Riproponiamo
in questo numero di
Questioni di Bioetica un articolo intervista di Fulvio
Di Blasi a Jose A. Bufill su un tema – il possibile
nesso tra aborto e tumore al seno – di cui non si sta
ancora parlando quasi per nulla da questa parte dell’oceano
ma che, dati i risultati scientifici finora raggiunti
e date le enormi conseguenze che esso potrebbe avere
sull’industria abortiva e sulla scelta informata di
tante donne, merita un’attenzione di assoluto primo
piano. Ci auguriamo che questa scelta editoriale contribuisca alla nascita, intorno a questo argomento, di un serio dibattito pubblico in Italia.
L’aborto
causa il tumore al seno?
A
colloquio con Jose A. Bufill, oncologo statunitense
di
Fulvio
Di Blasi
Il 15 agosto 2001, in California, Planned Parenthood,
la più grossa industria abortiva degli Stati Uniti, nonché
uno dei maggiori distributori mondiali di contraccettivi,
viene citata in giudizio per violazione della normativa
sul «consenso informato». Planned Parenthood,
secondo l’accusa, è tenuta ad informare le donne che vi si
rivolgono dell’aumento di rischio di tumore al seno
derivante dalla procedura abortiva. Planned Parenthood,
naturalmente, nega che vi sia alcun collegamento tra
aborto e tumore al seno. Il 18 marzo 2002, il giudice
Ronald Prager della corte superiore di San Diego decide di
non dar luogo a procedere per mancanza di prove
ragionevolmente sufficienti da parte dell’accusa. In ciò,
egli si affida soprattutto al National Cancer Institute
(NCI) e alla World Health Organization, che negano
recisamente l’esistenza di alcun collegamento tra aborto e
tumore al seno. Il foglio informativo su internet (fact
sheet) del NCI recita: «La tesi di un collegamento tra
aborto e tumore al seno si basa su limitati esperimenti
effettuati sui topi, e non è coerente con i dati sugli
esseri umani».
L’accusa fa appello.
A marzo del 2002 si ha caso simile in North Dakota. Questa
volta sarà il giudice Michael McGuire a deliberare in
favore di una clinica abortiva citata in giudizio perché
le sue brochures informative negano l’esistenza di
collegamenti tra aborto e tumore al seno. Secondo McGuire,
era ragionevole per la clinica basarsi sui giudizi di enti
di ricerca come il NCI e l’American Cancer Society.
Anche qui, l’accusa fa appello.
In realtà, già nel 1999 il NCI era stato accusato da
alcuni scienziati di pubblicare «un’assoluta menzogna». Il
fact sheet su internet si basava, infatti, su un
solo studio scientifico [Melbye et al., New Engl J Med
(1997), 336:81-5] – peraltro molto criticato – laddove era
stato lo stesso NCI che aveva parzialmente finanziato la
maggior parte dei 13 studi scientifici americani allora
esistenti, di cui tutti, tranne uno, avevano affermato
l’esistenza di un collegamento tra aborto e tumore al
seno. Il caso più eclatante, tra tali studi commissionati
dal NCI, era stato quello della dottoressa Janet Daling e
di alcuni suoi colleghi del Fred Hutchinson Cancer
Research Center. Secondo questo studio, rispetto alle
donne che sono state in cinta almeno una volta nella vita,
il rischio di tumore al seno per quelle che hanno scelto
di avere un aborto è superiore del 50%. Tale rischio si
raddoppia per le donne sotto i 18 anni e sopra i 29 e sale
fino all’80% per le donne con una storia familiare di
tumore al seno. Per le donne sotto i 18 il rischio risulta
«il più alto». La Daling è stata attaccata da parecchi
abortisti, nonostante la sua posizione personale sia
favorevole all’aborto. In un’intervista al Los Angeles
Daily News ella ha poi dichiarato che «le sarebbe
piaciuto non trovare alcun nesso tra aborto e tumore al
seno, ma la nostra ricerca è solidissima [rock solid]
e i nostri dati accurati […] Se la politica s’intromette
nella scienza farà sul serio arretrare il progresso che
facciamo. Io ho tre sorelle con tumore al seno e rimango
sconcertata quando la gente imbroglia i dati scientifici
per portare avanti i propri interessi di parte».
