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Per
una soluzione dei dilemmi morali della bioetica: “mettersi
d’accordo” o “fare la cosa giusta”?
di
Luciano Sesta
1. Il rischio di una dissoluzione della domanda etica in
bioetica
Chiunque oggi voglia occuparsi di bioetica non può non confrontarsi con il problema
del c.d. pluralismo etico. La posizione oggi dominante,
che assume un tale pluralismo come un dato di fatto
irriducibile, è limpidamente rappresentata da Hugo Tristram
Engelhardt nel suo ormai celebre The Foundation of
Bioethics:
poiché
non ci sono argomenti [...] decisivi capaci di provare che
una concreta visione della vita morale è migliore delle
visioni alternative, e poiché non è avvenuta una
conversione di tutti a un unico punto di vista morale,
allora l’autorità morale [...] è l’autorità del consenso.
L’autorità non è né quella del potere coercitivo, né
quella della volontà di Dio, né quella della ragione, ma
semplicemente l’autorità delle persone che decidono di
collaborare.
In una moderna società democratica, in effetti, nessuno può
imporre la sua concezione personale a coloro che non la
condividono. Per risolvere efficacemente i delicati
problemi sollevati dal progresso delle scienze biomediche
non rimane, dunque, che la logica del consenso. Un
consenso che, in ragione della conflittualità reciproca di
alcune convinzioni morali, spesso prende il volto di un
compromesso, ovvero di un accordo in cui ciascuna delle
parti in causa rinuncia a qualcosa per venire incontro
all’altra, garantendo, in tal modo, la possibilità di un
agire condiviso.
L’apparente plausibilità di tale impostazione non deve far
dimenticare che essa tende a cancellare l’interrogativo
morale della bioetica, svuotandola dello spessore
problematico che, pure, si vorrebbe salvaguardare
riconoscendo il pluralismo irriducibile delle nostre
società. La bioetica del compromesso (o bioetica
procedurale del consenso), infatti, non considera più
l’etica come una riflessione su cosa è bene e su cosa è
male, ma come uno strumento di calcolo e di negoziazione
pacifica tra interessi individuali e concezioni private
circa il senso della vita, della salute ecc. Una
negoziazione che non investe solo i problemi pratici
legati all’azione, ma anche le questioni teoriche che vi
stanno alla base. Così, se per esempio “la questione
dell’embrione” consiste nello “stabilire quando comincia
una nuova vita personale”, dalla molteplicità e
inconciliabilità delle risposte e delle conseguenti
indicazioni comportamentali si dovrà concludere che non
rimane altra soluzione che quella di “cercare una civile,
serena e laica mediazione che consenta a tutte le
posizioni di convivere, eliminando – ogni parte con
qualche rinuncia – le più evidenti ragioni di attrito”.
Il volto
amichevole e accomodante della soluzione appena menzionata
– molto diffusa sia a livello di senso comune sia a
livello di dibattito etico-politico – spesso distoglie da
un’analisi critica del suo presupposto di fondo. Un tale
presupposto, tipico, più che del pluralismo, del c. d.
“relativismo etico”,
consiste nell’idea che tutte le opinioni sul problema
discusso, purché formulate in modo consapevole e libero,
siano moralmente equivalenti e che nessuna, dunque, possa
essere detta migliore o più convincente di altre. Solo
sulla base di questo presupposto, in effetti, l’unico modo
sensato di risolvere una controversia morale è quello di
instaurare un dialogo alla ricerca di una soluzione
condivisa, che consiste nel raggiungimento di un punto di
equilibrio super partes, in cui nessuna opinione
prevale sulle altre. La domanda, così, oggi non è, per es.,
“è bene o male utilizzare embrioni umani per avere figli o
per la sperimentazione scientifica?”, come se potesse
darsi una risposta oggettivamente valida che metta tutti
d’accordo, ma: “come facciamo a rendere compatibili le
diverse convinzioni morali sull’utilizzo degli embrioni?”.
