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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 1 - Settembre 2006 
     
 

Riproponiamo in questo numero di Questioni di Bioetica un articolo intervista di Fulvio Di Blasi a Jose A. Bufill su un tema – il possibile nesso tra aborto e tumore al seno – di cui non si sta ancora parlando quasi per nulla da questa parte dell’oceano ma che, dati i risultati scientifici finora raggiunti e date le enormi conseguenze che esso potrebbe avere sull’industria abortiva e sulla scelta informata di tante donne, merita un’attenzione di assoluto primo piano. Ci auguriamo che questa scelta editoriale contribuisca alla nascita, intorno a questo argomento, di un serio dibattito pubblico in Italia.

 

 

L’aborto causa il tumore al seno?

A colloquio con Jose A. Bufill, oncologo statunitense

  di Fulvio Di Blasi

 

  

Il 15 agosto 2001, in California, Planned Parenthood, la più grossa industria abortiva degli Stati Uniti, nonché uno dei maggiori distributori mondiali di contraccettivi, viene citata in giudizio per violazione della normativa sul «consenso informato». Planned Parenthood, secondo l’accusa, è tenuta ad informare le donne che vi si rivolgono dell’aumento di rischio di tumore al seno derivante dalla procedura abortiva. Planned Parenthood, naturalmente, nega che vi sia alcun collegamento tra aborto e tumore al seno. Il 18 marzo 2002, il giudice Ronald Prager della corte superiore di San Diego decide di non dar luogo a procedere per mancanza di prove ragionevolmente sufficienti da parte dell’accusa. In ciò, egli si affida soprattutto al National Cancer Institute (NCI) e alla World Health Organization, che negano recisamente l’esistenza di alcun collegamento tra aborto e tumore al seno. Il foglio informativo su internet (fact sheet) del NCI recita: «La tesi di un collegamento tra aborto e tumore al seno si basa su limitati esperimenti effettuati sui topi, e non è coerente con i dati sugli esseri umani»[1]. L’accusa fa appello.

 

A marzo del 2002 si ha caso simile in North Dakota. Questa volta sarà il giudice Michael McGuire a deliberare in favore di una clinica abortiva citata in giudizio perché le sue brochures informative negano l’esistenza di collegamenti tra aborto e tumore al seno. Secondo McGuire, era ragionevole per la clinica basarsi sui giudizi di enti di ricerca come il NCI e l’American Cancer Society. Anche qui, l’accusa fa appello.

 

In realtà, già nel 1999 il NCI era stato accusato da alcuni scienziati di pubblicare «un’assoluta menzogna». Il fact sheet su internet si basava, infatti, su un solo studio scientifico [Melbye et al., New Engl J Med (1997), 336:81-5] – peraltro molto criticato – laddove era stato lo stesso NCI che aveva parzialmente finanziato la maggior parte dei 13 studi scientifici americani allora esistenti, di cui tutti, tranne uno, avevano affermato l’esistenza di un collegamento tra aborto e tumore al seno. Il caso più eclatante, tra tali studi commissionati dal NCI, era stato quello della dottoressa Janet Daling e di alcuni suoi colleghi del Fred Hutchinson Cancer Research Center. Secondo questo studio, rispetto alle donne che sono state in cinta almeno una volta nella vita, il rischio di tumore al seno per quelle che hanno scelto di avere un aborto è superiore del 50%. Tale rischio si raddoppia per le donne sotto i 18 anni e sopra i 29 e sale fino all’80% per le donne con una storia familiare di tumore al seno. Per le donne sotto i 18 il rischio risulta «il più alto». La Daling è stata attaccata da parecchi abortisti, nonostante la sua posizione personale sia favorevole all’aborto. In un’intervista al Los Angeles Daily News ella ha poi dichiarato che «le sarebbe piaciuto non trovare alcun nesso tra aborto e tumore al seno, ma la nostra ricerca è solidissima [rock solid] e i nostri dati accurati […] Se la politica s’intromette nella scienza farà sul serio arretrare il progresso che facciamo. Io ho tre sorelle con tumore al seno e rimango sconcertata quando la gente imbroglia i dati scientifici per portare avanti i propri interessi di parte».[2]

 

