.
Questo rimpianto è ciò che si produce quando il riformatore
comprende che la riforma è fuori dal suo controllo.
Socrate esprime in modo memorabile il rimpianto del riformatore
quando discute con Adimanto circa l'attitudine del vero filosofo
verso la politica, dati i suoi pericoli e la sua corruzione
(496d-497a):
Vedendo gli altri traboccare di illegalità, si
ritiene contento di poter vivere almeno la propria vita quaggiù
puro d'ingiustizia e di azioni empie, e alla sua fine potrà
lasciarla, accompagnato da una bella speranza, con l'animo
sereno e disteso"
"Non è davvero poco". [Adimanto] disse "quello che
avrebbe ottenuto prima d'andarsene"
"Ma neppure il massimo" [Socrate] disse, "perché non
gli è toccata la città adatta a lui: in una adatta egli stesso
avrebbe eccelso e avrebbe salvato, insieme con il proprio, anche
il bene comune"
[trad. Vegetti]
Qui una politica riformata non costituisce una qualche
necessità da evitare con gioia. Socrate riconosce che governare
una città bene significa servire il bene privato del governante.
La "crescita" che il governante sperimenta è un bene intrinseco,
non soltanto il bene strumentale per evitare il governo di
persone malvagie. Ma è una crescita che non può essere
perseguita; noi dobbiamo aspettare una qualche sorte divina per
farne esperienza. Lo stato d'animo dominante è la rassegnazione
ad una inevitabile perdita, illuminata solo dalla gratitudine
per una straordinaria bellezza.
Il motivo di Tiresia nella Repubblica,
quindi, getta un manto di rimpianto e di rassegnazione sulla
ambizione politica di Glaucone. Socrate condurrà Glaucone ad
essere troppo terreno per abbandonare la politica e troppo
ultraterreno per aver fiducia nella possibilità di riformarla.
Il sé erotico non è stato armonizzato con il sé profetico.
Questa non è l'unica parola di Platone sulla relazione tra il
profetico e l'erotico, e forse non è l'ultima parola. Per
esempio, il Simposio (che induce ad un centinaio di
paragoni, non ultimo attraverso il fatto che il dialogo inizia
con Glaucone che riferisce il suo stesso intenso interesse verso
l'argomento) certamente suggerisce una relazione molto più
stretta tra l'erotico e il profetico. (cfr. 192d e 202e) Ma qui
si tratta della fine del racconto di Glaucone nella
Repubblica.
La famosa allegoria della caverna è molte cose. Ma
la più importante tra queste, è il fatto che essa è una
riscrittura di Omero. Socrate ha guidato Glaucone verso una
nuova identità mitica, da un ambizioso Achille ad un mesto
Odisseo.
Ma questa riscrittura ha complicato ed elaborato la
stessa proiezione mitica di Socrate, verso quella di un
trionfante eroe. I termini della riscrittura
ci proibiscono di affermare che Socrate semplicemente è o
semplicemente non è l'eroe di questo poema epico in prosa. Egli
è l'intrepido Odisseo stesso, eroe di un poema epico filosofico
con la sua nostalgia per una casa celeste (cfr. 592a-b); oppure
è Tiresia, la guida dell'eroe, intelligente e profetico ma
ancora essenzialmente cieco, e avente solo una divinazione della
strada dell'eroe? Il mito di Platone ci nega la soddisfazione
dell'Odissea di Omero, poiché noi non possiamo dire se il
personaggio principale alla fine abbia trovato, attraverso molte
fatiche, la strada verso casa, o sia rimasto arenato nel mondo
dei morti della politica e dell'ambizione, e abbia salvato altri
sebbene lui non potesse salvarsi. È difficile vedere un
accidente in un'ambiguità così sottilmente composta.
Avendo abituato l'orecchio del lettore a questi due temi
omerici, Platone ci offre una coda divertente. Socrate ed
Adimanto censurano un ultimo passaggio dell'Odissea per
il modo scoraggiante in cui presenta il mondo dei morti (387a).
Odisseo era ritornato a casa e si era preso la sua vendetta sui
cosiddetti pretendenti di sua moglie Penelope. Quando loro
furono morti, Hermes lo Psicagogo (colui che conduce le
anime) li chiamò giù all'inferno. Nella descrizione omerica che
Socrate ed Adimanto disapprovano (Odissea XXIV.6-7),
costoro si affliggono e si agitano dietro alla divina guida.
Come nel fondo d'un orrido antro stridevano
svolazzando i pipistrelli,
se dalla roccia ne cade qualcuno
Questa citazione è accorta nelle sue assonanze quanto
le precedenti. Come era solo nel passaggio circa Tiresia che
Omero aveva chiamato le anime "ombre", così questo è il solo
passaggio dove egli esplicitamente collega l'oltretomba ad una
caverna. Ma questo passaggio prefigura un ultimo aspetto della
dimensione mitica del Socrate dell'oltretomba. Egli diventa
anche uno psicagogo (dal greco psyche "anima" e
agagein "condurre"), il sacerdote che conduce gli altri in
un rituale di iniziazione e purificazione, nei misteri della
vita dopo la morte.
