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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 1 - Settembre 2006 
     
 

Origine, contenuti e scopi della bioetica

di Angelo cafaro

 

 

La bioetica [1] (etimologicamente “etica della vita”) ha origine, in quanto insieme di specifiche problematiche oggetto di riflessione e di studio, nel periodo storico immediatamente successivo al processo istruito a Norinberga contro i criminali nazisti. Il termine “bioetica” venne di fatto introdotto per la prima volta nel 1970 da Van Rensselaer Potter che lo utilizzò nella sua opera “Bioethics: the Science of Survival”.

Le sempre più complesse modalità di intervento terapeutico sull’uomo, rese possibili soprattutto dagli enormi progressi realizzati negli ultimi decenni nel campo delle biotecnologie, come pure i crescenti rischi ecologici conseguenti a uno sfruttamento incontrollato delle risorse ambientali, hanno costretto la società contemporanea a una più attenta riflessione etica e alla ricerca di adeguati strumenti giuridici atti a tutelare più efficacemente il “bene comune”.

L’elenco delle problematiche di cui la bioetica si occupa è particolarmente lungo. Con un rapido e sommario sguardo panoramico possiamo comprenderle nelle seguenti “categorie”:

a) questioni relative all’origine della vita;

b) questioni relative alla fine della vita;

c) questioni inerenti la sessualità umana;

d) questioni collegate alla tutela dell’ambiente e della natura in genere;

e) questioni di rilevanza sociale;

f) questioni circa la tutela degli animali.

La bioetica può essere considerata, innanzi tutto, un fenomeno “culturale” che nasce dall’esigenza, sempre più crescente, di migliorare l’impostazione morale delle strutture sociali, anche al fine di garantire a tutti le migliori condizioni possibili di benessere psico–fisico e socio–ambientale. Questa esigenza è frutto, almeno in parte, di vari fattori:

a) una maggiore consapevolezza dei limiti di tutte le scienze e della necessità di elaborare una visione integrale della realtà;

b) i progressi della scienza e della tecnologia biomedica, che hanno posto il problema di quali limiti siano da considerare invalicabili per non danneggiare l’uomo;

c) l’insufficienza della normativa giuridica e la sua relativizzazione di fronte a valori una volta ritenuti assoluti e, quindi, il non infrequente contrasto tra diritto e morale.

Comunque la si voglia definire [2] , la bioetica va considerata e strutturata in modo profondamente interdisciplinare, posto che essa si presenta come un nuovo modo di operare la riflessione scientifica sui problemi morali. Pertanto non deve “essere concepita come un semplice ragguaglio sulle opinioni e sulle posizioni etiche esistenti nella società e nella cultura, ma, dovendo suggerire valori di riferimento e delle linee di scelta operativa, dovrà impegnarsi a fornire delle risposte obiettive su criteri razionalmente validi” (Sgreccia).

Per tale ragione, è di fondamentale importanza l’antropologia di riferimento sulla base della quale viene avviata la riflessione ra­zionale e filosofica sulla vita umana e su tutti quegli aspetti specifici di cui la bioetica si occupa. Quest’ultima, intesa come etica razionale che si interroga prevalentemente, se non esclusivamente, sulla liceità dell’intervento biomedico sull’uomo, deve quindi innanzi tutto cercare di rispondere alla domanda: “chi è l’uomo”?

Ed è proprio a tale interrogativo che oggi, forse ancor più che in altre epoche, ci si trova in difficoltà nel dare precisa e corretta ri­sposta. La sfida che la scienza medica pone all’uomo contempora­neo, la sfida che l’uomo contemporaneo pone a se stesso, è altamente drammatica e rischiosa. Sin dai tempi di Galileo la scienza, che ha adottato il metodo sperimentale (osservazione, ipotesi, esperimento, formulazione della legge, verifica), ha inconsapevolmente assunto anche un finalismo che è quello del dominio sulla natura e sul mondo e che si sintetizza nella massima: “sapere è potere”, che a sua volta ricorda la cartesiana affermazione: “conoscere per dominare”. Le attuali possibilità manipolative dell’uomo sull’uomo fanno sì che si corra il rischio reale di un progressivo, e spesso inavvertito, “riduzionismo biologico”. Tale rischio è legato anche al fatto che la conoscenza scientifica non è conoscenza dell’essere. Essa non può sapere esattamente “cosa sia” o “chi sia” l’uomo (ogni singolo uomo) e pertanto è incapace di fornirgli valori etici validi sui quali possa fondare le sue scelte vitali.