Tra il 2000 e il 2001 la polemica sul fact sheet del NCI si fa sempre più intensa. Nei primi mesi del 2002, le accuse diventano pesantissime: travisamento della ricerca scientifica, promozione di studi erronei, confusione, falso. All’inizio di giugno, 28 membri del Congresso scrivono a Tommy Thompson, segretario per la sanità (Health and Human Services) chiedendogli di intervenire sul fact sheet in quanto «scientificamente inaccurato e fuorviante [misleading to the public]». Dopo neanche due settimane, il NCI modifica il suo foglio informativo cancellando l’affermazione della mancanza di nesso tra aborto e tumore al seno. Anche l’American Cancer Society si fa più cauta; e avverte nel proprio sito internet che l’argomento «è ancora controverso» e che alcuni dottori «ritengono che l’aborto aumenti il rischio di tumore al seno». Per il United Kingdom's Royal College of Obstetricians and Gynecologists, invece, già da tempo non v’era alcun dubbio che il collegamento tra aborto e tumore al seno «non può essere trascurato».

 

Negli Stati Uniti, nonostante molti tentativi di silenziare la cosa da parte dell’industria abortiva e di diversi mass-media, la questione del collegamento tra aborto e tumore al seno è sulla breccia. Il 29 gennaio 2002, il corpo legislativo dell’Ohio ha approvato una risoluzione che istituisce una “task force” per studiare il problema. La task force dovrà relazionare sulla materia non oltre il 30 novembre 2002. A settembre, il National Physicians Center for Family Resources ha prodotto un CD in cui si spiega che una delle conseguenze di lungo periodo dell’aborto è l’aumento di rischio di tumore al seno. Perfino Brita Stream, la neo eletta Miss Oregon, è intervenuta sulla questione nel suo discorso d’incoronazione citando vari studi scientifici e affermando la necessità di dare alle donne un’informazione accurata su questo effetto di lungo termine dell’aborto. Un primo riconoscimento legale si è già avuto, in realtà, l’anno scorso, in Australia. Una donna ha vinto un processo contro il suo medico colpevole di non averla informata, prima di procedere all’aborto, delle attuali ricerche sul collegamento tra aborto e tumore al seno.

 

Dr. Bufill, lei è Medico Oncologo, Clinical Assistant Professor of Medicine nella Indiana University School of Medicine, Direttore (Chair) del GI Malignancy Subcommittee del Northern Indiana Cancer Research Consortium (un centro di ricerca clinica sui tumori finanziato dal NCI), Director of Medical Education del Saint Joseph Regional Medical Center nella città di South Bend (Indiana), e membro dell’International Affairs Committee della American Society of Clinical Oncology. Lei ha pubblicato molti articoli scientifici sulla genetica dei tumori e sul loro trattamento clinico. Di recente, ha anche pubblicato un articolo divulgativo sul nesso tra aborto e tumore al seno nel Philadelphia Inquirer. I suoi lavori sia scientifici che divulgativi sono molto citati. Dr. Bufill, lei è uno dei cinque esperti nazionali che sono stati chiamati a testimoniare nel processo di San Diego contro Planned Parenthood. Per quel processo, lei ha scritto un parere scientifico di circa venti pagine in cui, da una parte, presenta lo stato attuale della ricerca sul collegamento tra aborto e tumore al seno e, dall’altra, commenta dettagliatamente le dichiarazioni dei periti chiamati a testimoniare in difesa di Planned Parenthood.

 

Dr. Bufill, una breve domanda preliminare: qual è la sua esperienza con pazienti affetti da tumore al seno?

 

Visito pazienti affetti da tumori al seno ogni giorno. Costituiscono una parte considerevole della mia attività di oncologo.

 

Può dirmi, in poche parole, qual è il succo della relazione che ha presentato al processo contro Planned Parenthood?

 

Si tratta di un caso di consenso informato. È stato chiesto a Planned Parenthood di dire alle donne che vogliono abortire nelle loro cliniche che la procedura abortiva può creare una predisposizione a contrarre tumore al seno.

 

Va bene; ma mi riferivo al suo parere scientifico sul collegamento tra aborto e tumore al seno. Che cos’ha detto nella sua relazione a questo proposito?

 

Ho spiegato com’è nato il problema e qual è la mia opinione in proposito.

 

Continui.

