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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 1 - Settembre 2006 
     
 

La Sindrome di Immuno Deficienza Acquisita (SIDA):
aspetti epidemiologici, socio-sanitari, giuridici ed etici
[1]

 di Paco Lo Torto

 

 

Il SIDA o AIDS (acronimo della sindrome nella terminologia anglosassone) è una grave condizione patologica, la cui prognosi è ancora mortale in una percentuale estremamente elevata di casi [2] , e che è legata ad un agente virale che si trasmette attraverso diverse vie [3] .

 

Il meccanismo di azione del virus si può riassumere schematicamente nell’aggressione da parte di quest’ultimo nei confronti dei linfociti T, che sono le cellule deputate proprio ai processi di difesa immunitaria dell’organismo verso gli agenti infettivi. La distruzione di queste cellule e/o la loro alterata funzione rende il soggetto estremamente sensibile a qualunque tipo di infezioni e, di conseguenza, facilmente vittima di un gran numero di malattie. Ciò spiega la terminologia utilizzata per indicare questa patologia che più che una vera e propria malattia è piuttosto un insieme di sintomi, vale a dire una sindrome.

 

I dati statistici relativi alla diffusione dell’AIDS [4] consentono ormai di parlare di vera e propria pandemia su scala mondiale (anche se il continente più colpito è decisamente quello africano dal quale sembra essere partita l’infezione stessa). Il fatto che la diffusione del virus avvenga prevalentemente per via sessuale rende ragione della rapida espansione della malattia e anche degli specifici problemi etici posti soprattutto da alcune strategie di prevenzione del contagio, prevenzione che, in attesa di una terapia risolutiva, rappresenta senz’altro la “cura” più efficace [5] .

 

Tra le principali vittime della malattia ci sono certamente i bambini, non solo come  conseguenza del possibile contagio materno-fetale (oggi più facilmente controllabile grazie ai farmaci), ma anche per la perdita di entrambi i genitori a causa della malattia [6] .

 

Dal punto di vista bioetico la problematica è nel suo insieme abbastanza complessa comprendendo questioni di natura giuridica o deontologica e altre con una valenza più decisamente etica.

 

Per quanto riguarda gli aspetti giuridico-deontologici, l’esigenza di fondo è sostanzialmente quella di riuscire a conciliare la tutela dei diritti personali del malato con quella della salute dei sani e della società in generale. In questa prospettiva, un primo problema è posto dalla necessità degli screenings diagnostici per rilevare l’eventuale sieropositività dei soggetti infetti, in quanto tale necessità si contrappone al rispetto (assoluto o relativo) del principio di autonomia del soggetto che deve dare il proprio consenso per l’effettuazione del test [7] .

 

Un secondo problema è quello relativo alla eventuale violazione del segreto professionale. Si possono dare, infatti, situazioni nelle quali la tutela del diritto del malato alla riservatezza entra in conflitto con la contemporanea necessità di tutelare anche il diritto alla salute di coloro che, a causa del mantenimento del segreto professionale stesso, potrebbero correre seri pericoli di vita [8] .

 

Un ulteriore aspetto della problematica è quello relativo alla protezione dovuta all’individuo sieropositivo o già in fase di malattia conclamata. E’ indubbio (e la legge stessa lo sancisce [9] ) che coloro che si vengono a trovare in tali condizioni non possono, né devono essere oggetto di discriminazioni di alcun tipo. Inoltre, esiste per gli operatori sanitari un obbligo, sia deontologico che etico, di curare sempre anche i soggetti infetti [10] .

 

Sullo stesso piano del dovere sociale di aiutare i soggetti malati si colloca naturalmente anche quello di programmare e finanziare opportunamente la ricerca e la sperimentazione di nuovi farmaci e vaccini.

 

La questione etica più rilevante è quella legata alle strategie di prevenzione nei confronti del contagio.

 

In considerazione del fatto che alcune delle vie di trasmissione sono facilmente controllabili con adeguate misure igienico–sanitarie (trasfusioni, trapianti, inseminazione artificiale), la diffusione di questa malattia resta legata soprattutto ad alcuni “comportamenti a rischio”. Teoricamente, quindi, è verso la rimozione di tali comportamenti che si dovrebbe orientare un’efficace prevenzione.