Ciò che conta non è più la ricerca del significato
morale dell’utilizzo di embrioni umani, ma il rispetto
dell’opinione, qualunque essa sia, che in una comunità ci
si è formati sull’utilizzo degli embrioni umani.
Ora, per
quanto non si possa né si debba sottovalutare la
complessità del pluralismo e i problemi concreti che esso
pone quando si affrontano questioni delicate come quelle
della bioetica, la tesi che intendiamo proporre è che un
problema morale può dirsi risolto non quando ci si
mette d’accordo nonostante la diversità delle
opinioni, ma quando si riesce a individuare (e a fare)
la cosa giusta.
E infatti, se la ricerca di punti in comune e di
soluzioni condivise può risultare doverosa e auspicabile
in campo politico e legislativo, non sempre corrisponde a
un buon metodo in bioetica. Ci sono casi, infatti, in cui
la riflessione etica – sia dell’uomo comune sia dello
specialista – conduce al riconoscimento di beni umani il
cui valore, per definizione, è sottratto a ogni forma di
negoziazione e compromesso.
2. Il relativismo difficile
Lo spirito che anima il relativismo liberale che sta alla
base di ampie correnti in bioetica è, a prima vista,
quello della tolleranza. Ciò che davvero conta, nel
relativismo, non è stabilire, per esempio, se la
fecondazione in vitro sia una risposta umanamente
adeguata al desiderio di un figlio o l’eutanasia sia una
soluzione al problema della sofferenza, ma che nessuna
opinione sulla fecondazione in vitro e
sull’eutanasia si affermi a spese di un’altra,
rispettando, così, la libertà di tutti e di ciascuno. Ora,
però, a uno sguardo più attento questo lodevole progetto
finisce per innescare un cortocircuito che ne rappresenta
non tanto la strutturale incoerenza teorica, quanto,
piuttosto, l’improponibilità pratica. Per una singolare
eterogenesi dei fini, affermando di non voler imporre
l’aborto o l’eutanasia a chi non li condivide, i
relativisti impongono il loro punto di vista. E
infatti, chiedendo per esempio di non preoccuparsi di come
gli altri trattano gli embrioni umani e i malati senza
prospettive di guarigione, i relativisti attribuiscono ai
loro interlocutori l’esatto contrario di ciò che essi
sostengono, e cioè un disinteresse per la sorte della vita
umana. I sostenitori della tesi relativistico-liberale non
si avvedono di una verità elementare: chi vuole proteggere
la vita umana dall’omicidio non può in alcun modo
ritenersi soddisfatto da una soluzione che mentre non gli
impone di uccidere autorizza però gli altri a farlo.
Continuare a invocare la libertà di scelta e il pluralismo
delle opinioni di fronte a coloro che chiedono il rispetto
della dignità umana di embrioni e malati non funziona più,
a questo punto, come un argomento decisivo. Coloro che
nella prima modernità lottavano per i diritti degli indios
non pensavano che dovessero rispettare gli indios solo
coloro che li ritenevano persone umane. Piuttosto, chi
riteneva che anche gli indios fossero persone umane,
chiedeva per essi diritti umani, indipendentemente da
coloro che la pensavano diversamente. Che in una società
nessuno possa imporre un pensiero e un comportamento a chi
non lo condivide è innegabile, ma ciò non vale nel caso in
cui si tratti di tutelare la vita e i diritti della
persona – o anche degli animali
– nei confronti di coloro che non li vedono e li
calpestano. Anche chi ritiene che i bambini non ancora
nati non siano persone, se è davvero in buona fede, deve
concedere che chiunque li ritenga persone deve trarre da
questa convinzione le conseguenze necessarie e, dunque,
lottare per la tutela dei loro diritti.
Chi non lo concede e di fronte alla richiesta di
rispettare la vita dell’embrione umano dice: “questo è il
tuo punto di vista privato, non puoi imporlo a chi non lo
condivide”, dovrebbe interrogarsi, in modo spregiudicato,
sulle conseguenze di questa sua affermazione. Infatti, se
egli stesso si trovasse in una situazione in cui fosse
convinto del carattere pienamente umano, per esempio,
degli ebrei o di chiunque altro fosse discriminato, non
tenterebbe di difenderli né avrebbe rimorsi di coscienza
se non lo facesse. A chi lo dovesse accusare di omissione
di soccorso egli potrebbe pur sempre rispondere di non
essere autorizzato a costringere altri al rispetto di vite
umane che essi non ritengono meritevoli di tutela.