 

La questione se un aborto non spontaneo possa predisporre le donne a contrarre tumore al seno venne sollevata perché molti grossi studi epidemiologici sul tumore al seno rivelarono ripetutamente l’esistenza di un’associazione positiva. Quegli studi, per lo più, non s’incentravano specificamente sull’aborto. Questo, piuttosto, emerse tra la varietà dei fattori riproduttivi studiati come uno di quelli collegati positivamente col tumore al seno. Tali studi fornirono il primo indizio di un possibile collegamento e fecero esplodere il dibattito. Fino adesso, la discussione scientifica si è incentrata, in maniera abbastanza riduttiva, sulle questioni metodologiche riguardanti quegli studi, a detrimento di un più ampio approccio contestuale al problema. Io ritengo che l’ipotesi del collegamento può essere avanzata sulla base di un’ampia gamma di prospettive scientifiche, non solo quella epidemiologica. In particolare, considerato ciò che oggi sappiamo sul normale sviluppo del seno e sulla trasformazione del seno normale in seno tumorale, è del tutto plausibile concludere che l’aborto non spontaneo può creare l’ambiente, per così dire, favorevole alla trasformazione maligna.

 

Mi scusi, vuole dire che la questione del collegamento non riguarda gli aborti spontanei?

 

Si, non li riguarda.

 

Su questo sarà bene ritornare più avanti. Adesso però mi dica, che cos’è esattamente uno studio epidemiologico e quanti sono gli studi a cui lei fa riferimento?

 

L’epidemiologia cerca di identificare i fattori che provocano le malattie studiando campioni rilevanti della popolazione. Attualmente, circa 28 studi su 37 suggeriscono l’esistenza di un collegamento tra aborto e tumore al seno.

 

Quali sono i più importanti?

 

Il più utile è una meta-analisi – cioè, un’analisi effettuata su dati scientifici già pubblicati – realizzata da Joel Brind e pubblicata nel 1996 nel Journal of Epidemiology and Community Health.[3] Lo studio di Brind dimostra che l’aborto è un fattore di rischio indipendente del tumore al seno. Il United Kingdom's Royal College of Obstetricians and Gynecologists ha riconosciuto pubblicamente che la metodologia e le conclusioni di questo studio sono valide e ben fatte. Altri due studi di alta qualità scientifica sono entrambi di Janet Daling, uno è quello del 1994 cui lei ha già fatto riferimento, l’altro è del 1996.[4]

 

Lei ha detto che la discussione scientifica verte in questo momento soprattutto sulla metodologia di queste ricerche. Può spiegarmi brevemente in che cosa consiste questa metodologia e quali sono i dubbi sollevati?

 

La maggior parte degli studi epidemiologici si basano su questionari; e, com’è ovvio, ci sono molti fattori soggettivi che possono influenzare il modo in cui la gente risponde ai questionari. I dubbi vertono sulla non accuratezza dei dati raccolti.

 

La metodologia usata nelle ricerche epidemiologiche rispecchia gli standard della medicina contemporanea?

 

Certo. Molti fattori cancerogeni che conosciamo – il fumo, ad esempio – sono stati identificati tramite studi di carattere epidemiologico. Ovviamente, la qualità di ogni ricerca dipende dalla qualità e dalla accuratezza dei questionari e della loro interpretazione.

 

E che pensa della qualità degli studi che indicano il collegamento tra aborto e tumore al seno?

 

Che in generale è alta e affidabile.

 

Può farmi un esempio di ricerche di simile qualità che hanno giustificato e richiesto specifiche precauzioni da parte dei medici e degli istituti di cura?

 

A occhio, direi quelle che collegano le carni rosse e le fibre vegetali al tumore al colon. Oramai si accetta che persone la cui dieta contiene più elevate quantità di fibre vegetali e più basse quantità di carni rosse hanno un più basso rischio di contrarre tumore al colon di quelle la cui dieta contiene più basse quantità di fibre vegetali e più alte quantità di carni rosse. Un altro esempio è  il recente collegamento tra il non allattamento dei bambini e il tumore al seno: le donne che allattano per sei mesi o per un tempo più lungo hanno un più basso rischio di tumore al seno di quelle che non allattano o che allattano solo per poco tempo. Questi fattori di rischio sono stati tutti identificati tramite studi epidemiologici.

 

Lei che pensa dei dubbi sollevati sulle ricerche che mostrano un collegamento tra aborto e tumore al seno?

 

Considerata la quantità di prove di cui disponiamo, penso che la resistenza ad accettare il collegamento sia motivata da altri interessi. Naturalmente, l’industria dell’aborto ha molto da perdere nel caso che il collegamento fosse ampiamente riconosciuto.