 

Come è noto, i comportamenti maggiormente a rischio nella trasmissione dell’HIV sono essenzialmente due: l’utilizzazione della stessa siringa da parte di più drogati e la promiscuità sessuale. Il primo fattore di rischio potrebbe, almeno teoricamente, essere rimosso più facilmente. In realtà, in considerazione del fatto che tale comportamento ha il carattere di un vero e proprio “rituale” da parte del drogato, non è facile ottenere una sua completa eliminazione. Tuttavia, tale fronte di rischio beneficia, o potrebbe beneficiare, anche della spinta dovuta alla lotta contro la droga.

 

Ma ancor più problematica appare la rimozione del secondo fattore di rischio, anche perché su questo fronte, invece, l’esposizione risulta incentivata dalle mode e dai comportamenti spesso disinvoltamente ed irresponsabilmente propagandati. Il rapporto omo o eterosessuale con un partner occasionale sieropositivo (condizione di cui lo stesso può essere anche inconsapevole) comporta un elevato rischio di contagio, rischio che ovviamente aumenta col ripetersi dei contatti sessuali. La rimozione totale di questo rischio è teoricamente possibile solo attraverso due vie: o l’utilizzo di un metodo di barriera che, durante il rapporto sessuale, impedisca materialmente la trasmissione del virus, o la scelta di una relazione sessuale stabile ed esclusiva con un partner sicuramente non infettato (scelta che presuppone la disponibilità a vivere una vita sessuale ordinata).

 

Il metodo di barriera a cui attualmente viene attribuita sicura efficacia è il condom o preservativo. Pertanto, tutta la campagna di educazione sanitaria anti–AIDS si riconduce prevalentemente a una intensa azione di propaganda orientata al suo utilizzo.

 

Aldilà di ogni considerazione di carattere etico ed antropologico sull’autenticità del valore educativo di tale campagna, si pone innanzi tutto un preciso interrogativo: fino a che punto il preservativo è veramente efficace nel prevenire la trasmissione dell’HIV?

 

Dai risultati forniti da diversi studi scientifici [11] si ricava la conclusione che l’efficacia protettiva del preservativo nei confronti del virus HIV è all’incirca la stessa che esso offre verso le altre malattie a trasmissione sessuale (il tasso di infezione, cioè, è ridotto di un fattore variabile tra 2 e 10).

 

Di conseguenza, non è scientificamente corretto considerare il preservativo un mezzo di prevenzione contro l’AIDS assolutamente sicuro, dato che la sua efficacia si limita solo a una diminuzione, seppure significativa, delle siero conversioni e pertanto non può essere considerata sufficiente nei confronti di una malattia che ha un tasso di mortalità del 100%, tanto più che tale metodo viene proposto come il “solo” o il “più importante” strumento per la prevenzione. Al momento, l’unico “metodo” che dia una garanzia assoluta nei confronti del rischio di infezione è costituito dall’astensione dai rapporti sessuali “a rischio”.

 

Sulla base di quanto detto si possono puntualizzare due brevi riflessioni etiche.

 

La prima è relativa alla qualità dell'informazione sull’AIDS fornita abitualmente, soprattutto dai media. Diffondere una sicurezza falsa e scientificamente poco fondata sulla completa efficacia preventiva del preservativo costituisce una mancanza di veracità e comporta un’ingiustizia nei confronti delle tante potenziali vittime di questo inganno. Inoltre, la presunta sicurezza così indotta porta inevitabilmente le persone a moltiplicare i comportamenti a rischio, annullando anche la reale, seppur parziale, riduzione del rischio di contagio comunque offerta dall'uso del profilattico.

 

Il secondo aspetto etico da sottolineare è quello relativo alla concezione di fondo che sottende tutta l'azione informativa anti–AIDS. Si tratta di una visione della sessualità estremamente riduttiva che mira soprattutto a favorire la cosiddetta “libertà sessuale”, che, forse più correttamente, andrebbe definita “libertinaggio sessuale”. L'obiettivo che sembra essere perseguito è quello di un “sesso libero e sicuro, ovunque e con chiunque”.

 

La dignità personale dell'uomo, invece,  dovrebbe esigere la realizzazione dell'atto sessuale sempre nel rispetto della sua specifica natura, dove, il concetto di natura dovrebbe essere messo al riparo dai grossolani fraintendimenti a cui le derive culturali, soprattutto di matrice esistenzialista, degli ultimi secoli lo hanno condotto.