Una conseguenza così imbarazzante è un buon motivo,
crediamo, per cominciare a dubitare delle capacità del
relativismo etico di esprimere il valore che, pure, esso
si vanta di promuovere: la libertà di tutti e di ciascuno.
3. “Mettersi d’accordo” in etica: tra cattivo compromesso
e mito della neutralità
L’idea secondo cui un problema etico può dirsi risolto quando
si riesce ad aggregare il maggior numero di consenzienti
non scaturisce, come si è accennato, dalla ricerca di che
cosa è bene fare, ma dal tentativo di equilibrare tendenze
e bisogni socialmente diffusi. Questo modo di impostare i
problemi etici ha preso avvio ufficiale, in bioetica, nel
celebre Rapporto Warnock della Commissione
governativa britannica, steso ai fini di una
regolamentazione del trattamento da riservare agli
embrioni umani nel campo delle biotecnologie. Assumendo le
tendenze socialmente esistenti come un dato di fatto
incontestabile, il documento Warnock ha preso atto
che l’affermazione di una “protezione assoluta”
dell’embrione avrebbe impedito una serie di pratiche ormai
in corso – come l’aborto e la fecondazione in vitro
– e ha dunque optato per una “tutela differenziata”,
stabilendo ufficialmente un limite di 14 giorni, prima del
quale è consentito utilizzare gli embrioni umani come
materiale biologico. La cosa sorprendente, e che
costituisce il merito di trasparenza del documento, è che
tale limite di 14 giorni, prima del quale non si parla di
embrione ma di “pre-embrione”, non è frutto di una
descrizione scientifica – poiché si riconosce che dal
concepimento in poi “non vi è un momento più importante di
un altro; sono tutti momenti di un processo ininterrotto”
– ma di un “compromesso arbitrario” finalizzato ad
“alleviare le preoccupazioni dell’opinione pubblica” (in
order to allay public anxiety).
Si preferisce così lavorare su un’ipotesi consapevolmente
basata su una finzione, ma condivisa, piuttosto che
affrontare i problemi e i contrasti che deriverebbero dal
chiaro riconoscimento della verità.
Il caso
Warnock mostra che quando si cerca di risolvere un
delicato problema morale con gli strumenti politici del
consenso, si crea un’apparente condivisione che è in
realtà solo un cattivo compromesso. Certo, si potrebbe
obiettare che non c’è altra strada, in una società
pluralistica, che quella del compromesso. Il compromesso
sarebbe l’unico strumento di cui il diritto dispone per
regolamentare efficacemente la vita sociale, rinunciando a
imporre una concezione morale determinata – che renderebbe
“fuori legge” coloro che non la condividono – e lasciando
che ognuno gestisca in piena autonomia il proprio piano di
vita. Tuttavia, l’apparente neutralità di questa
soluzione, presuppone l’“aver già operato una
gerarchizzazione dei valori in gioco, assumendo il valore
morale della libertà individuale come prioritario rispetto
ad altri valori eventualmente concorrenziali”.
In Italia, per esempio, si
critica aspramente la normativa sulla fecondazione
artificiale (legge 40/2004), accusandola di aver
canonizzato una particolare visione morale a spese di
tutte le altre. Chi muove questa critica non considera
l’ipotesi che una normativa avrebbe anche potuto vietare,
in linea di principio, qualsiasi pratica di fecondazione
artificiale e che l’esistenza stessa di una legge come
quella italiana implica, di fatto, il riconoscimento della
liceità morale di tale pratica. Così, quando alcuni
affermano “che la legislazione sulla procreazione
assistita […] non deve essere il risultato del prevalere
di maggioranze politiche ‘trasversali’ che convergono
nella volontà di affermare – qualunque essa sia – una
certa visione morale particolare”,
sembrano non accorgersi che il punto di partenza del loro
ragionamento, e cioè l’esistenza stessa di una legge che
non vieta la fecondazione artificiale, rappresenta
già l’imposizione di una “visione morale particolare”.
