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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Numero 0 - Maggio 2006 
     
 

 Per una soluzione dei dilemmi morali della bioetica: “mettersi d’accordo” o “fare la cosa giusta”?

 di Luciano Sesta

 

 

1. Il rischio di una dissoluzione della domanda etica in bioetica

 

Chiunque oggi voglia occuparsi di bioetica [1] non può non confrontarsi con il problema del c.d. pluralismo etico [2] . La posizione oggi dominante, che assume un tale pluralismo come un dato di fatto irriducibile, è limpidamente rappresentata da Hugo Tristram Engelhardt nel suo ormai celebre The Foundation of Bioethics:

 

poiché non ci sono argomenti [...] decisivi capaci di provare che una concreta visione della vita morale è migliore delle visioni alternative, e poiché non è avvenuta una conversione di tutti a un unico punto di vista morale, allora l’autorità morale [...] è l’autorità del consenso. L’autorità non è né quella del potere coercitivo, né quella della volontà di Dio, né quella della ragione, ma semplicemente l’autorità delle persone che decidono di collaborare[3].

 

In una moderna società democratica, in effetti, nessuno può imporre la sua concezione personale a coloro che non la condividono. Per risolvere efficacemente i delicati problemi sollevati dal progresso delle scienze biomediche non rimane, dunque, che la logica del consenso. Un consenso che, in ragione della conflittualità reciproca di alcune convinzioni morali, spesso prende il volto di un compromesso, ovvero di un accordo in cui ciascuna delle parti in causa rinuncia a qualcosa per venire incontro all’altra, garantendo, in tal modo, la possibilità di un agire condiviso.

L’apparente plausibilità di tale impostazione non deve far dimenticare che essa tende a cancellare l’interrogativo morale della bioetica, svuotandola dello spessore problematico che, pure, si vorrebbe salvaguardare riconoscendo il pluralismo irriducibile delle nostre società. La bioetica del compromesso (o bioetica procedurale del consenso), infatti, non considera più l’etica come una riflessione su cosa è bene e su cosa è male, ma come uno strumento di calcolo e di negoziazione pacifica tra interessi individuali e concezioni private circa il senso della vita, della salute ecc. Una negoziazione che non investe solo i problemi pratici legati all’azione, ma anche le questioni teoriche che vi stanno alla base. Così, se per esempio “la questione dell’embrione” consiste nello “stabilire quando comincia una nuova vita personale”, dalla molteplicità e inconciliabilità delle risposte e delle conseguenti indicazioni comportamentali si dovrà concludere che non rimane altra soluzione che quella di “cercare una civile, serena e laica mediazione che consenta a tutte le posizioni di convivere, eliminando – ogni parte con qualche rinuncia – le più evidenti ragioni di attrito”[4].

Il volto amichevole e accomodante della soluzione appena menzionata – molto diffusa sia a livello di senso comune sia a livello di dibattito etico-politico – spesso distoglie da un’analisi critica del suo presupposto di fondo. Un tale presupposto, tipico, più che del pluralismo, del c. d. “relativismo etico”[5], consiste nell’idea che tutte le opinioni sul problema discusso, purché formulate in modo consapevole e libero, siano moralmente equivalenti e che nessuna, dunque, possa essere detta migliore o più convincente di altre. Solo sulla base di questo presupposto, in effetti, l’unico modo sensato di risolvere una controversia morale è quello di instaurare un dialogo alla ricerca di una soluzione condivisa, che consiste nel raggiungimento di un punto di equilibrio super partes, in cui nessuna opinione prevale sulle altre. La domanda, così, oggi non è, per es., “è bene o male utilizzare embrioni umani per avere figli o per la sperimentazione scientifica?”, come se potesse darsi una risposta oggettivamente valida che metta tutti d’accordo, ma: “come facciamo a rendere compatibili le diverse convinzioni morali sull’utilizzo degli embrioni?”. Ciò che conta non è più la ricerca del significato morale dell’utilizzo di embrioni umani, ma il rispetto dell’opinione, qualunque essa sia, che in una comunità ci si è formati sull’utilizzo degli embrioni umani.