Tra il 2000 e il 2001 la polemica sul fact sheet
del NCI si fa sempre più intensa. Nei primi mesi del 2002,
le accuse diventano pesantissime: travisamento della
ricerca scientifica, promozione di studi erronei,
confusione, falso. All’inizio di giugno, 28 membri
del Congresso scrivono a Tommy Thompson, segretario per la
sanità (Health and Human Services) chiedendogli di
intervenire sul fact sheet in quanto
«scientificamente inaccurato e fuorviante [misleading
to the public]». Dopo neanche due settimane, il NCI
modifica il suo foglio informativo cancellando
l’affermazione della mancanza di nesso tra aborto e tumore
al seno. Anche l’American Cancer Society si fa più
cauta; e avverte nel proprio sito internet che l’argomento
«è ancora controverso» e che alcuni dottori «ritengono che
l’aborto aumenti il rischio di tumore al seno». Per il
United Kingdom's Royal College of Obstetricians and
Gynecologists, invece, già da tempo non v’era alcun
dubbio che il collegamento tra aborto e tumore al seno
«non può essere trascurato».
Negli Stati Uniti, nonostante molti tentativi di
silenziare la cosa da parte dell’industria abortiva e di
diversi mass-media, la questione del collegamento tra
aborto e tumore al seno è sulla breccia. Il 29 gennaio
2002, il corpo legislativo dell’Ohio ha approvato una
risoluzione che istituisce una “task force” per studiare
il problema. La task force dovrà relazionare sulla
materia non oltre il 30 novembre 2002. A settembre, il
National Physicians Center for Family Resources ha
prodotto un CD in cui si spiega che una delle conseguenze
di lungo periodo dell’aborto è l’aumento di rischio di
tumore al seno. Perfino Brita Stream, la neo eletta Miss
Oregon, è intervenuta sulla questione nel suo discorso
d’incoronazione citando vari studi scientifici e
affermando la necessità di dare alle donne un’informazione
accurata su questo effetto di lungo termine dell’aborto.
Un primo riconoscimento legale si è già avuto, in realtà,
l’anno scorso, in Australia. Una donna ha vinto un
processo contro il suo medico colpevole di non averla
informata, prima di procedere all’aborto, delle attuali
ricerche sul collegamento tra aborto e tumore al seno.
Dr. Bufill, lei è Medico Oncologo, Clinical Assistant
Professor of Medicine nella Indiana University
School of Medicine, Direttore (Chair) del GI
Malignancy Subcommittee del Northern Indiana Cancer
Research Consortium (un centro di ricerca clinica sui
tumori finanziato dal NCI), Director of Medical
Education del Saint Joseph Regional Medical Center
nella città di South Bend (Indiana), e membro dell’International
Affairs Committee della American Society of
Clinical Oncology. Lei ha pubblicato molti articoli
scientifici sulla genetica dei tumori e sul loro
trattamento clinico. Di recente, ha anche pubblicato un
articolo divulgativo sul nesso tra aborto e tumore al seno
nel Philadelphia Inquirer. I suoi lavori sia
scientifici che divulgativi sono molto citati. Dr. Bufill,
lei è uno dei cinque esperti nazionali che sono stati
chiamati a testimoniare nel processo di San Diego contro
Planned Parenthood. Per quel processo, lei ha
scritto un parere scientifico di circa venti pagine in
cui, da una parte, presenta lo stato attuale della ricerca
sul collegamento tra aborto e tumore al seno e,
dall’altra, commenta dettagliatamente le dichiarazioni dei
periti chiamati a testimoniare in difesa di Planned
Parenthood.
Dr. Bufill, una breve domanda preliminare:
qual è la sua esperienza con pazienti affetti da tumore al
seno?
Visito pazienti affetti da tumori al seno ogni giorno.
Costituiscono una parte considerevole della mia attività
di oncologo.
Può dirmi, in poche parole, qual è il succo
della relazione che ha presentato al processo contro
Planned Parenthood?
Si tratta di un caso di consenso informato. È stato
chiesto a Planned Parenthood di dire alle donne che
vogliono abortire nelle loro cliniche che la procedura
abortiva può creare una predisposizione a contrarre tumore
al seno.