In effetti, con la legge italiana il punto di vista morale
che giudica lecita la fecondazione artificiale prevale
sul punto di vista morale che, al contrario, la ritiene
illecita.
Come si
può vedere, anche coloro che sostengono una posizione di
neutralità pluralista, secondo cui una legge dello stato
dovrebbe essere imparziale, affermano un determinato punto
di vista morale che non è certo imparziale. Ma se è così,
allora forse sarebbe più opportuno dichiarare apertamente
il proprio punto di vista sottoponendolo al confronto con
quello altrui, invece di imporlo surrettiziamente sotto le
false spoglie della neutralità.
4. La buona unilateralità: “fare la cosa giusta”
Abbiamo finora cercato di evidenziare alcuni limiti di quella
che abbiamo definito l’impostazione relativistico-liberale
(o contrattualista e procedurale) spesso adottata in
bioetica. Dovrebbe emergere, da questi limiti, che
l’esigenza di rispetto e di condivisione che relativismo e
contrattualismo intendono promuovere non può spingersi
fino al paradosso di sacrificare valori morali innegabili
anche se non da tutti condivisi. Del resto, il
pluralismo morale non è così estremo come spesso si dice.
Ogni società, infatti, riconosce l’esistenza di un bene
comune, anche se esso non è empiricamente condiviso da
tutti i suoi singoli membri. Lo si può mostrare facilmente
con un esempio. Se una società si trovasse a dover
fronteggiare il problema del furto non ricorrerebbe a un
confronto critico su cosa i cittadini pensano della
proprietà privata e della sua eventuale violazione. Lo
stato non attenderebbe, prima di rendere giuridicamente
vincolanti delle soluzioni, che si raggiunga un
compromesso sulla questione. E questo sebbene non tutti i
cittadini la pensino allo stesso modo, per esempio, sulla
legittimità di qualcosa come la proprietà privata. E in
effetti l’accordo – o anche solo il compromesso – su una
questione moralmente rilevante non è conditio sine qua
non di una legislazione in materia che voglia dirsi
adeguata. Il compito del diritto, e ancor di più
dell’etica, non è la soluzione condivisa dei
conflitti ma la giusta soluzione dei conflitti.
E su quale sia la soluzione giusta può continuare a
esserci conflitto, senza che tale soluzione smetta di
essere giusta. La ricerca di norme condivise che
garantiscano la convivenza sociale è certamente
auspicabile e spesso necessaria, ma non è sufficiente.
C’è, infatti, anche la giustizia morale, la quale, come è
stato acutamente osservato, “non è negoziabile e non è il
risultato di una negoziazione, perché è l’esperienza di un
dovere indiscutibile, quello che spinge Antigone a dar
sepoltura a suo fratello. E ha un valore simbolico il
fatto che Antigone si spinga fuori della città:
l’obbedienza morale può portare fuori dal patto politico
(e dunque può mettere in pericolo la pace)”.
La soluzione di un conflitto etico non si realizza allora
quando si sia riusciti a far coesistere punti di vista
soggettivi moralmente equivalenti, ma quando, una volta
che si sia riusciti a identificare la cosa giusta (o
sbagliata), si agisca coerentemente.
Che il criterio normativo non sia il libero accordo ma la
“cosa giusta” è dimostrato, del resto, dal fatto che non
tutte le scelte, per il fatto di essere compiute
liberamente, si equivalgono. Non hanno tutte lo stesso
valore. La scelta di chi adotta un bambino in gravi
difficoltà non ha, oggettivamente, lo stesso valore della
scelta di chi, per ottenere un figlio biologico, accetta
il sacrificio di quattro embrioni umani previsto da un
ciclo di fecondazione in vitro. Ci sono scelte
migliori di altre e, in alcuni casi, ci sono scelte
semplicemente cattive, che non possono essere in
alcun modo giustificate.