Ora, per quanto non si possa né si debba sottovalutare la complessità del pluralismo e i problemi concreti che esso pone quando si affrontano questioni delicate come quelle della bioetica, la tesi che intendiamo proporre è che un problema morale può dirsi risolto non quando ci si mette d’accordo nonostante la diversità delle opinioni, ma quando si riesce a individuare (e a fare) la cosa giusta[6]. E infatti, se la ricerca di punti in comune e  di soluzioni condivise può risultare doverosa e auspicabile in campo politico e legislativo, non sempre corrisponde a un buon metodo in bioetica. Ci sono casi, infatti, in cui la riflessione etica – sia dell’uomo comune sia dello specialista – conduce al riconoscimento di beni umani il cui valore, per definizione, è sottratto a ogni forma di negoziazione e compromesso.

 

 

2. Il relativismo difficile

 

Lo spirito che anima il relativismo liberale che sta alla base di ampie correnti in bioetica è, a prima vista, quello della tolleranza. Ciò che davvero conta, nel relativismo, non è stabilire, per esempio, se la fecondazione in vitro sia una risposta umanamente adeguata al desiderio di un figlio o l’eutanasia sia una soluzione al problema della sofferenza, ma che nessuna opinione sulla fecondazione in vitro e sull’eutanasia si affermi a spese di un’altra, rispettando, così, la libertà di tutti e di ciascuno. Ora, però, a uno sguardo più attento questo lodevole progetto finisce per innescare un cortocircuito che ne rappresenta non tanto la strutturale incoerenza teorica, quanto, piuttosto, l’improponibilità pratica. Per una singolare eterogenesi dei fini, affermando di non voler imporre l’aborto o l’eutanasia a chi non li condivide, i relativisti impongono il loro punto di vista. E infatti, chiedendo per esempio di non preoccuparsi di come gli altri trattano gli embrioni umani e i malati senza prospettive di guarigione, i relativisti attribuiscono ai loro interlocutori l’esatto contrario di ciò che essi sostengono, e cioè un disinteresse per la sorte della vita umana. I sostenitori della tesi relativistico-liberale non si avvedono di una verità elementare: chi vuole proteggere la vita umana dall’omicidio non può in alcun modo ritenersi soddisfatto da una soluzione che mentre non gli impone di uccidere autorizza però gli altri a farlo.

Continuare a invocare la libertà di scelta e il pluralismo delle opinioni di fronte a coloro che chiedono il rispetto della dignità umana di embrioni e malati non funziona più, a questo punto, come un argomento decisivo. Coloro che nella prima modernità lottavano per i diritti degli indios non pensavano che dovessero rispettare gli indios solo coloro che li ritenevano persone umane. Piuttosto, chi riteneva che anche gli indios fossero persone umane, chiedeva per essi diritti umani, indipendentemente da coloro che la pensavano diversamente. Che in una società nessuno possa imporre un pensiero e un comportamento a chi non lo condivide è innegabile, ma ciò non vale nel caso in cui si tratti di tutelare la vita e i diritti della persona – o anche degli animali[7] – nei confronti di coloro che non li vedono e li calpestano. Anche chi ritiene che i bambini non ancora nati non siano persone, se è davvero in buona fede, deve concedere che chiunque li ritenga persone deve trarre da questa convinzione le conseguenze necessarie e, dunque, lottare per la tutela dei loro diritti[8]. Chi non lo concede e di fronte alla richiesta di rispettare la vita dell’embrione umano dice: “questo è il tuo punto di vista privato, non puoi imporlo a chi non lo condivide”, dovrebbe interrogarsi, in modo spregiudicato, sulle conseguenze di questa sua affermazione. Infatti, se egli stesso si trovasse in una situazione in cui fosse convinto del carattere pienamente umano, per esempio, degli ebrei o di chiunque altro fosse discriminato, non tenterebbe di difenderli né avrebbe rimorsi di coscienza se non lo facesse. A chi lo dovesse accusare di omissione di soccorso egli potrebbe pur sempre rispondere di non essere autorizzato a costringere altri al rispetto di vite umane che essi non ritengono meritevoli di tutela[9]. Una conseguenza così imbarazzante è un buon motivo, crediamo, per cominciare a dubitare delle capacità del relativismo etico di esprimere il valore che, pure, esso si vanta di promuovere: la libertà di tutti e di ciascuno.