Tali rituali di iniziazione, dei quali i misteri
eleusini sono i più famosi, erano centrali nella vita religiosa
greca. Essi
comportavano
tipicamente un viaggio rituale durante il quale il sacerdote che
presiedeva insegnava dottrine segrete agli iniziati, per
purificarli e proteggerli nell'oltretomba (la partecipazione
spesso comportava anche una spesa considerevole.) L'iniziazione
culminava nell'improvvisa rivelazione di un oggetto di culto,
una visione sacra tale da essere contemplata solo dal
purificato. La Repubblica si appropria delle profondità
spirituali di queste idee religiose. Questo è ovvio nel grande
mito finale, dove l'anima è condotta attraverso un viaggio
purificatore (611c) che culmina in una visione di una pura
colonna di luce al centro del cuore profondo del mondo (616b).
Ma ugualmente singolare è il modo in cui Platone pone ad anello
i cambiamenti sullo schema di una guida che conduce un iniziato
al contemplare (in greco, basato sulla radice the-
da cui derivano anche i vocaboli inglesi
"theater" e "theory")
una visione improvvisa, raggiungendo un crescendo
nella "Allegoria della Caverna."
Questo chiaramente era un mito che Platone ha inteso
nutrire. Nel Fedone, la filosofia stessa è presentata
come un rito di purificazione (69b e 82d; in greco, katharmoi),
ed il tono del dialogo è dato dal sapere religioso pitagorico.
Il Simposio è anche più vicino alla Repubblica.
Nel suo discorso centrale, la profetessa Diotima fa un uso
elaborato del vocabolario di un'iniziazione ad un mistero
(209e-210a), condotta da una guida (210a, 210e) ad una
visione improvvisa (210e; in greco, exaiphnes
"improvviso" e kathoran "vedere intensamente"). Nella
Repubblica, questi temi ricevono la loro prima asserzione
nelle frasi d'apertura di Socrate (327a-b, corsivo dell'autore):
"Discesi ieri al Pireo insieme con Glaucone, figlio di
Aristone, sia con l'intenzione di offrire la mia preghiera alla
dea, sia perché volevo al tempo stesso osservare
in qual modo avreb-bero organizzato gli spettacoli che ora per
la prima volta tenevano [.] Dopo aver offerto preghiere e
aver osservato la processione della gente del
posto, ripartimmo verso la città".
[trad. Vegetti]
Polemarco, il figlio di Cefalo interrompe la loro
partenza, e lui ed Adeimanto inducono Glaucone e Socrate a
visitare la casa di Cefalo con la promessa di qualche cosa
"degna di essere vista". Quando loro arrivano, il vecchio
Cefalo, che ha appena fatto un sacrificio, rimprovera Socrate
per il fatto di non scendere più spesso, e presto se ne
va per andare a svolgere altri sacrifici. (328c e 331d).
Egli racconta del suo passato come un uomo con una coscienza
colpevole, in cerca di una qualche rassicurazione che può essere
comprata e può essere venduta ed egli parla di una speciale
visione delle cose dell'oltretomba, specialmente delle sue
punizioni (330d-331b). Noi apprezziamo pienamente come sia
compatta l'introduzione di questi temi da parte di Platone,
quando impariamo che le divinità onorata nel culto nuovo che
viene svolto, erano le Bendidie, divinità della Tracia, legate a
Persefone, regina dell'oltretomba (354a).
Questi temi sono ripresi ancora con una speciale enfasi
da Adimanto. Dopo che Glaucone rinnova la lode fatta dal
Trasimaco del tiranno con "L'Anello di Gige", un discorso che
rivela in modo scomodo la sua propria ambivalenza erotica, è la
volta di suo fratello. Ma gli argomenti di cui Adimanto desidera
tanto sentire da Socrate rispondono ad ansie diverse. È il
fantasma di Cefalo che Adimanto ricorda, l'invocazione piena di
paura del vecchio uomo dei tormenti nella vita ultraterrena.
"Chi dunque scopre nella propria vita molte ingiustizie spesso
si risveglia dal sonno, in preda al terrore" dice il
padre Cefalo (330e, trad.
Vegetti), ed almeno una parte di Adimanto eredita questa
preoccupazione per che tipo di sogni può venire. Adimanto
ritiene che queste storie che disturbano - Cefalo li chiama
"miti" (330d) - sono letterarie in origine, ed egli le
attribuisce ai poeti Orfeo, Museo, ed il figlio di Museo,
Eumolpo il fondatore dei misteri eleusini (363c, 363e 364e).
Adimanto è ansioso circa tutto questo sapere orfico religioso.