 

A questo proposito, io mi sono andato a leggere la critica “distruttiva” del Dr. Brind allo studio Melbye et al., condotto in Danimarca, su cui l’NCI aveva originariamente basato il suo fact sheet.[5] Perfino a un non addetto ai lavori, gli errori presenti in quello studio appaiono evidenti e grossolani, ed è gioco-forza concludere che l’NCI ebbe fortissime ragioni “non scientifiche” per selezionare proprio quello tra i tanti studi già esistenti. Cito alcuni brevi esempi. I conclamati pregi di Melbye et al. erano di basarsi su dati d’archivio computerizzati (e quindi estranei alla “soggettività” dei questionari) e di prendere in considerazione un enorme numero di donne: tutte quelle nate in Danimarca tra il 1935 e il 1978. I registri computerizzati sugli aborti, però, partono dal 1973, anno in cui le donne nate nel 1935 avevano ormai 38 anni. La storia abortiva dei soggetti presi in considerazione è dunque gravemente lacunosa. Considerando i registri legali (non computerizzati) sugli aborti effettuati tra il 1940 e il 1973, risulta che Melbye ha fatto un errore di classificazione di più di una donna su sei tra quelle che hanno avuto un aborto. Il suo errore sull’età media delle donne che hanno aborti in Danimarca, poi, è di 7 anni (35 anni invece di 27). Infine, l’inclusione delle donne nate fino al 1978, per uno studio che termina nel 1992, inflaziona i dati di più di 350.000 soggetti che dovrebbero rimanervi estranei (tutte le donne nate tra il 1968 e il 1978), visto che nessuna donna contrae tumore al seno sotto i 25 anni. E questo è solo l’inizio delle critiche di Brind.

 

Ormai è ampiamente riconosciuto che lo studio Melbye et al. non è affidabile.

 

Dr. Bufill, al di là delle statistiche e delle ricerche epidemiologiche, esiste di già una possibile spiegazione scientifica del collegamento?

 

L’età della prima gravidanza è il fattore più importante che determina lo sviluppo successivo del cancro. Questo è universalmente accettato; scientificamente fuori discussione. Una gravidanza in giovane età è fortemente protettiva. Ritardare di mettere al mondo bambini aumenta il rischio di tumore al seno.

 

La prima gravidanza ha un ruolo critico per il normale sviluppo del seno. Il tessuto del seno non è completamente “sviluppato” finché non ha luogo l’allattamento. Se l’allattamento non si verifica mai, come nelle donne che non mettono al mondo bambini, il seno non si può dire completamente sviluppato. (L’allattamento avviene “dopo” il parto, non prima.)

 

Nel corso della gravidanza, le cellule che compongono il seno subiscono una rapida e drammatica crescita e proliferazione. Tale crescita è causata da un ormone detto “estrogeno”. La quantità di estrogeno raggiunge il suo più alto livello fisiologico durante la gravidanza, e ciò serve a preparare il tessuto del seno per l’allattamento. La rapida crescita delle cellule del seno durante la gravidanza significa che la maggioranza di esse si sta attivamente dividendo. Il DNA, in queste cellule, viene replicato a una velocità molto elevata. La produzione di estrogeno durante la gravidanza deriva primariamente dal feto che si sviluppa, non dalla madre. Questo è un processo fisiologico.

 

Rimuovendo bruscamente la fonte di estrogeno, l’aborto causa una “sospensione” del processo di proliferazione delle cellule del seno e può risultare nell’aumento della suscettibilità di tali cellule alla trasformazione cancerogena.

 

Questo effetto può rimanere invisibile per anni. Io ho pazienti che hanno contratto tumore al seno dopo anni dall’aborto.

 

Questo effetto cancerogeno può essere riprodotto in animali da laboratorio provocando in essi una gravidanza e interrompendola in maniera innaturale mediante una procedura abortiva.

 

Questo mi fa tornare in mente una questione che avevamo lasciato in sospeso: che cambia nel caso di aborto spontaneo?

 

L’aborto spontaneo avviene, di solito, in gravidanze anormali; il bambino, cioè, in queste gravidanze, non si sviluppa normalmente. Esistono dati che dimostrano che i feti che crescono in queste gravidanze anormali producono spontaneamente una quantità di estrogeno molto minore di quella che sarebbe considerata fisiologica. Questo è solo uno dei molti parametri che suggeriscono che sarebbe un errore accostare gli aborti spontanei a quelli non spontanei sotto il profilo del rischio di tumore al seno. Un aborto non spontaneo interrompe il processo fisiologico del normale sviluppo del feto. L’aborto spontaneo è il risultato finale di uno sviluppo anormale del feto.