 

 

3. “Mettersi d’accordo” in etica:  tra cattivo compromesso e mito della neutralità

 

L’idea secondo cui un problema etico può dirsi risolto quando si riesce ad aggregare il maggior numero di consenzienti non scaturisce, come si è accennato, dalla ricerca di che cosa è bene fare, ma dal tentativo di equilibrare tendenze e bisogni socialmente diffusi. Questo modo di impostare i problemi etici ha preso avvio ufficiale, in bioetica, nel celebre Rapporto Warnock della Commissione governativa britannica, steso ai fini di una regolamentazione del trattamento da riservare agli embrioni umani nel campo delle biotecnologie. Assumendo le tendenze socialmente esistenti come un dato di fatto incontestabile, il documento Warnock ha preso atto che l’affermazione di una “protezione assoluta” dell’embrione avrebbe impedito una serie di pratiche ormai in corso – come  l’aborto e la fecondazione in vitro – e ha dunque optato per una “tutela differenziata”, stabilendo ufficialmente un limite di 14 giorni, prima del quale è consentito utilizzare gli embrioni umani come materiale biologico. La cosa sorprendente, e che costituisce il merito di trasparenza del documento, è che tale limite di 14 giorni, prima del quale non si parla di embrione ma di “pre-embrione”, non è frutto di una descrizione scientifica – poiché si riconosce che dal concepimento in poi “non vi è un momento più importante di un altro; sono tutti momenti di un processo ininterrotto”[10] – ma di un “compromesso arbitrario” finalizzato ad “alleviare le preoccupazioni dell’opinione pubblica” (in order to allay public anxiety)[11]. Si preferisce così lavorare su un’ipotesi consapevolmente basata su una finzione, ma condivisa, piuttosto che affrontare i problemi e i contrasti che deriverebbero dal chiaro riconoscimento della verità[12].

Il caso Warnock mostra che quando si cerca di risolvere un delicato problema morale con gli strumenti politici del consenso, si crea un’apparente condivisione che è in realtà solo un cattivo compromesso. Certo, si potrebbe obiettare che non c’è altra strada, in una società pluralistica, che quella del compromesso. Il compromesso sarebbe l’unico strumento di cui il diritto dispone per regolamentare efficacemente la vita sociale, rinunciando a imporre una concezione morale determinata – che renderebbe “fuori legge” coloro che non la condividono – e lasciando che ognuno gestisca in piena autonomia il proprio piano di vita. Tuttavia, l’apparente neutralità di questa soluzione, presuppone l’“aver già operato una gerarchizzazione dei valori in gioco, assumendo il valore morale della libertà individuale come prioritario rispetto ad altri valori eventualmente concorrenziali”[13].

In Italia, per esempio, si critica aspramente la normativa sulla fecondazione artificiale (legge 40/2004), accusandola di aver canonizzato una particolare visione morale a spese di tutte le altre. Chi muove questa critica non considera l’ipotesi che una normativa avrebbe anche potuto vietare, in linea di principio, qualsiasi pratica di fecondazione artificiale e che l’esistenza stessa di una legge come quella italiana implica, di fatto, il riconoscimento della liceità morale di tale pratica. Così, quando alcuni affermano “che la legislazione sulla procreazione assistita […] non deve essere il risultato del prevalere di maggioranze politiche ‘trasversali’ che convergono nella volontà di affermare – qualunque essa sia – una certa visione morale particolare”[14], sembrano non accorgersi che il punto di partenza del loro ragionamento, e cioè l’esistenza stessa di una legge che non vieta la fecondazione artificiale, rappresenta già l’imposizione di una “visione morale particolare”. In effetti, con la legge italiana il punto di vista morale che giudica lecita la fecondazione artificiale prevale sul punto di vista morale che, al contrario, la ritiene illecita.