 

Pur non potendo esaurire in questa occasione il tema, va tuttavia detto che il concetto di natura umana ha subito vari tipi di attacchi e di interpretazioni deformanti, ormai stratificatesi con gli anni, che hanno teso a ridurlo ad una dimensione meramente fisico-biologica. In realtà, per natura umana dovrebbe intendersi un principio globalizzante che abbraccia tutte le dimensioni essenziali dell’essere umano e che ne sancisce costitutivamente il modo di essere dal punto di vista dell’agire.

 

Pur non caricando la natura umana di un ruolo fondativo nella definizione delle norme morali, tuttavia non le si può disconoscere un imprescindibile carattere orientativo nella indicazione di conformità dei comportamenti e delle azioni all’autentico bene della persona, nonché nell’autenticazione dell’effettivo esercizio delle libertà personale.

 

Contrariamente alla pretesa contraddizione, che si vorrebbe stridente, tra determinismo naturale e dinamismo della libertà, infatti, natura umana e libertà non sono conflittuali, al punto che la prima rappresenta la condizione di possibilità che consente alla seconda di esistere e svilupparsi. Parimenti, la dignità del tutto specifica della persona umana, che nella libertà trova la sua più evidente esplicitazione, non può essere disancorata dalla natura, perché in quella trova il suo fondamento.

 

Alla luce di queste pur sintetiche considerazioni, visti i dinamismi propri della sessualità umana ed il suo intrinseco orientamento strutturale a porre le condizioni per il concepimento di un nuovo essere umano, l’apertura alla vita è da considerarsi una dimensione imprescindibile perché l’atto sessuale non si perverta in azione strumentale e strumentalizzante della persona umana verso un’altra persona umana.

 

La dignità della persona, secondo l’irrinunciabile orientamento che la natura le conferisce, esige dunque che la sessualità si realizzi sempre in un contesto di disponibilità ad accogliere una nuova vita.

 

Pertanto, appare difficilmente condivisibile non solo moralmente, ma anche antropologicamente l’atteggiamento di chi tende se non proprio a favorire, quantomeno a giustificare gli atti omosessuali (che nella loro essenza appaiono oggettivamente “contro natura”), la promiscuità sessuale (che conduce inevitabilmente alla banalizzazione della sessualità umana), la prostituzione (che rappresenta una vera “parodia” dell’autentico amore umano). Queste scelte, oltre a svilire l’uomo e la donna ferendone la dignità personale, non potranno non essere causa di una sempre maggiore diffusione del contagio da HIV. Prescindendo comunque da qualsivoglia preconcetto ideologico o da una visione religiosa della vita, dovrebbe essere evidente a chiunque che una riscoperta dei valori autentici della sessualità umana e la scelta di condurre una vita sessuale più ordinata e onesta costituiscono il più efficace “vaccino “ nei confronti dell’AIDS [12] .

 

La posizione della Chiesa Cattolica rispetto ai complessi problemi posti dalla crescente diffusione dell'AIDS è sintetizzata nelle seguenti parole di Giovanni Paolo II:

«Condivido la preoccupazione della comunità internazionale per il quadro drammatico delle conseguenze dell’epidemia sulla salute, le condizioni di vita, le prospettive, lo stato e la dignità delle donne e delle ragazze in molte regioni del mondo. In effetti l’impatto dell’HIV/AIDS sulle donne aggrava l’ineguaglianza ed impedisce il progresso verso l’universalità dei diritti. Inoltre più l’infezione progredisce fra le donne, che sono il pilastro delle famiglie e delle comunità, più aumenta il rischio di crollo sociale.

 «La Chiesa da sempre difende con particolare vigore la donna e la sua grandissima dignità e lotta per combattere le discriminazioni che, ancora oggi, permangono in gran parte della nostra società chiedendo maggiori sforzi per eliminare le disparità contro le donne nei settori quali l’educazione, la tutela della salute e il lavoro».

 

Ancora più significativa è la seguente affermazione: «il dramma dell’AIDS si presenta come una “patologia dello spirito” e, per combatterla in modo responsabile, occorre accrescere la prevenzione mediante l’educazione al rispetto del valore sacro della vita e la formazione alla pratica corretta della sessualità» [13] .