Va bene; ma mi riferivo al suo parere
scientifico sul collegamento tra aborto e tumore al seno.
Che cos’ha detto nella sua relazione a questo proposito?
Ho spiegato com’è nato il problema e qual è la mia
opinione in proposito.
Continui.
La questione se un aborto non spontaneo possa predisporre
le donne a contrarre tumore al seno venne sollevata perché
molti grossi studi epidemiologici sul tumore al seno
rivelarono ripetutamente l’esistenza di un’associazione
positiva. Quegli studi, per lo più, non s’incentravano
specificamente sull’aborto. Questo, piuttosto, emerse tra
la varietà dei fattori riproduttivi studiati come uno di
quelli collegati positivamente col tumore al seno. Tali
studi fornirono il primo indizio di un possibile
collegamento e fecero esplodere il dibattito. Fino adesso,
la discussione scientifica si è incentrata, in maniera
abbastanza riduttiva, sulle questioni metodologiche
riguardanti quegli studi, a detrimento di un più ampio
approccio contestuale al problema. Io ritengo che
l’ipotesi del collegamento può essere avanzata sulla base
di un’ampia gamma di prospettive scientifiche, non solo
quella epidemiologica. In particolare, considerato ciò che
oggi sappiamo sul normale sviluppo del seno e sulla
trasformazione del seno normale in seno tumorale, è del
tutto plausibile concludere che l’aborto non spontaneo può
creare l’ambiente, per così dire, favorevole alla
trasformazione maligna.
Mi scusi, vuole dire che la questione del
collegamento non riguarda gli aborti spontanei?
Si, non li riguarda.
Su questo sarà bene ritornare più avanti.
Adesso però mi dica, che cos’è esattamente uno studio
epidemiologico e quanti sono gli studi a cui lei fa
riferimento?
L’epidemiologia cerca di identificare i fattori che
provocano le malattie studiando campioni rilevanti della
popolazione. Attualmente, circa 28 studi su 37
suggeriscono l’esistenza di un collegamento tra aborto e
tumore al seno.
Quali sono i più importanti?
Il più utile è una meta-analisi – cioè, un’analisi
effettuata su dati scientifici già pubblicati – realizzata
da Joel Brind e pubblicata nel 1996 nel Journal of
Epidemiology and Community Health.
Lo studio di Brind dimostra che l’aborto è un fattore
di rischio indipendente del tumore al seno. Il United
Kingdom's Royal College of Obstetricians and Gynecologists
ha riconosciuto pubblicamente che la metodologia e le
conclusioni di questo studio sono valide e ben fatte.
Altri due studi di alta qualità scientifica sono entrambi
di Janet Daling, uno è quello del 1994 cui lei ha già
fatto riferimento, l’altro è del 1996.
Lei ha detto che la discussione scientifica
verte in questo momento soprattutto sulla metodologia di
queste ricerche. Può spiegarmi brevemente in che cosa
consiste questa metodologia e quali sono i dubbi
sollevati?
La maggior parte degli studi epidemiologici si basano su
questionari; e, com’è ovvio, ci sono molti fattori
soggettivi che possono influenzare il modo in cui la gente
risponde ai questionari. I dubbi vertono sulla non
accuratezza dei dati raccolti.
La metodologia usata nelle ricerche
epidemiologiche rispecchia gli standard della medicina
contemporanea?
Certo. Molti fattori cancerogeni che conosciamo – il fumo,
ad esempio – sono stati identificati tramite studi di
carattere epidemiologico. Ovviamente, la qualità di ogni
ricerca dipende dalla qualità e dalla accuratezza dei
questionari e della loro interpretazione.
E che pensa della qualità degli studi che
indicano il collegamento tra aborto e tumore al seno?
Che in generale è alta e affidabile.
Può farmi un esempio di ricerche di simile
qualità che hanno giustificato e richiesto specifiche
precauzioni da parte dei medici e degli istituti di cura?