Se
davvero è così, allora una scelta è moralmente risolutiva
non quando accontenta tutti o non scontenta nessuno, ma
quando è una scelta buona, quando, cioè, può essere
ragionevolmente condivisa da chiunque, anche se di
fatto non lo è. Così, per esempio, se sulla
vivisezione degli animali ci sono tesi diverse, noi non
deduciamo che ognuno può, secondo coscienza, rispettare
gli animali e, se la sua coscienza non glielo vieta,
praticare disinvoltamente la vivisezione. Piuttosto
chiediamo, e a buon diritto, che lo stato protegga gli
animali dalla sofferenza inutile e invitiamo chi non è
d’accordo ad adeguarsi ragionevolmente.
Allo stesso modo, anche qualora in uno stato la
maggioranza non avesse la sensibilità necessaria per
riconoscere il valore di un monumento, la minoranza che
invece lo apprezza può ragionevolmente chiedere
che, per esempio, tale opera non venga distrutta solo
perché la maggioranza ritiene che al suo posto vada
costruito un campo sportivo. Perché dal bilanciamento tra
l’interesse della minoranza e quello della maggioranza
possa scaturire una decisione comune, anche se non tutti
sono d’accordo, deve poterci essere una disponibilità di
tutti gli interlocutori a riconoscere una gerarchia
oggettiva tra i valori in gioco. E, nell’esempio fatto, è
innegabile che dovrebbe prevalere l’interesse della
minoranza, così come, tra i pochi che sono in grado di
rendersi conto del valore della fisica quantistica e i
molti che magari vorrebbero riciclare la carta delle
pubblicazioni custodite nel Max Planck Institut,
dovrebbe prevalere l’interesse della minoranza. Che
rimangano malcontenti e conflitti sulla cosa non significa
che il problema non sia stato oggettivamente
risolto secondo giustizia.
Coloro
che rimangono insoddisfatti di fronte a questa conclusione
continuano a invocare il consenso e l’accordo come l’unica
garanzia di giustizia, chiedendo che ciascuno rinunci a
proporre il suo punto di vista come qualcosa di
comune che anche gli altri dovrebbero accettare.
Esemplare, in Italia, la tesi di uno studioso di
impostazione utilitarista come Eugenio Lecaldano, che
tende a identificare il rispetto della persona con il
rispetto indifferenziato delle sue opinioni morali: “Gli
esseri umani hanno opinioni e convinzioni del tutto
autonome: gravi sofferenze si originano quando tali
convinzioni non sono rispettate. La persona che va
tutelata nelle situazioni della bioetica va quindi intesa
principalmente come quell’individuo del quale rispettare
fino in fondo, se non sono lesive degli interessi altrui,
le convinzioni sul nascere, il curarsi e il morire”.
Il punto di partenza di questa posizione è che le nostre
convinzioni morali siano puramente private, e che dunque
possano rapportarsi solo o in termini di non belligeranza
e di indifferenza reciproca, o in termini di conflitto.
Ora, però, quando si identifica il rispetto della persona
con il rispetto di una sua opinione, e quando tale
rispetto prescinde dal contenuto dell’opinione, ciascuno
finirà per rispettare non tanto l’opinione dell’altro ma
il fatto stesso che l’altro abbia un’opinione,
qualunque essa sia. Ma chi partecipa a un confronto
morale chiede che sia rispettato il valore di cui la sua
opinione è un’espressione, e non il fatto, ovvio, che egli
abbia un’opinione. Chiede, in altre parole, il rispetto
del contenuto specifico della sua opinione, del valore
che, tramite la sua opinione, è proposto all’apprezzamento
altrui. Che sia effettivamente così, e che dunque
l’opinione personale e il rispetto reciproco delle
opinioni non sia il criterio di riferimento ultimo di un
confronto morale, è dimostrato dall’esistenza di casi in
cui il valore in gioco è tale, che trovare un compromesso
tra le opinioni di chi se lo contende equivale a
distruggerlo. L’episodio biblico del giudizio di Salomone
lo dimostra in modo suggestivo.
