La Sindrome di Immuno
Deficienza Acquisita (SIDA):
aspetti epidemiologici, socio-sanitari, giuridici ed
etici
di
Paco Lo Torto
Il
SIDA o AIDS (acronimo della sindrome nella terminologia
anglosassone) è una grave condizione patologica, la
cui prognosi è ancora mortale in una percentuale estremamente
elevata di casi, e che è legata ad un agente virale
che si trasmette attraverso diverse vie.
Il
meccanismo di azione del virus si può
riassumere schematicamente nell’aggressione da parte
di quest’ultimo nei confronti dei linfociti T, che sono
le cellule deputate proprio ai processi di difesa immunitaria
dell’organismo verso gli agenti infettivi. La distruzione
di queste cellule e/o la loro alterata funzione rende
il soggetto estremamente sensibile a qualunque tipo
di infezioni e, di conseguenza, facilmente vittima di
un gran numero di malattie. Ciò spiega la terminologia
utilizzata per indicare questa patologia che più che
una vera e propria malattia è piuttosto un insieme di
sintomi, vale a dire una sindrome.
I
dati statistici relativi alla diffusione dell’AIDS consentono ormai di parlare di vera
e propria pandemia su scala mondiale (anche se il continente
più colpito è decisamente quello africano dal quale
sembra essere partita l’infezione stessa). Il fatto
che la diffusione del virus avvenga prevalentemente
per via sessuale rende ragione della rapida espansione
della malattia e anche degli specifici problemi etici
posti soprattutto da alcune strategie di prevenzione
del contagio, prevenzione che, in attesa di una terapia
risolutiva, rappresenta senz’altro la “cura” più efficace.
Tra
le principali vittime della malattia ci sono certamente
i bambini, non solo come conseguenza del possibile
contagio materno-fetale (oggi più facilmente controllabile
grazie ai farmaci), ma anche per la perdita di entrambi
i genitori a causa della malattia.
Dal
punto di vista bioetico la problematica è nel
suo insieme abbastanza complessa comprendendo questioni
di natura giuridica o deontologica e altre con una valenza
più decisamente etica.
Per
quanto riguarda gli aspetti giuridico-deontologici,
l’esigenza di fondo è sostanzialmente quella di riuscire
a conciliare la tutela dei diritti personali del malato
con quella della salute dei sani e della società in
generale. In questa prospettiva, un primo problema è
posto dalla necessità degli screenings diagnostici
per rilevare l’eventuale sieropositività dei soggetti
infetti, in quanto tale necessità si contrappone al
rispetto (assoluto o relativo) del principio di autonomia
del soggetto che deve dare il proprio consenso
per l’effettuazione del test.
Un
secondo problema è quello relativo alla eventuale violazione
del segreto professionale. Si possono dare, infatti,
situazioni nelle quali la tutela del diritto del malato
alla riservatezza entra in conflitto con la contemporanea
necessità di tutelare anche il diritto alla salute di
coloro che, a causa del mantenimento del segreto professionale
stesso, potrebbero correre seri pericoli di vita.
Un
ulteriore aspetto della problematica è quello relativo
alla protezione dovuta all’individuo sieropositivo
o già in fase di malattia conclamata. E’ indubbio (e
la legge stessa lo sancisce) che coloro che si vengono a trovare
in tali condizioni non possono, né devono essere oggetto
di discriminazioni di alcun tipo. Inoltre, esiste per
gli operatori sanitari un obbligo, sia deontologico
che etico, di curare sempre anche i soggetti infetti.
Sullo
stesso piano del dovere sociale di aiutare i soggetti
malati si colloca naturalmente anche quello di programmare
e finanziare opportunamente la ricerca e la sperimentazione
di nuovi farmaci e vaccini.
La
questione etica più rilevante è quella legata
alle strategie di prevenzione nei confronti del contagio.
In
considerazione del fatto che alcune delle vie di trasmissione
sono facilmente controllabili con adeguate misure igienico–sanitarie
(trasfusioni, trapianti, inseminazione artificiale),
la diffusione di questa malattia resta legata soprattutto
ad alcuni “comportamenti a rischio”. Teoricamente, quindi,
è verso la rimozione di tali comportamenti che si dovrebbe
orientare un’efficace prevenzione.
Come
è noto, i comportamenti maggiormente a rischio
nella trasmissione dell’HIV sono essenzialmente due:
l’utilizzazione della stessa siringa da parte di più
drogati e la promiscuità sessuale. Il primo fattore
di rischio potrebbe, almeno teoricamente, essere rimosso
più facilmente. In realtà, in considerazione del fatto
che tale comportamento ha il carattere di un vero e
proprio “rituale” da parte del drogato, non è facile
ottenere una sua completa eliminazione. Tuttavia, tale
fronte di rischio beneficia, o potrebbe beneficiare,
anche della spinta dovuta alla lotta contro la droga.