 

E’ rilevante il dato che, attualmente, il 26,7% dei centri di cura per l’AIDS nel mondo sono cattolici.

 

I principi operativi ai quali essi fanno riferimento sono quelli indicati da Giovanni Paolo II già nel 2001:

¨         incrementare l’educazione scolare e la catechesi ai valori della vita e del sesso;

¨         eliminare tutte le forme di discriminazione nei confronti dei malati di HIV/AIDS;

¨         informare adeguatamente su questa pandemia;

¨         invitare i Governi a creare delle condizioni adeguate per combattere questo flagello;

¨         favorire una maggiore partecipazione della società civile nella lotta all’AIDS;

¨         chiedere ai paesi industrializzati che, evitando ogni forma di colonialismo, aiutino, in questa campagna contro l’AIDS, i paesi che ne hanno bisogno;

¨         diminuire al massimo il prezzo dei medicinali antiretrovirali necessari per curare i malati di HIV/AIDS;

¨         intensificare le campagne di informazione per evitare la trasmissione materno-infantile del virus;

¨         offrire una maggiore attenzione alla cura dei bambini sieropositivi e alla protezione degli orfani a causa dell’AIDS;

¨         rivolgere una maggiore attenzione ai gruppi sociali più vulnerabili.

 

Giovanni Paolo II ha anche istituito, il 12 settembre 2004, la Fondazione “Il Buon Samaritano”, affidata al Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, e confermata dal Papa Benedetto XVI, per portare aiuto economico, grazie alle donazioni che si ricevono, ai malati più bisognosi del mondo, in particolare le vittime dell’HIV/AIDS.

 

 

Paco Lo Torto


 


[1] Ringrazio Angelo Cafaro per il prezioso aiuto che mi ha dato nella stesura di questo articolo.

[2] Una percentuale variabile dei sieropositivi (di coloro, cioè, che hanno subito l’infezione da parte del virus) manifesta la malattia entro un lasso di tempo più o meno ampio. Attualmente si riesce anche a bloccare la sieropositività a tempo indeterminato. Per coloro che passano allo stato di malattia conclamata la percentuale di decessi −in Italia− è di poco superiore al 20%. Nella maggioranza dei casi si assiste ad una cronicizzazione della malattia.

[3] Le modalità di trasmissione ben provate sono le seguenti: il contatto sessuale intimo (sia etero che omosessuale), le trasfusioni di sangue e di emoderivati, la via placentare, l’inseminazione artificiale, il trapianto di organi o tessuti.

[4] Alla fine del 2005 si registravano i seguenti dati generali relativi alla diffusione nel mondo del virus e della malattia: più di 4,9 milioni di nuovi casi di contagio nell'ultimo anno, più di 40,3 milioni di persone contagiate (di cui 2,3 di età inferiore ai 15 anni) presenti complessivamente nel mondo; più di 3 milioni i morti nel 2005, quasi 40 milioni le vittime dalla scoperta della malattia (1980).

[5] L’obiettivo primario in questo ambito è costituito dall’individuazione di un vaccino antivirale. Attualmente si dispone di quasi una ventina di farmaci utilizzabili nella cura della malattia.

[6] Secondo i dati del Rapporto 2004 dell’UNICEF, UNAIDS e USAID “Children on the brink”, tra il 2001 e il 2003, il numero complessivo di bambini rimasti orfani a causa dell’AIDS è cresciuto da 11,5 milioni a 15 milioni, in gran parte in Africa. Si stima che entro il 2010, nell’Africa sub-Sahariana ci saranno 18,4 milioni di orfani a causa dell’HIV/AIDS. Soltanto nel 2003 sono diventati orfani a causa di questa epidemia 5,2 milioni di bambini.

[7] In Italia, è in vigore una legge, la 135/90, che stabilisce una serie di interventi per la prevenzione e la lotta all’AIDS. Sulla questione specifica la legge prevede comunque la necessità di ottenere un consenso valido e pertanto libero e informato.

[8] In tali circostanze —fermo restando che l’obiettivo ideale da perseguire è quello di convincere il malato a rivelare spontaneamente la propria condizione a chi ha il diritto di sapere— vi è un sostanziale consenso sulla possibilità di violare legittimamente il segreto professionale.