Egli è specialmente critico nei confronti del più grande
conforto di Cefalo, il sacrificio compensativo (364b-e). Ma egli
disapprova anche le descrizioni di un essere condotto (agagein;
363c) nell'Ade attraverso iniziazioni (365a, 366a),
purificazioni (364e), e rituali di "liberazione" dalla punizione
(in greco, lusis; 364e, 365a 366a). In ciò si intende
richiamare la fantasia di Glaucone sul potere dell'anello che
diede licenza per "liberare da catene" chiunque, noi vogliamo
(360b)? Con Adimanto, la manipolazione della "liberazione" è un
incubo religioso; con Glaucone, è un sogno politico. In ogni
caso, Adimanto è simile a suo fratello nel negare ogni personale
attaccamento alla posizione che egli così vigorosamente
costruirà perché Socrate la butti giù. Altri svolgerebbero
questi argomenti in modo serio, egli vorrebbe che Socrate
sapesse: "io però - non ho bisogno di nasconderti nulla - sto
parlando con il maggiore impegno possibile perché desidero
ascoltare da te la tesi contraria" (367a-b). Un uomo non soffoca
come questo a meno che non abbia qualche cosa da ingoiare.
Platone ritorna sui temi di Adimanto con il suo
caratteristico schema di elaborazione. Quello che Adimanto
rifiuta diventa la pietra angolare di un mito che Socrate e
Glaucone rappresentano nella caverna. I prigionieri sono
"liberati dalle loro catene" (lusis; 515c, 517a, 532b) da
un misterioso "qualcuno", ovviamente raffigurazione di Socrate (cfr.
515d, 517a). Questa liberazione richiede che essi siano
riorientati e voltati verso, o più letteralmente "condotti a
girarsi" (in greco, agagein con peri "intorno";
514a, 515c, 518c, 518d, 521c). Socrate invita Glaucone a
considerare "come li si possa guidare verso la luce, proprio
come quelli di cui si dice siano ascesi dall'Ade fino agli dei"
e aggiunge che questo condurre sarà "una conversione dell'anima
da una sorta di giorno notturno al giorno verso, cioè
dell'ascesa verso ciò che è, e questa ascesa diremo essere la
vera filosofia (521c). Così essere condotti a volgersi è allo
stesso tempo un essere condotti in alto, un'ascesa forzata.
Questa conversione dall'oscurità alla luce, noi
impariamo, è all'inizio accecante, quando i prigionieri
rilasciati tentano "improvvisamente" di adattare la loro
"visione" a quello che la luce illumina sopra. Similmente,
saranno altrettanto ciechi se cercheranno di tornare giù per una
"visione improvvisa" nelle ombre (515c, 515e 516a, 516e 518a).
Il passaggio caratterizza ripetutamente i prigionieri liberati
dal loro "contemplare", ciò che è dei cieli (516a), ciò che è
illuminato (516b), l'intelligibile (517b), il divino (517d), ed
il reale (518c). Le ombre della Caverna sono dense dell'eco che
viene da Adimanto e dal vecchio.
Alla fine, la descrizione di un'educazione
filosofica e
matematica che segue la "Allegoria della Caverna" continua la
risonanza orfica. Socrate e Glaucone considerano come noi siamo
"condotti a contemplare" le cose più alte, rivolgendoci
all'unità (524e), al numero (525c), alla geometria (526e),
all'astronomia (529a). "Tutto il lavoro sulle tecniche che
abbiamo passato in rassegna", ricapitola Socrate, "ha questa
capacità di elevare la parte migliore dell'anima verso la
contemplazione di ciò che vi è di migliore tra le cose che sono
quello che è migliore di quello che esiste" (532b-c). Dopo
questo lungo "preludio", Glaucone chiede a Socrate "la canzone
stessa", una descrizione della vera arte filosofica, la
dialettica (532d), che sarebbe la piena realizzazione
dell'iniziazione di Glaucone. In risposta, Socrate fa di nuovo
suo un precedente passaggio della censura esplicita di
Adimanto. Adimanto si era lamentato del fatto che nei loro
scritti i poeti orfici "seppelliscono
gli empi e gli ingiusti nelle fangose profondità di Ade" (363d).
Ora, risulta, questo è lo stesso fato a partire dal
quale la dialettica guadagnerà la nostra liberazione:
"davvero essa trae dolcemente l'occhio dell'anima" dice Socrate,
"da quel barbaro pantano in cui è sprofondato e lo riconduce
verso l'alto, valendosi in questa conversione dell'ausilio delle
tecniche che abbiamo passato in rassegna" (533c-d).
Quando Socrate dice che c'è realmente o letterariamente un "
barbaro pantano " che copre l'occhio dell'anima, lui sta
ricordando certamente lo stesso tema orfico come Adimanto, e
forse lo specifico linguaggio di un particolare testo.
"Io discesi": eco misteriose davvero. La piccola
campana fatta suonare nella prima parola risuona come un
carillon in una caverna.
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