Come si può vedere, anche coloro che sostengono una posizione di neutralità pluralista, secondo cui una legge dello stato dovrebbe essere imparziale, affermano un determinato punto di vista morale che non è certo imparziale. Ma se è così, allora forse sarebbe più opportuno dichiarare apertamente il proprio punto di vista sottoponendolo al confronto con quello altrui, invece di imporlo surrettiziamente sotto le false spoglie della neutralità.

 

 

4. La buona unilateralità: “fare la cosa giusta”

 

Abbiamo finora cercato di evidenziare alcuni limiti di quella che abbiamo definito l’impostazione relativistico-liberale (o contrattualista e procedurale) spesso adottata in bioetica. Dovrebbe emergere, da questi limiti, che l’esigenza di rispetto e di condivisione che relativismo e contrattualismo intendono promuovere non può spingersi fino al paradosso di sacrificare valori morali innegabili anche se non da tutti condivisi. Del resto, il pluralismo morale non è così estremo come spesso si dice. Ogni società, infatti, riconosce l’esistenza di un bene comune, anche se esso non è empiricamente condiviso da tutti i suoi singoli membri. Lo si può mostrare facilmente con un esempio. Se una società si trovasse a dover fronteggiare il problema del furto non ricorrerebbe a un confronto critico su cosa i cittadini pensano della proprietà privata e della sua eventuale violazione. Lo stato non attenderebbe, prima di rendere giuridicamente vincolanti delle soluzioni, che si raggiunga un compromesso sulla questione. E questo sebbene non tutti i cittadini la pensino allo stesso modo, per esempio, sulla legittimità di qualcosa come la proprietà privata. E in effetti l’accordo – o anche solo il compromesso  – su una questione moralmente rilevante non è conditio sine qua non di una legislazione in materia che voglia dirsi adeguata. Il compito del diritto, e ancor di più dell’etica, non è la soluzione condivisa dei conflitti ma la giusta soluzione dei conflitti[15]. E su quale sia la soluzione giusta può continuare a esserci conflitto, senza che tale soluzione smetta di essere giusta. La ricerca di norme condivise che garantiscano la convivenza sociale è certamente auspicabile e spesso necessaria, ma non è sufficiente. C’è, infatti, anche la giustizia morale, la quale, come è stato acutamente osservato, “non è negoziabile e non è il risultato di una negoziazione, perché è l’esperienza di un dovere indiscutibile, quello che spinge Antigone a dar sepoltura a suo fratello. E ha un valore simbolico il fatto che Antigone si spinga fuori della città: l’obbedienza morale può portare fuori dal patto politico (e dunque può mettere in pericolo la pace)”[16]. La soluzione di un conflitto etico non si realizza allora quando si sia riusciti a far coesistere punti di vista soggettivi moralmente equivalenti, ma quando, una volta che si sia riusciti a identificare la cosa giusta (o sbagliata), si agisca coerentemente[17]. Che il criterio normativo non sia il libero accordo ma la “cosa giusta” è dimostrato, del resto, dal fatto che non tutte le scelte, per il fatto di essere compiute liberamente, si equivalgono. Non hanno tutte lo stesso valore. La scelta di chi adotta un bambino in gravi difficoltà non ha, oggettivamente, lo stesso valore della scelta di chi, per ottenere un figlio biologico, accetta il sacrificio di quattro embrioni umani previsto da un ciclo di fecondazione in vitro. Ci sono scelte migliori di altre e, in alcuni casi, ci sono scelte semplicemente cattive, che non possono essere in alcun modo giustificate.