Se consideriamo il fatto che viviamo in un contesto socio–culturale caratterizzato da un ampio “pluralismo etico” si può comprendere facilmente perché anche le proposte etico–antropologiche rilevabili in bioetica manifestano, di fatto, una sostanziale frammentazione e una sorta di inconciliabilità “di principio”.

Nelle diverse culture si riscontrano numerosi modelli costitutivi dei valori fondamentali che, in modo oltremodo sintetico, possono essere ricondotti a quattro principali:

a) il modello nichilista, secondo cui l’unico valore è la libertà di fare ciò che si vuole e l’unica responsabilità è proprio quella di agire liberamente [3] ;

b) il modello sociologico, secondo il quale non esistono valori universali nel tempo o valutabili astrattamente al di fuori di un concreto contesto sociale [4] ;

c) il modello intuizionista-emozionale, che pone nel senti­mento la fondazione dei valori [5] ;

d) il modello personalista, che fonda i valori sulla realtà metafisica e l’obbligatorietà della norma morale sulla “natura“ stessa dell’uomo considerata creatura ragionevole [6] .

Il notevole sviluppo delle biotecnologie ha consentito alla scienza medica di raggiungere progressivamente una serie di sorprendenti risultati, a cominciare dalla stessa possibilità di riprodurre la vita umana “in vitro”. La disponibilità, al di fuori dell’utero materno, di embrioni umani precoci ha così permesso di studiarne più attentamente le modalità di sviluppo e di gettare le basi per non più solo futuribili interventi terapeutici a livello del genoma, come pure per quella pratica biomedica ormai ampiamente  conosciuta che è la “clonazione”.

Dal punto di vista bioetico, il principale interrogativo suscitato dalle diverse tipologie di intervento sugli embrioni umani è proprio quello della loro stessa liceità [7] .

Il dibattito bioetico si è pertanto incentrato essenzialmente sul problema del cosiddetto “statuto ontologico” dell’embrione umano al fine di cercare di precisarne la natura specifica e i diritti, assoluti o relativi che siano [8] .

Oltre alla procreazione artificiale, ugualmente legate all’epoca prenatale vi sono altre importanti problematiche sulle quali la bioetica di inizio vita deve confrontarsi.

Prima tra tutte, quella relativa all’aborto volontario [9] , la cui diffusione nel mondo, grazie anche a legislazioni più o meno permissive, ha raggiunto livelli notevolissimi [10] . Tale situazione è imputabile a due fattori principali: una diffusa mentalità antinatalitaria, che utilizza impropriamente l’aborto come mezzo di limitazione delle nascite [11] , e il ricorso sempre più sistematico alla diagnosi prenatale, che consente di individuare i feti portatori di malattie ereditarie o di malformazioni congenite e, conseguentemente, di eliminarli abortendoli.

Il quesito etico fondamentale, per l’embrione come per il feto [12] , è se possono e/o devono essere considerati, a pieno titolo, “persona umana”.

Come ben noto, nei Paesi del mondo industrializzato l’età media si sta innalzando sempre di più, la qual cosa, associata ad una contemporanea e significativa diminuzione della natalità, comporta una progressiva inversione del rapporto tra giovani e anziani a favore di quest’ultimi [13] . Tale situazione pone, e in prospettiva ne porrà sempre di più, non pochi problemi relativi, tra l’altro, all’assistenza materiale e alle cure mediche che è necessario garantire alla popolazione anziana.

E’ in questo contesto che, da alcuni decenni, in molti ambienti, si è aperto un ampio dibattito pubblico sull’eutanasia invocando da più parti il diritto per il malato “terminale” —e più in generale per tutti coloro che soffrono— di essere aiutati a morire “con dignità”, grazie a una “buona morte” provocata deliberatamente per anticipare e prevenire quella “naturale” [14] .

Tra le molteplici problematiche di cui si occupa la bioetica clinica [15] se ne possono citare due in particolare per il rilievo assunto negli ultimi anni: i trapianti d’organo e la prevenzione dell’AIDS.

Anche nell’ambito della sessualità umana sono diverse le tematiche di interesse bioetico [16] . La principale è probabilmente quella relativa alla diffusione e all’utilizzo di diversi metodi di “regolazione” della fertilità umana. Altre questioni, in genere prese meno in considerazione, sono quelle che riguardano comportamenti quali l’autoerotismo, l’omosessualità, i rapporti prematrimoniali.

