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Editoriale
La
morte dell'uomo
A differenza di quanto
pensano in molti – soprattutto quelli la cui passione per
il cinema oscura ormai quasi del tutto l’interesse e la
capacità di lettura – nel mondo fantastico creato da J. R.
R. Tolkien, gli uomini sono superiori in dignità agli
elfi. Di primo acchito, ciò potrebbe apparire singolare
anche a chi abbia letto sul serio (e non solo visto sul
grande schermo) il capolavoro di Tolkien – Il Signore
degli Anelli – e che si è abituato ad ammirare elfi
dotati di qualità e poteri straordinari, che dominano le
forze della natura e vivono, avvolti da un’aurea bellezza,
per centinaia di anni; potenzialmente per sempre, «a meno
che siano uccisi o si struggano di dolore».
Quest’ultimo caso, di
morte per dolore (morale), è immagine sublime di una
situazione reale della vita: vale a dire, della
disperazione e assoluta mancanza di significato che
purtroppo, a volte, è possibile sperimentare. Un profondo
dolore che causi sconforto e scoraggiamento può fare
apparire la vita inutile, non più degna di essere vissuta,
e può portare alcuni ad odiarla e a desiderare che si
spenga al più presto. Nel mondo fantastico di Tolkien, è
questo stesso dolore a far si che lo spirito sfiduciato
dell’elfo si distacchi infine dal corpo e se ne vada in
esilio nelle Aule di Mandos. Questo dolore degli
elfi è come una richiesta di aiuto e di significato che
non riceve risposta, e che si autodistrugge abbandonando
la vita.
A differenza degli elfi,
e a meno di altre patologie, gli uomini invecchiano e
muoiono in maniera fisiologica in un arco di vita che,
agli occhi di chi vive per sempre, non dura che un attimo.
Gli elfi osservano gli uomini con compassione e curiosità,
perfino con disprezzo, perché sono come fuochi
d’artificio, che raggiungono anche grandi altezze,
compiendo gesta mirabili e degne dei più alti onori, ma
solo per brillare pochi istanti e scomparire, poco dopo,
nelle ceneri della morte. La vita umana, agli elfi, appare
incomprensibile e strana: uno scherzo della natura. Un
breve soffio vitale il cui destino è la morte: la mancanza
di senso.
Eppure, ci sono passi
cruciali della cosmogonia di Tolkien in cui la morte è
celebrata come il dono più grande fatto da Dio (Iluvatar)
agli uomini.
Dio volle «che i cuori degli uomini indagassero di là dal
mondo, e in questo mai trovassero pace».
Essi sono «ospiti», «stranieri», la loro dimora non sta
qui, e più si attaccano alle cose e ai piaceri di quaggiù
più Dio ne abbrevia l’arco vitale per cercare di
riportarne le menti e i cuori al proprio disegno.
Gli elfi invece appartengono alla terra; essi «sono legati
a questo mondo per mai lasciarlo finché esso duri, essendo
che la sua vita è la loro»;
e anche se muoiono, «col tempo possono tornare». Gli
uomini, invece, «muoiono per davvero e abbandonano il
mondo»; e dove vanno nessuno lo sa, neppure i più grandi
tra gli angeli;
e il dono della morte, «col passare del tempo, perfino le
Potenze invidieranno».
In un certo senso, gli elfi sono così potenti, e in
simbiosi con le cascate, gli alberi e gli elementi, perché
rappresentano la Terra, e sulla Terra si esaurisce il loro
destino; gli uomini, al contrario, sono ad essa estranei,
non connaturali, vi si trovano solo di passaggio,
e, per questo, la capiscono e la dominano meno.
Tolkien era un genio
cattolico. Ma l’idea che l’uomo abbia in sé qualcosa di
sacro e di divino, e che la vita su questa terra – con le
sue gioie, i suoi dolori e le sue sofferenze – abbia
significato e sia figura e possibilità di un’esistenza più
alta di cui la morte è insieme porta, prova finale e
mistero… quest’idea è già ben presente nel pensiero pagano
dell’antica Grecia. Per Aristotele, il fine ultimo delle
cose è partecipare all’eterno e al divino.
Per il suo maestro Platone, la vita su questa terra è
purificazione che prepara alla vera vita dell’anima
dopo la morte. Platone arriva a descrivere l’intero sforzo
umano di penetrare e di conoscere la verità – la filosofia
– come un progressivo e ascetico distaccarsi dalle cose di
quaggiù e una partecipazione alla vita che verrà. «Tutti
quelli che si occupano correttamente di filosofia»,
pertanto, «di niente altro si prendono cura se non di
morire e di essere morti».
Anche chi non si trovi molto a suo agio col forte dualismo
platonico di anima e corpo, non potrà non avvertire il
fascino di quest’intuizione sulla dignità e sacralità
dell’essere umano. E non potrà non notare com’essa si
accompagni a una visione del significato della vita
presente e dei suoi dolori in cui non è mai lecito
provocare la morte, anche quando questa sia altrimenti
desiderabile. Il suicidio, per Platone, è un atto
intrinsecamente cattivo.
È solo di individui e
società ormai irretiti dal nichilismo e dal materialismo
pensare che cagionare la morte di sé o di qualcun altro
possa essere un atto di carità. Quando si ritiene che la
vita e le sofferenze umane non abbiano alcun senso,
uccidere chi è disperato e sconfortato può apparire come
l’unica soluzione ragionevole. Ma in questo modo si
suggella l’inutilità e la vacuità della vita e di chi
l’abbandona; e invece di dare significato, conforto e
coraggio, li si toglie definitivamente. Anche se (Dio non
voglia) non ci fosse niente dopo la morte, bisognerebbe
agire come se ci fosse e come se tutte le situazioni della
vita godessero sempre di pieno significato. Soprattutto
chi è responsabile di altri deve ostinatamente continuare
a credere nell’uomo fino alla fine, e non può permettersi
di lanciare messaggi pubblici di vanità e nichilismo, o la
sua stessa azione in difesa e promozione dei valori umani
perderebbe di efficacia e di credibilità.
Il dubbio sul suicidio e
sull’eutanasia è il dubbio sul senso stesso dell’essere
umano e della sua dignità. Per questo motivo, una comunità
politica sana non può ammetterlo, come non può ammettere
il dubbio che, in fondo, qualunque crimine e patimento non
abbiano importanza poiché gli uomini sono solo contingenti
grumi di atomi che stanno per un po’ insieme e poi si
separano.
La rassegna stampa di
questo numero di Questioni di Bioetica evidenzia le
ambiguità del riferimento all’eutanasia, nel dibattito di
questi giorni, con rispetto all’accanimento terapeutico e
al testamento biologico, che sono cose diverse. Ma
ambiguità o no, un dibattito è purtroppo stato acceso da
persone insicure e poco responsabili, e speriamo che si
chiuda presto in favore dell’uomo e del suo valore.
Fulvio Di Blasi
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