A occhio, direi quelle che collegano le carni rosse e le
fibre vegetali al tumore al colon. Oramai si accetta che
persone la cui dieta contiene più elevate quantità di
fibre vegetali e più basse quantità di carni rosse hanno
un più basso rischio di contrarre tumore al colon di
quelle la cui dieta contiene più basse quantità di fibre
vegetali e più alte quantità di carni rosse. Un altro
esempio è il recente collegamento tra il non allattamento
dei bambini e il tumore al seno: le donne che allattano
per sei mesi o per un tempo più lungo hanno un più basso
rischio di tumore al seno di quelle che non allattano o
che allattano solo per poco tempo. Questi fattori di
rischio sono stati tutti identificati tramite studi
epidemiologici.
Lei che pensa dei dubbi sollevati sulle
ricerche che mostrano un collegamento tra aborto e tumore
al seno?
Considerata la quantità di prove di cui disponiamo, penso
che la resistenza ad accettare il collegamento sia
motivata da altri interessi. Naturalmente, l’industria
dell’aborto ha molto da perdere nel caso che il
collegamento fosse ampiamente riconosciuto.
A questo proposito, io mi sono andato a
leggere la critica “distruttiva” del Dr. Brind allo studio
Melbye et al., condotto in Danimarca, su cui l’NCI
aveva originariamente basato il suo fact sheet.
Perfino a un non addetto ai lavori, gli errori presenti in
quello studio appaiono evidenti e grossolani, ed è
gioco-forza concludere che l’NCI ebbe fortissime ragioni
“non scientifiche” per selezionare proprio quello tra i
tanti studi già esistenti. Cito alcuni brevi esempi. I
conclamati pregi di Melbye et al. erano di basarsi
su dati d’archivio computerizzati (e quindi estranei alla
“soggettività” dei questionari) e di prendere in
considerazione un enorme numero di donne: tutte quelle
nate in Danimarca tra il 1935 e il 1978. I registri
computerizzati sugli aborti, però, partono dal 1973, anno
in cui le donne nate nel 1935 avevano ormai 38 anni. La
storia abortiva dei soggetti presi in considerazione è
dunque gravemente lacunosa. Considerando i registri legali
(non computerizzati) sugli aborti effettuati tra il 1940 e
il 1973, risulta che Melbye ha fatto un errore di
classificazione di più di una donna su sei tra quelle che
hanno avuto un aborto. Il suo errore sull’età media delle
donne che hanno aborti in Danimarca, poi, è di 7 anni (35
anni invece di 27). Infine, l’inclusione delle donne nate
fino al 1978, per uno studio che termina nel 1992,
inflaziona i dati di più di 350.000 soggetti che
dovrebbero rimanervi estranei (tutte le donne nate tra il
1968 e il 1978), visto che nessuna donna contrae tumore al
seno sotto i 25 anni. E questo è solo l’inizio delle
critiche di Brind.
Ormai è ampiamente riconosciuto che lo studio Melbye et
al. non è affidabile.
Dr. Bufill, al di là delle statistiche e
delle ricerche epidemiologiche, esiste di già una
possibile spiegazione scientifica del collegamento?
L’età della prima gravidanza è il fattore più importante
che determina lo sviluppo successivo del cancro. Questo è
universalmente accettato; scientificamente fuori
discussione. Una gravidanza in giovane età è fortemente
protettiva. Ritardare di mettere al mondo bambini aumenta
il rischio di tumore al seno.
La prima gravidanza ha un ruolo critico per il normale
sviluppo del seno. Il tessuto del seno non è completamente
“sviluppato” finché non ha luogo l’allattamento. Se
l’allattamento non si verifica mai, come nelle donne che
non mettono al mondo bambini, il seno non si può dire
completamente sviluppato. (L’allattamento avviene “dopo”
il parto, non prima.)
Nel corso della gravidanza, le cellule che compongono il
seno subiscono una rapida e drammatica crescita e
proliferazione. Tale crescita è causata da un ormone detto
“estrogeno”. La quantità di estrogeno raggiunge il suo più
alto livello fisiologico durante la gravidanza, e ciò
serve a preparare il tessuto del seno per l’allattamento.