C’è poi tutto un campo della vita, e quindi della bioetica, che merita una riflessione scientifica organica e strutturata: è quello dei problemi legati agli aspetti “sociali” della vita stessa. La promozione della qualità della vita, compito fondamentale e primario della bioetica, non può non tener conto della natura “sociale” dell’uomo, delle sue relazioni interpersonali e con le istituzioni, dei suoi eventuali “disagi” esistenziali, del valore “pubblico” della vita umana, dell’insopprimibile binomio libertà (o autonomia personale) e responsabilità [17] .

L’etica ambientale, come tutti gli altri ambiti della bioetica, è caratterizzata da un sostanziale “pluralismo” morale che si manifesta in una diversità di “approcci” riconducibili principalmente ai seguenti: l’approccio “antropocentrico”, quello “biocentrico” e uno “ecocentrico”, nei quali si ritrovano, come punti fondamentali di riferimento, l’uomo, la vita e l’ecosistema, rispettivamente [18] , [19] .

L’attenzione per la bioetica animale, infine, si va diffondendo sempre di più, grazie anche all’azione dei diversi movimenti ambientalisti e animalisti, alla maggiore “sensibilità” dei vegetariani e dei gruppi “salutisti” contrari alla manipolazione genica delle carni, e anche ad una filosofia, con radici sia religiose che laiche, che sostiene la presenza anche negli animali di una limitata intelligenza e di una certa “senzienza” (vale a dire della capacità di soffrire). E’ così che gli interrogativi bioetici [20] in questo campo si sono moltiplicati divenendo oggetto di dibattiti pubblici e di attenzione da parte dei mezzi di comunicazione di massa.

 

Angelo Cafaro

Università Campus Bio-Medico di Roma

a.cafaro@unicampus.it

 


 


[1] Cfr. G. RUSSO (a cura di), Bioetica fondamentale e generale, SEI, Torino 1995.

[2] E. Sgreccia la definisce come “la filosofia morale della ricerca e della prassi biomedica” o, più particolareggiatamente, come “quella parte della filosofia morale che considera la liceità o meno degli interventi sulla vita dell’uomo e, particolarmente gli interventi connessi con la pratica e lo sviluppo delle scienze mediche e biologiche” (E. SGRECCIA, Bioetica, Vita e Pensiero, Milano 1986, 43). V.R. Potter la definisce, invece, come “la conoscenza su come utilizzare la conoscenza per il bene sociale” (V.R.Potter, Bioethics: Bridge to the future, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1971,1). Secondo S. Leone la bioetica è quel “settore dell’etica che studia i problemi inerenti alla tutela della vita fisica e in particolare le implicazioni etiche delle scienze biomediche” (S. LEONE, Lineamenti di Bioetica, Medical Books, Palermo 1990, 9). Infine, secondo G. Russo, essa è “la scienza sistematica dell’uomo etico che indaga gli dei valori etici che governano la vita” (G. RUSSO, La bioetica e le tecnologie della vita umana nascente” Elledici, Leumann, Torino, 1994, 5).

[3] Tale modello, evidentemente, si scontra con una difficoltà pratica immediata che è quella di dover compaginare l’esercizio della propria libertà con quella degli altri. Se ciascuno decidesse di fare “liberamente” tutto ciò che vuole è facilmente immaginabile la situazione, permanentemente conflittuale, che si determinerebbe nei rapporti tra gli uomini. In una società in cui ciascuno diviene legge per se stesso, sono sempre i più forti e i più violenti che finiscono col prevalere sugli altri.

[4] Secondo questo modello non esistono valori o regole “assolute”, ma ogni principio normativo è relativo, al contesto storico, agli orientamenti culturali, alle concrete possibilità operative, alle circostanze in cui gli individui si trovano ad agire, al fine che ci si propone. Ne deriva un relativismo etico che, con estrema facilità, sconfina nell’utilitarismo (per me è bene tutto ciò che mi è utile) e nell’edonismo (per me è bene tutto ciò che mi procura piacere).

[5] Si tratta di una concezione etica che applica sistematicamente la “legge del sentimento”. L’imperativo morale non deriva da un astratto obbligo teorico da rispettare sempre e comunque, ma dal sentimento: se mi “sento” di fare una cosa, se la faccio “spontaneamente”, “con sentimento” quell’azione è senz’altro buona. Anche in questo caso ne deriva una morale assolutamente soggettiva, potremmo dire “metereopatica”, considerato il fatto che i sentimenti mutano con la stessa facilità con la quale cambia il tempo.