Due donne discutono davanti al re Salomone se il bambino
sopravvissuto sia il figlio dell’una o quello dell’altra.
Instaurando un vero e proprio dibattito bioetico ante
litteram, ciascuna delle due si ostina a ripetere che
il bambino è il proprio figlio e che l’altra mente. Non
potendo stabilire come stiano effettivamente le cose, dal
momento che entrambe le contendenti propongono
energicamente la loro opinione come quella vera, Salomone
ordina di tagliare in due il neonato e di darne una metà a
ciascuna delle donne. Di fronte a questa sentenza, come si
legge nella Bibbia, “La madre del bimbo si rivolse al re,
poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio,
e disse: ‘Signore, date a lei il bambino vivo; non
uccidetelo!’. L’altra disse: ‘Non sia né mio né tuo;
dividetelo in due!”. Presa la parola, il re disse: ‘Date
alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua
madre” (1 Re 3, 26-27). La vera madre del bambino è colei
che di fronte all’alternativa di vedersi riconosciuta la
propria opinione solo a prezzo della morte del figlio
preferisce rinunciare alla propria opinione. Questa
rinuncia, infatti, diventa qui l’unico modo per affermare
ciò che la sua opinione fin dall’inizio esprimeva, e cioè
l’amore per il bambino e non la difesa di una qualche
convinzione soggettiva. L’altra donna, invece,
dichiarandosi disposta ad accettare che il neonato venga
diviso in due, dimostra di tenere più di ogni altra cosa
al riconoscimento della propria opinione, dal momento che
dividere il bambino è l’unico modo perché entrambe le
opinioni contrastanti vengano rispettate, benché nella
forma di un compromesso che di fatto scontenta entrambe.
Come si
può notare, ci sono casi in cui i beni in gioco nelle
dispute morali in generale, e bioetiche in particolare,
non tollerano forme di negoziazione tra opinioni,
richiedendo, più semplicemente, che tali beni vengano
riconosciuti e rispettati. Un tale riconoscimento e un
tale rispetto implicano senz’altro la convalida di una
particolare opinione (nel caso del giudizio di
Salomone l’opinione della vera madre) che si afferma a
spese di altre opinioni. Ma questo, come abbiamo cercato
di mostrare, non è un argomento contro l’idea che nelle
dispute di bioetica l’importante non è “mettersi
d’accordo” ma “fare la cosa giusta”.
È noto come la bioetica sia nata storicamente dalla
preoccupazione per le sorti dell’ecosistema. Quando
nel 1971 l’oncologo statunitense van Rensselaer Potter
conia il termine “bioetica”, pensa al rapporto tra
l’agire umano e l’equilibrio della biosfera nei
termini di un’incidenza dannosa del primo sul secondo.
La bioetica nasce così come “scienza della
sopravvivenza” (science of survival),
tendenzialmente estesa a tutte le specie viventi, non
soltanto a quella umana, e con l’obiettivo di
contenere l’impatto negativo del progresso tecnologico
sulla “qualità della vita” dell’ecosistema. Cfr. V. R.
POTTER, Bioethics.
The
Science of Survival,
in “Perspectives in Biology and Medicine”, 14/1970,
pp.127-153.
Sempre negli anni ’70, negli Stati Uniti, la bioetica
trova un’applicazione più specifica nel campo della
biomedicina. Il tipo di bioetica oggi prevalente, che
catalizza fortemente l’attenzione di studiosi,
politici e legislatori, è proprio quello “clinico”, il
quale assume medicina e biologia come scienze di base
e il paradigma della “qualità della vita” come
concezione antropologica ed etica. Cfr. D. ROY,
Orientamenti e tendenze della bioetica nel ventennio
1970-1990,
in C. VIAFORA (a cura di), Vent’anni di Bioetica,
Fondazione Lanza, Libreria Gregoriana Editrice,
Padova-Roma 1990, pp. 95-122.
Cfr. R. SPAEMANN, Glück und Wohlwollen: Versuch
über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989; tr. it.
Felicità
e benevolenza,
Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 182.
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