Se davvero è così, allora una scelta è moralmente risolutiva non quando accontenta tutti o non scontenta nessuno, ma quando è una scelta buona, quando, cioè, può essere ragionevolmente condivisa da chiunque, anche se di fatto non lo è. Così, per esempio, se sulla vivisezione degli animali ci sono tesi diverse, noi non deduciamo che ognuno può, secondo coscienza, rispettare gli animali e, se la sua coscienza non glielo vieta, praticare disinvoltamente la vivisezione. Piuttosto chiediamo, e a buon diritto, che lo stato protegga gli animali dalla sofferenza inutile e invitiamo chi non è d’accordo ad adeguarsi ragionevolmente[18]. Allo stesso modo, anche qualora in uno stato la maggioranza non avesse la sensibilità necessaria per riconoscere il valore di un monumento, la minoranza che invece lo apprezza può ragionevolmente chiedere che, per esempio, tale opera non venga distrutta solo perché la maggioranza ritiene che al suo posto vada costruito un campo sportivo. Perché dal bilanciamento tra l’interesse della minoranza e quello della maggioranza possa scaturire una decisione comune, anche se non tutti sono d’accordo, deve poterci essere una disponibilità di tutti gli interlocutori a riconoscere una gerarchia oggettiva tra i valori in gioco. E, nell’esempio fatto, è innegabile che dovrebbe prevalere l’interesse della minoranza, così come, tra i pochi che sono in grado di rendersi conto del valore della fisica quantistica e i molti che magari vorrebbero riciclare la carta delle pubblicazioni custodite nel Max Planck Institut, dovrebbe prevalere l’interesse della minoranza. Che rimangano malcontenti e conflitti sulla cosa non significa che il problema non sia stato oggettivamente risolto secondo giustizia.

Coloro che rimangono insoddisfatti di fronte a questa conclusione continuano a invocare il consenso e l’accordo come l’unica garanzia di giustizia, chiedendo che ciascuno rinunci a proporre il suo punto di vista come qualcosa di comune che anche gli altri dovrebbero accettare. Esemplare, in Italia, la tesi di uno studioso di impostazione utilitarista come Eugenio Lecaldano, che tende a identificare il rispetto della persona con il rispetto indifferenziato delle sue opinioni morali: “Gli esseri umani hanno opinioni e convinzioni del tutto autonome: gravi sofferenze si originano quando tali convinzioni non sono rispettate. La persona che va tutelata nelle situazioni della bioetica va quindi intesa principalmente come quell’individuo del quale rispettare fino in fondo, se non sono lesive degli interessi altrui, le convinzioni sul nascere, il curarsi e il morire”[19]. Il punto di partenza di questa posizione è che le nostre convinzioni morali siano puramente private, e che dunque possano rapportarsi solo  o in termini di non belligeranza e di indifferenza reciproca, o in termini di conflitto. Ora, però, quando si identifica il rispetto della persona con il rispetto di una sua opinione, e quando tale rispetto prescinde dal contenuto dell’opinione, ciascuno finirà per rispettare non tanto l’opinione dell’altro ma il fatto stesso che l’altro abbia un’opinione, qualunque essa sia. Ma chi partecipa a un confronto morale chiede che sia rispettato il valore di cui la sua opinione è un’espressione, e non il fatto, ovvio, che egli abbia un’opinione. Chiede, in altre parole, il rispetto del contenuto specifico della sua opinione, del valore che, tramite la sua opinione, è proposto all’apprezzamento altrui. Che sia effettivamente così, e che dunque l’opinione personale e il rispetto reciproco delle opinioni non sia il criterio di riferimento ultimo di un confronto morale, è dimostrato dall’esistenza di casi in cui il valore in gioco è tale, che trovare un compromesso tra le opinioni di chi se lo contende equivale a distruggerlo. L’episodio biblico del giudizio di Salomone lo dimostra in modo suggestivo[20]. Due donne discutono davanti al re Salomone se il bambino sopravvissuto sia il figlio dell’una o quello dell’altra. Instaurando un vero e proprio dibattito bioetico ante litteram, ciascuna delle due si ostina a ripetere che il bambino è il proprio figlio e che l’altra mente. Non potendo stabilire come stiano effettivamente le cose, dal momento che entrambe le contendenti propongono energicamente la loro opinione come quella vera, Salomone ordina di tagliare in due il neonato e di darne una metà a ciascuna delle donne. Di fronte a questa sentenza, come si legge nella Bibbia, “La madre del bimbo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, e disse: ‘Signore, date a lei il bambino vivo; non uccidetelo!’. L’altra disse: ‘Non sia né mio né tuo; dividetelo in due!”. Presa la parola, il re disse: ‘Date alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua madre” (1 Re 3, 26-27). La vera madre del bambino è colei che di fronte all’alternativa di vedersi riconosciuta la propria opinione solo a prezzo della morte del figlio preferisce rinunciare alla propria opinione. Questa rinuncia, infatti, diventa qui l’unico modo per affermare ciò che la sua opinione fin dall’inizio esprimeva, e cioè l’amore per il bambino e non la difesa di una qualche convinzione soggettiva. L’altra donna, invece, dichiarandosi disposta ad accettare che il neonato venga diviso in due, dimostra di tenere più di ogni altra cosa al riconoscimento della propria opinione, dal momento che dividere il bambino è l’unico modo perché entrambe le opinioni contrastanti vengano rispettate, benché nella forma di un compromesso che di fatto scontenta entrambe.