Ma
ancor più problematica appare la rimozione del secondo
fattore di rischio, anche perché su questo fronte, invece,
l’esposizione risulta incentivata dalle mode e dai comportamenti
spesso disinvoltamente ed irresponsabilmente propagandati.
Il rapporto omo o eterosessuale con un partner
occasionale sieropositivo (condizione di cui lo stesso
può essere anche inconsapevole) comporta un elevato
rischio di contagio, rischio che ovviamente aumenta
col ripetersi dei contatti sessuali. La rimozione totale
di questo rischio è teoricamente possibile solo attraverso
due vie: o l’utilizzo di un metodo di barriera che,
durante il rapporto sessuale, impedisca materialmente
la trasmissione del virus, o la scelta di una relazione
sessuale stabile ed esclusiva con un partner
sicuramente non infettato (scelta che presuppone la
disponibilità a vivere una vita sessuale ordinata).
Il
metodo di barriera a cui attualmente viene attribuita
sicura efficacia è il condom o preservativo.
Pertanto, tutta la campagna di educazione sanitaria
anti–AIDS si riconduce prevalentemente a una
intensa azione di propaganda orientata al suo utilizzo.
Aldilà
di ogni considerazione di carattere etico ed antropologico
sull’autenticità del valore educativo di tale campagna,
si pone innanzi tutto un preciso interrogativo: fino
a che punto il preservativo è veramente efficace nel
prevenire la trasmissione dell’HIV?
Dai
risultati forniti da diversi studi scientifici si ricava la conclusione che l’efficacia
protettiva del preservativo nei confronti del virus
HIV è all’incirca la stessa che esso offre verso le
altre malattie a trasmissione sessuale (il tasso di
infezione, cioè, è ridotto di un fattore variabile tra
2 e 10).
Di
conseguenza, non è scientificamente corretto considerare
il preservativo un mezzo di prevenzione contro l’AIDS
assolutamente sicuro, dato che la sua efficacia
si limita solo a una diminuzione, seppure significativa,
delle siero conversioni e pertanto non può essere considerata
sufficiente nei confronti di una malattia che ha un
tasso di mortalità del 100%, tanto più che tale metodo
viene proposto come il “solo” o il “più importante”
strumento per la prevenzione. Al momento, l’unico “metodo”
che dia una garanzia assoluta nei confronti del
rischio di infezione è costituito dall’astensione dai
rapporti sessuali “a rischio”.
Sulla
base di quanto detto si possono puntualizzare due
brevi riflessioni etiche.
La
prima è relativa alla qualità dell'informazione sull’AIDS
fornita abitualmente, soprattutto dai media.
Diffondere una sicurezza falsa e scientificamente poco
fondata sulla completa efficacia preventiva del preservativo
costituisce una mancanza di veracità e comporta un’ingiustizia
nei confronti delle tante potenziali vittime di questo
inganno. Inoltre, la presunta sicurezza così indotta
porta inevitabilmente le persone a moltiplicare i comportamenti
a rischio, annullando anche la reale, seppur parziale,
riduzione del rischio di contagio comunque offerta dall'uso
del profilattico.
Il
secondo aspetto etico da sottolineare è quello relativo
alla concezione di fondo che sottende tutta l'azione
informativa anti–AIDS. Si tratta di una visione
della sessualità estremamente riduttiva che mira soprattutto
a favorire la cosiddetta “libertà sessuale”, che, forse
più correttamente, andrebbe definita “libertinaggio
sessuale”. L'obiettivo che sembra essere perseguito
è quello di un “sesso libero e sicuro, ovunque e con
chiunque”.
La
dignità personale dell'uomo, invece, dovrebbe
esigere la realizzazione dell'atto sessuale sempre nel
rispetto della sua specifica natura, dove, il concetto
di natura dovrebbe essere messo al riparo dai grossolani
fraintendimenti a cui le derive culturali, soprattutto
di matrice esistenzialista, degli ultimi secoli lo hanno
condotto.
Pur
non potendo esaurire in questa occasione il tema, va
tuttavia detto che il concetto di natura umana ha subito
vari tipi di attacchi e di interpretazioni deformanti,
ormai stratificatesi con gli anni, che hanno teso a
ridurlo ad una dimensione meramente fisico-biologica.
In realtà, per natura umana dovrebbe intendersi un principio
globalizzante che abbraccia tutte le dimensioni essenziali
dell’essere umano e che ne sancisce costitutivamente
il modo di essere dal punto di vista dell’agire.
Pur
non caricando la natura umana di un ruolo fondativo
nella definizione delle norme morali, tuttavia non le
si può disconoscere un imprescindibile carattere orientativo
nella indicazione di conformità dei comportamenti e
delle azioni all’autentico bene della persona, nonché
nell’autenticazione dell’effettivo esercizio delle libertà
personale.
Contrariamente alla pretesa contraddizione, che si vorrebbe
stridente, tra determinismo naturale e dinamismo della
libertà, infatti, natura umana e libertà non sono conflittuali,
al punto che la prima rappresenta la condizione di possibilità
che consente alla seconda di esistere e svilupparsi.