 

Quanti scienziati e medici sono d’accordo con lei su questa spiegazione scientifica del fenomeno?

 

Brind e altri stanno avanzando ipotesi simili. Comunque, guardi, questo è un tentativo di spiegazione scientifica su cui si può discutere e si discuterà molto ma che non intacca i dati delle ricerche epidemiologiche sull’esistenza del collegamento. Questi dati non possono essere trascurati e, come le ho detto, se li si osserva alla luce delle altre prospettive scientifiche di cui disponiamo, emerge un panorama che secondo gli standard della medicina contemporanea è abbastanza chiaro e inequivocabile.

 

Dr. Bufill, che pensa della decisione del giudice Prager?

 

Io non sono un giurista, e non posso dare un’opinione tecnica sulla decisione. Mi sembra che ci siano dati scientifici più che sufficienti a giustificare l’avvertimento alle donne che esiste un incremento del rischio di tumore al seno derivante dalla procedura abortiva. Noi ci troviamo spesso a dover avvertire i pazienti di rischi di complicazioni che possono venire da certe procedure. Un’emorragia può derivare dalla somministrazione di aspirine. Recentemente, un uomo ha vinto una causa contro il suo medico perché non era stato informato che il Tylenol può causare seri danni al fegato se ingerito insieme a un bicchiere di vino. Egli li ingerì insieme e finì col dover subire un trapianto di fegato. Questa è una complicazione estremamente rara; eppure, oggi, ogni pacchetto di Tylenol contiene l’avvertimento che Tylenol e alcool non devono essere presi insieme.

 

Direbbe che questa possibile complicazione del Tylenol è più rara di quella di contrarre tumore al seno in seguito ad aborto?

 

Si, lo direi. Il giudice Prager ha scelto di ignorare dati scientifici rilevanti che collegano l’aborto al tumore al seno.

 

Dunque secondo lei il diritto ad essere informati di questo rischio prima di prestare il proprio consenso ad un’operazione abortiva esiste…

 

Esiste certamente un diritto al “consenso informato”. I pazienti hanno il diritto di sapere in che modo un particolare intervento può influire sulla loro salute, e, sulla base di tale informazione, decidere se vogliono procedere oppure no. Uno dei compiti più importanti del medico è “istruire” i propri pazienti sui rischi e i benefici di ogni intervento medico cui potrebbero essere sottoposti, e incoraggiare la loro partecipazione attiva alle decisioni mediche. Questo è necessario all’esercizio etico della pratica medica.

 

Grazie, Dr. Bufill.

 

 


 


[1]  «The scientific rationale for an association between abortion and breast cancer is based on limited experimental data in rats and is not consistent with human data».

[2]   Daling JR, Malone KE, Voigt LF, White E, Weiss NS., “Risk of breast cancer among young women: relationship to induced abortion”, Journal of the National Cancer Institute, 86(21), pp. 1584-92 (Nov 1994): «RESULTS: Among women who had been pregnant at least once, the risk of breast cancer in those who had experienced an induced abortion was 50% higher than among other women (95% CI = 1.2-1.9). While this increased risk did not vary by the number of induced abortions or by the history of a completed pregnancy, it did vary according to the age at which the abortion occurred and the duration of that pregnancy. Highest risks were observed when the abortion was done at ages younger than 18 years--particularly if it took place after 8 weeks' gestation--or at 30 years of age or older. No increased risk of breast cancer was associated with a spontaneous abortion» (questa citazione è presa dall’abstract dell’articolo disponibile su internet: http://myprofile.cos.com/dalingj90). Si veda anche, Dennis Byrne, “Why the Silence About Abortion and Breast Cancer”, Chicago Tribune (May 21, 2001).

[3] Brind et al., “Induced Abortion as an Independent Risk Factor for Breast Cancer: A Comprehensive Review and Meta-Analysis”, Journal of Epidemiology and Community Health, 50, pp. 481-96 (1996).

[4] Daling JR, Brinton LA, Voigt LF, Weiss NS, Coates RJ, Malone KE, Schoenberg JB, Gammon M., “Risk of breast cancer among white women following induced abortion”, American Journal of Epidemiology, 144(4), pp. 373-80 (Aug 1996).

[5] Questa critica è disponibile su internet al sito del Dr. Brind: http://www.abortioncancer.com.

 
 
     
     
 
 
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