Come si può notare, ci sono casi in cui i beni in gioco nelle dispute morali in generale, e bioetiche in particolare, non tollerano forme di negoziazione tra opinioni, richiedendo, più semplicemente, che tali beni vengano riconosciuti e rispettati. Un tale riconoscimento e un tale rispetto implicano senz’altro la convalida di una particolare opinione (nel caso del giudizio di Salomone l’opinione della vera madre) che si afferma a spese di altre opinioni. Ma questo, come abbiamo cercato di mostrare, non è un argomento contro l’idea che nelle dispute di bioetica l’importante non è “mettersi d’accordo” ma “fare la cosa giusta”.  

 

 


 


[1] È noto come la bioetica sia nata storicamente dalla preoccupazione per le sorti dell’ecosistema. Quando nel 1971 l’oncologo statunitense van Rensselaer Potter conia il termine “bioetica”, pensa al rapporto tra l’agire umano e l’equilibrio della biosfera nei termini di un’incidenza dannosa del primo sul secondo. La bioetica nasce così come “scienza della sopravvivenza” (science of survival), tendenzialmente estesa a tutte le specie viventi, non soltanto a quella umana, e con l’obiettivo di contenere l’impatto negativo del progresso tecnologico sulla “qualità della vita” dell’ecosistema. Cfr. V. R. POTTER, Bioethics. The Science of Survival, in “Perspectives in Biology and Medicine”, 14/1970, pp.127-153. Sempre negli anni ’70, negli Stati Uniti, la bioetica trova un’applicazione più specifica nel campo della biomedicina. Il tipo di bioetica oggi prevalente, che catalizza fortemente l’attenzione di studiosi, politici e legislatori, è proprio quello “clinico”, il quale assume medicina e biologia come scienze di base e il paradigma della “qualità della vita” come concezione antropologica ed etica. Cfr. D. ROY, Orientamenti e tendenze della bioetica nel ventennio 1970-1990, in C. VIAFORA (a cura di), Vent’anni di Bioetica, Fondazione Lanza, Libreria Gregoriana Editrice, Padova-Roma 1990, pp. 95-122. 

[2] Ci rendiamo conto che il termine “pluralismo” necessiterebbe di qualche precisazione, soprattutto perché il suo significato non venga confuso con quello del termine “relativismo”. In linea generale teniamo in vista la distinzione tra i due termini, riservando al primo il significato di una molteplicità di valori che non contraddicono l’esistenza di una legge morale universale (benché a uno sguardo superficiale possa dare l’impressione di farlo), e al secondo il senso di una molteplicità di valori intesi in modo puramente soggettivo, tale da negare la possibilità di una legge morale oggettivamente valida per tutti gli uomini.   

[3] H. T. ENGELHARDT, The Foundations of Bioethics, Oxford University Press, New York 1986; tr. it. Manuale di bioetica, a cura di M. Meroni, Il Saggiatore, Milano 1991, pp. 98-99.

[4] C. FLAMIGNI, La procreazione assistita. Fertilità e sterilità tra scienza medica e considerazioni bioetiche, Il Mulino, Bologna 2002, p. 115.

[5] Sul quale si veda la penetrante analisi critica fornita in Th. NAGEL, The Last Word, Oxford University Press, Oxford 1997; tr. it. L’ultima parola. Contro il relativismo, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 99-121. 

[6] L’idea che esista “una cosa giusta da fare” caratterizza, come è noto, l’etica giusnaturalistica classica, sulla quale si veda I. R. M. SIMON, The Tradition of Natural Law: A Philosopher’s Reflections, Fordham University Press, 1992; tr. it. La tradizione del diritto naturale. Le riflessioni di un filosofo, Thomas, Palermo 2004. 