[6] E’ sicuramente il modello più impegnativo da accettare e rispettare nelle sue conseguenze pratiche, ma è anche quello che, più di ogni altro, rispetta l’uomo e ne tutela i diritti (oltre, ovviamente, a attribuirgli dei precisi doveri nei confronti dei suoi simili). La concezione “personalista” è quella tipicamente e propriamente cristiana. L’uomo è costituito da anima e corpo, la prima creata direttamente da Dio, il secondo generato dai genitori. L’uomo ha un destino eterno di cui egli si rende personalmente responsabile in quanto dotato di volontà libera. La sua vita è sacra e inviolabile in quanto dono gratuito di Dio, cui appartiene pienamente. Il suo vero bene è costituito dalla conoscenza e dal possesso di Dio che ha inscritto nella sua natura e nel suo cuore una “legge morale” che deve orientare sempre le sue scelte nella direzione del vero e unico Bene.

[7] Basti pensare che il ricorso alla fecondazione “in vitro”, sia a scopo terapeutico che sperimentale, comporta la inevitabile perdita di migliaia e migliaia di embrioni umani.

[8] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Identità e statuto dell'embrione umano, 22 giugno 1996.

[9] Cfr L. CICCONE, La vita umana, Ares, Milano 2000, 101-125.

[10] Stime attendibili indicano in circa 40 milioni gli aborti chirurgici realizzati ogni anno nel Mondo. Per quanto si riferisce all’Italia, dal 1978 —anno di entrata in vigore della legge 194— al 1999, sono stati effettuati circa 3,5 milioni di aborti legali.

[11] A questo proposito va evidenziato come diversi metodi utilizzati per il controllo della natalità, e propagandati come “contraccettivi” (vale a dire “capaci di impedire il concepimento”), sono in realtà degli “abortivi” in quanto agiscono dopo l’avvenuta formazione dell’embrione (è il caso, ad esempio, dei dispositivi intrauterini e della cosiddetta “pillola del giorno dopo”). Esistono poi anche metodiche dichiaratamente abortive, ma “non chirurgiche”, come l’Ru–486 (o mefipristone) e il vaccino anti–Hcg.

[12] Si parla di “embrione” sino al 60° giorno di sviluppo intrauterino e di “feto” successivamente.

[13] Si calcola che, in Italia, entro il 2040 quasi il 60% della popolazione sarà costituito da persone con più di 65 anni.

[14] Cfr L. CICCONE, La vita, 127-140 e H. DOUCET, Al fiume del silenzio, SEI,Torino 1992, 9-71.

[15] Tra le altre, si possono citare quelle relative alle tecnologie della rianimazione, alla sperimentazione scientifica sull’uomo, alle trasfusioni di sangue, ai trapianti di midollo e ai trattamenti psichiatrici.

[16]   Cfr. G.RUSSO (a cura di), Bioetica della sessualità, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1999, 184-213; 283-320 e R. FRATTALLONE, L’educazione sessuale, Coop. S. Tom., Messina 1999, 77-208.

[17] Tra le varie questioni di cui si occupa la bioetica sociale rientrano l’uso delle droghe e le tossicomanie, l’alcolismo, il tabagismo, il ricorso al “doping” nello sport. Altre questioni si confrontano col problema degli anziani, con quello della equa distribuzione delle risorse sanitarie, della prevenzione delle malattie (vaccinazioni, ecc.), ecc.

[18] A queste tre principali correnti di pensiero “ambientalistico” si possono aggiungere anche il cosiddetto “ecofemminismo”, che viene inteso come un’analisi delle questioni e dei problemi ambientali considerati dal punto di vista femminista, e la “deep ecology” (ecologia “profonda” o totale), che si caratterizza per una visione globale del mondo che vede l’uomo in armonia con la natura (una sorta di “ecosofia” o filosofia ecologica in risposta alla crisi ecologica).

[19] Cfr G. Russo (a cura di), Bioetica ambientale, Elle Di Ci, Torino 1999, cap. 2.

[20] Ne citiamo alcuni a titolo di esempio. Esiste per l’uomo un obbligo etico di tutelare le specie animali in via di estinzione? E’ giusto mantenere animali selvatici in cattività (zoo, parchi zoologici) a beneficio dell’uomo? In che misura è moralmente lecita la caccia tenendo presenti i diversi scopi che si perseguono con l’abbattimento degli animali (nutrimento, vestiario, sport)? Le condizioni in cui vengono abitualmente tenuti gli animali negli allevamenti intensivi sono rispettose della loro “dignità” di esseri “senzienti”? Quali sono i limiti etici da rispettare nell’utilizzo degli animali per la sperimentazione biomedica? E’ moralmente lecito manipolare geneticamente gli animali? E’ possibile individuare uno “statuto etico” per gli animali? Quali sono i principi etici ai quali deve attenersi nel suo lavoro un veterinario?

 
     
     
 
 
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