Parimenti, la dignità del tutto specifica della persona
umana, che nella libertà trova la sua più evidente esplicitazione,
non può essere disancorata dalla natura, perché in quella
trova il suo fondamento.
Alla
luce di queste pur sintetiche considerazioni, visti
i dinamismi propri della sessualità umana ed il suo
intrinseco orientamento strutturale a porre le condizioni
per il concepimento di un nuovo essere umano, l’apertura
alla vita è da considerarsi una dimensione imprescindibile
perché l’atto sessuale non si perverta in azione strumentale
e strumentalizzante della persona umana verso un’altra
persona umana.
La
dignità della persona, secondo l’irrinunciabile orientamento
che la natura le conferisce, esige dunque che la sessualità
si realizzi sempre in un contesto di disponibilità ad
accogliere una nuova vita.
Pertanto, appare difficilmente condivisibile non solo
moralmente, ma anche antropologicamente l’atteggiamento
di chi tende se non proprio a favorire, quantomeno a
giustificare gli atti omosessuali (che nella loro essenza
appaiono oggettivamente “contro natura”), la
promiscuità sessuale (che conduce inevitabilmente
alla banalizzazione della sessualità umana), la prostituzione
(che rappresenta una vera “parodia” dell’autentico
amore umano). Queste scelte, oltre a svilire l’uomo
e la donna ferendone la dignità personale, non potranno
non essere causa di una sempre maggiore diffusione del
contagio da HIV. Prescindendo comunque da qualsivoglia
preconcetto ideologico o da una visione religiosa della
vita, dovrebbe essere evidente a chiunque che una riscoperta
dei valori autentici della sessualità umana e la scelta
di condurre una vita sessuale più ordinata e onesta
costituiscono il più efficace “vaccino “ nei confronti
dell’AIDS.
La
posizione della Chiesa Cattolica rispetto ai
complessi problemi posti dalla crescente diffusione
dell'AIDS è sintetizzata nelle seguenti parole di Giovanni
Paolo II:
«Condivido la preoccupazione della comunità internazionale
per il quadro drammatico delle conseguenze dell’epidemia
sulla salute, le condizioni di vita, le prospettive,
lo stato e la dignità delle donne e delle ragazze in
molte regioni del mondo. In effetti l’impatto dell’HIV/AIDS
sulle donne aggrava l’ineguaglianza ed impedisce il
progresso verso l’universalità dei diritti. Inoltre
più l’infezione progredisce fra le donne, che sono il
pilastro delle famiglie e delle comunità, più aumenta
il rischio di crollo sociale.
«La Chiesa da sempre difende con particolare vigore
la donna e la sua grandissima dignità e lotta per combattere
le discriminazioni che, ancora oggi, permangono in gran
parte della nostra società chiedendo maggiori sforzi
per eliminare le disparità contro le donne nei settori
quali l’educazione, la tutela della salute e il lavoro».
Ancora più significativa è la seguente affermazione:
«il dramma dell’AIDS si presenta come una “patologia
dello spirito” e, per combatterla in modo responsabile,
occorre accrescere la prevenzione mediante l’educazione
al rispetto del valore sacro della vita e la formazione
alla pratica corretta della sessualità».
E’ rilevante il dato che, attualmente, il 26,7% dei
centri di cura per l’AIDS nel mondo sono cattolici.
I
principi operativi ai quali essi fanno riferimento sono
quelli indicati da Giovanni Paolo II già nel 2001:
¨
incrementare l’educazione scolare e la catechesi ai
valori della vita e del sesso;
¨
eliminare tutte le forme di discriminazione nei confronti
dei malati di HIV/AIDS;
¨
informare adeguatamente su questa pandemia;
¨
invitare i Governi a creare delle condizioni adeguate
per combattere questo flagello;
¨
favorire una maggiore partecipazione della società civile
nella lotta all’AIDS;
¨
chiedere ai paesi industrializzati che, evitando ogni
forma di colonialismo, aiutino, in questa campagna contro
l’AIDS, i paesi che ne hanno bisogno;
¨
diminuire al massimo il prezzo dei medicinali antiretrovirali
necessari per curare i malati di HIV/AIDS;
¨
intensificare le campagne di informazione per evitare
la trasmissione materno-infantile del virus;
¨
offrire una maggiore attenzione alla cura dei bambini
sieropositivi e alla protezione degli orfani a causa
dell’AIDS;
¨
rivolgere una maggiore attenzione ai gruppi sociali
più vulnerabili.
Giovanni Paolo II ha anche istituito, il 12 settembre
2004, la Fondazione “Il Buon Samaritano”, affidata al
Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute,
e confermata dal Papa Benedetto XVI, per portare aiuto
economico, grazie alle donazioni che si ricevono, ai
malati più bisognosi del mondo, in particolare le vittime
dell’HIV/AIDS.
Paco Lo Torto
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