[7] Lasciando in sospeso, qui, il problema circa l’esistenza di qualcosa come i “diritti degli animali”.

[8] Anche Peter Singer, notoriamente favorevole all’aborto e perfino all’infanticidio, ritiene fasullo l’argomento che non si dovrebbe tentare di costringere gli altri a seguire le proprie concezioni morali: “La mia opinione che ciò che Hitler fece agli ebrei è sbagliato è un’opinione morale, e se ci fosse una prospettiva di ripresa del nazismo farei certamente del mio meglio per costringere gli altri a non agire in modo contrario alla mia opinione” (P. SINGER, Practical Ethics, University Press, Cambridge 1987; tr. it. Etica pratica, Liguori, Napoli 1992, p. 117, corsivo mio).

[9] Cfr. R. SPAEMANN, Verantwortung für die Ungeborenen, in ID., Grenzen. Zur ethischen Dimension des Handeln, Klett-Cotta, Stuttgart 2002, pp. 367-382.

[10] WARNOCK REPORT, Report of the Committee of Inquiry into Human Fertilisation and Embriology, Department of Health and Social Security, London 1984, p. 59.

[11] Ivi, p. 65. In un’intervista pubblicata da “Repubblica” del 31 ottobre 1991, la Warnock arriva a dire che “considerare il pre-embrione un tessuto umano e non un individuo è una scelta sofferta ma che offre indubbi vantaggi sul piano scientifico”.

[12] Seguendo questa logica, E. Lecaldano afferma che l’esistenza di un diritto alla vita dei non ancora nati avrebbe “un costo devastante sul piano della pace sociale” (E. LECALDANO, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 234). Sulla stessa linea, D. Neri (intervista rilasciata a C. PULCINELLI, Embrione, l’aberrazione giuridica che vuole la destra, “L’Unità” 5 febbraio 2002), inciampando in una curiosa tautologia, definisce assurdo e paradossale il diritto alla vita degli embrioni umani perché, se davvero un tale diritto venisse riconosciuto, sarebbero impossibili sia la legge italiana sull’aborto sia qualsiasi forma di fecondazione artificiale.  

[13] M. REICHLIN, Le opzioni legislative nei principali paesi europei, in P. CATTORINI (a cura di), Procreazione assistita e tutela del figlio, Europa Scienze Umane, Milano 1996, pp. 97-132, p. 98.

[14] C. CAPORALE - A. MASSARENTI - S. RODOTÀ - A. PETRONI, I principi alla prova. I punti essenziali per una discussione libera e aperta sulla procreazione assistita, “Il Sole 24 ore” 1 marzo 1998. Cfr. anche D. NERI, Quali regole per la procreazione assistita? “Bioetica e Riproduzione” 5, suppl. 3, http://www.bioetica.it/bibliografia04.htm.

[15] Cfr. R. SPAEMANN, Glück und Wohlwollen: Versuch über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989; tr. it. Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 182.

[16] C. CIANCIO, Urgenza e impotenza dell’etica, in P. CODA - G. LINGUA (a cura di), Esperienza e libertà, Città Nuova, Roma 2000, pp. 111-124, p. 123. 

[17] A. PESSINA, Modelli teorici in bioetica: valore e limiti del pluralismo etico, in A. PESSINA - M. PICOZZI (a cura di), Percorsi di bioetica, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 71-78. È anche possibile, in certi casi, che non si riesca a individuare la cosa giusta. Questo non significa, tuttavia, che tra le possibili azioni da compiere non ve ne siano alcune moralmente migliori di altre.

[18] Cfr. R. SPAEMANN, Verantwortung für die Ungeborenen, cit., p. 372.

[19] E. LECALDANO, voce “Persona” in ID., (a cura di), Dizionario di Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 221.

[20] In un contesto simile, l’esempio si trova in R. SPAEMANN, Moralische Grundbegriffe, C. H. Beck’sche, München 1986; tr. it. Concetti morali fondamentali, Piemme,Casale Monferrato 1993, p. 74.

 
 
     
     
 
 
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