[9] Cfr legge 135/90, art.5, comma 5.

[10] Altrettanto importante è il diritto degli operatori sanitari ad essere adeguatamente tutelati nei confronti del rischio, sempre presente, di infettarsi nel prestare assistenza medica ai malati di AIDS. A loro compete, però, il dovere di porre in atto tutte le adeguate e ben note misure di prevenzione.

[11] Una ricerca sufficientemente attendibile venne fatta vari anni fa da Susan C.Weller (A Meta–analysis of Condom Effectiveness in reducing sexually transmitted HIV, in «Soc. Sci. Med.», vol. 36 (1993), n.12, pagg.1635–1644) riuscendo a dimostrare che «l'uso del preservativo diminuisce del 69% la probabilità di contrarre l'infezione da HIV». L'Autrice ne deduceva, quindi, che «il preservativo diminuisce, ma non esclude del tutto, la possibilità di trasmissione dell'HIV».

Ad analoga conclusione giunse lo studio fatto dall’Associazione Aids–Informazione Svizzera di Zurigo (cfr “Medicina e Morale”, n°5/94, pagg. 903–925) nel quale si leggeva che «le ricerche più affidabili sotto l’aspetto metodologico mostrano che l’indice di protezione del profilattico da un’infezione HIV dovrebbe aggirarsi intorno a 5. Ciò dimostra che i profilattici riducono il rischio di un contagio dell’HIV. In presenza, però, di una malattia sessualmente trasmissibile con una letalità talmente elevata, il grado di protezione del profilattico deve ritenersi insufficiente».

Degli studi presentati alla V Conferenza Internazionale sull’AIDS, a Montreal (Canada), hanno dimostrato, in condizioni fisiologiche, la permeabilità dei preservativi a delle particelle di dimensioni molto più grandi del virus HIV.

Altri studi, realizzati al microscopio elettronico, hanno evidenziato la presenza di canali che attraversano tutto la parete di lattice dei preservativi con un diametro di circa 5 micron, vale a dire 50 volte più grandi del virus HIV.

Nell'edizione di marzo 2004 della rivista "Studies in Family Planning" è stata pubblicata un'ampia rassegna della letteratura scientifica sull'argomento.

 Nel loro articolo "Condom Promotion for AIDS Prevention in the Developing World: Is It Working?", Norman Hearst, professore presso la University of California, e Sanny Chen, epidemiologa del San Francisco Department of Health, osservano che «misurare l'efficacia del preservativo è quasi impossibile». Tuttavia, afferma l'articolo, una cifra normalmente accettata per indicarne l'efficacia è il 90%.

Nello stesso articolo si rileva come «in molti Paesi dell'Africa sub-sahariana, i tassi di trasmissione dell'HIV si sono mantenuti alti nonostante l'ingente ricorso all'uso del preservativi». Gli autori ammettono che «non è ancora emerso un chiaro esempio di un Paese che abbia ottenuto un regresso di un'epidemia generalizzata, principalmente attraverso la promozione del preservativo».

 Il noto successo dell'Uganda nella riduzione degli alti tassi di incidenza dell'Aids è dovuto ad un programma finalizzato a ritardare l'attività sessuale tra gli adolescenti, alla promozione dell'astinenza, ad incoraggiare la fedeltà verso un singolo partner e all'uso del preservativo. La promozione del preservativo era l'ultimo elemento in ordine di importanza, si osserva nel suddetto articolo.

 Negli Stati Uniti vi sono più di 15 milioni di casi l'anno di malattie sessualmente trasmesse, secondo il Dr. Joe McIlhaney Jr., presidente del Medical Institute for Sexual Health, una organizzazione senza fini di lucro con sede ad Austin, Texas. «Sulla base della scienza e unicamente della scienza, vi è solo una conclusione da trarre: il preservativo non rende il sesso sufficientemente sicuro», ha affermato McIlhaney. «Mentre il preservativo può ridurre una parte del rischio, spesso lascia gli individui vulnerabili al contagio con le malattie sessualmente trasmesse».

[12] La positiva esperienza dell’Uganda conferma −in modo statisticamente significativo− la validità di questa affermazione.

[13] Dal Messaggio per la  Giornata Mondiale dell’AIDS, 1  dicembre 2004.

 
 
     
     
 
 
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