La rapida crescita delle cellule del seno durante la
gravidanza significa che la maggioranza di esse si sta
attivamente dividendo. Il DNA, in queste cellule, viene
replicato a una velocità molto elevata. La produzione di
estrogeno durante la gravidanza deriva primariamente dal
feto che si sviluppa, non dalla madre. Questo è un
processo fisiologico.
Rimuovendo bruscamente la fonte di estrogeno, l’aborto
causa una “sospensione” del processo di proliferazione
delle cellule del seno e può risultare nell’aumento della
suscettibilità di tali cellule alla trasformazione
cancerogena.
Questo effetto può rimanere invisibile per anni. Io ho
pazienti che hanno contratto tumore al seno dopo anni
dall’aborto.
Questo effetto cancerogeno può essere riprodotto in
animali da laboratorio provocando in essi una gravidanza e
interrompendola in maniera innaturale mediante una
procedura abortiva.
Questo mi fa tornare in mente una questione
che avevamo lasciato in sospeso: che cambia nel caso di
aborto spontaneo?
L’aborto spontaneo avviene, di solito, in gravidanze
anormali; il bambino, cioè, in queste gravidanze, non si
sviluppa normalmente. Esistono dati che dimostrano che i
feti che crescono in queste gravidanze anormali producono
spontaneamente una quantità di estrogeno molto minore di
quella che sarebbe considerata fisiologica. Questo è solo
uno dei molti parametri che suggeriscono che sarebbe un
errore accostare gli aborti spontanei a quelli non
spontanei sotto il profilo del rischio di tumore al seno.
Un aborto non spontaneo interrompe il processo fisiologico
del normale sviluppo del feto. L’aborto spontaneo è il
risultato finale di uno sviluppo anormale del feto.
Quanti scienziati e medici sono d’accordo
con lei su questa spiegazione scientifica del fenomeno?
Brind e altri stanno avanzando ipotesi simili. Comunque,
guardi, questo è un tentativo di spiegazione scientifica
su cui si può discutere e si discuterà molto ma che non
intacca i dati delle ricerche epidemiologiche
sull’esistenza del collegamento. Questi dati non possono
essere trascurati e, come le ho detto, se li si osserva
alla luce delle altre prospettive scientifiche di cui
disponiamo, emerge un panorama che secondo gli standard
della medicina contemporanea è abbastanza chiaro e
inequivocabile.
Dr. Bufill, che pensa della decisione del
giudice Prager?
Io non sono un giurista, e non posso dare un’opinione
tecnica sulla decisione. Mi sembra che ci siano dati
scientifici più che sufficienti a giustificare
l’avvertimento alle donne che esiste un incremento del
rischio di tumore al seno derivante dalla procedura
abortiva. Noi ci troviamo spesso a dover avvertire i
pazienti di rischi di complicazioni che possono venire da
certe procedure. Un’emorragia può derivare dalla
somministrazione di aspirine. Recentemente, un uomo ha
vinto una causa contro il suo medico perché non era stato
informato che il Tylenol può causare seri danni al fegato
se ingerito insieme a un bicchiere di vino. Egli li ingerì
insieme e finì col dover subire un trapianto di fegato.
Questa è una complicazione estremamente rara; eppure,
oggi, ogni pacchetto di Tylenol contiene l’avvertimento
che Tylenol e alcool non devono essere presi insieme.
Direbbe che questa possibile complicazione
del Tylenol è più rara di quella di contrarre tumore al
seno in seguito ad aborto?
Si, lo direi. Il giudice Prager ha scelto di ignorare dati
scientifici rilevanti che collegano l’aborto al tumore al
seno.
Dunque secondo lei il diritto ad essere
informati di questo rischio prima di prestare il proprio
consenso ad un’operazione abortiva esiste…
Esiste certamente un diritto al “consenso informato”. I
pazienti hanno il diritto di sapere in che modo un
particolare intervento può influire sulla loro salute, e,
sulla base di tale informazione, decidere se vogliono
procedere oppure no. Uno dei compiti più importanti del
medico è “istruire” i propri pazienti sui rischi e i
benefici di ogni intervento medico cui potrebbero essere
sottoposti, e incoraggiare la loro partecipazione attiva
alle decisioni mediche. Questo è necessario all’esercizio
etico della pratica medica.
Grazie, Dr. Bufill.
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