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Da Parmenide alla bioetica. A proposito
delle tesi di Emanuele Severino sullo statuto
dell’embrione umano
di Luciano Sesta
Il volume Sull’embrione,
di Emanuele Severino,
raccoglie articoli pubblicati tra il dicembre 2004 e il
maggio 2005 in occasione del dibattito sulla legge
40/2004, che, come è noto, regolamenta in Italia le
pratiche di fecondazione artificiale. Il testo è
estremamente complesso e richiede, per poter essere
adeguatamente compreso – specialmente per chi non si
occupa di filosofia – qualche informazione sulla più
generale prospettiva dell’Autore. Per tale ragione
premettiamo una breve sintesi del pensiero di Severino per
poi affrontare, in modo analitico, le pagine che l’Autore
dedica a uno dei temi più scottanti della bioetica, quello
dello statuto dell’embrione umano.
1. Sulla tesi
fondamentale del pensiero di Severino
Emanuele Severino
(Brescia, 1929) insegna filosofia teoretica all’Università
di Venezia, ed è stato allievo di Gustavo Bontadini, uno
dei più notevoli esponenti della filosofia neoscolastica.
Il pensiero di Severino, il cui tema centrale è quello
metafisico classico del rapporto tra essere e divenire, ha
suscitato, fin dagli anni sessanta, un ampio dibattito in
Italia.
La tesi di Severino
è che il peccato dell’Occidente (e il cristianesimo è
compreso in questa critica) consiste nell’essersi
allontanato dal precetto di Parmenide secondo il quale
solo l’essere è e può essere pensato, laddove il non
essere non è e non può in alcun modo essere pensato. Il
pensiero greco, infatti, invece di considerare soltanto
l’essere ha introdotto, dopo Parmenide, il divenire,
inteso come la dimensione in cui le cose provengono dal
non essere e vi fanno ritorno, inteso, dunque, come un
inconcepibile passaggio dall’essere al non essere e
viceversa. Così, introducendo il “non essere” come una
realtà, l’umanità occidentale si è trovata in preda a un
sentimento di angoscia di fronte al nulla, cominciando a
sperimentare una nostalgia dell’essere. Da qui il
maldestro tentativo di riparare il danno: l’Occidente
costruisce degli immutabili (Dio, la Verità, i Valori, la
Legge naturale), per difendersi dall’angoscia provocata
dal non essere che esso stesso ha incautamente introdotto.
In tal modo, però, il rimedio è peggiore del male: gli
immutabili soffocano la vita in modo più insopportabile
della stessa minaccia del non essere evocata dal divenire.
Per questo l’uomo, stanco di sacrificare il divenire in
nome della Verità, si rivolge alla scienza e alla tecnica,
ovvero al dominio della realtà, per meglio sfruttarla
prima che essa tramonti nel non essere. E infatti, se la
realtà diviene, allora può essere manipolata a piacimento
a vantaggio dell’uomo. Sia la costruzione di un Essere che
sta al di sopra del divenire, sia la scelta di rinnegarlo
affidandosi alla scienza, provengono dunque dal medesimo
errore di aver ammesso il divenire come luogo del
passaggio dall’essere al non essere.
L’alternativa a
tutto ciò è, secondo Severino, un ritorno a Parmenide.
Bisogna mettere in questione la fede nel divenire, ovvero
la persuasione, che Severino ritiene “folle”, che ciò
che è provenga dal non essere (nascendo) e vi faccia
ritorno (morendo o distruggendosi). Ammettere il divenire
è infatti ammettere l’assurdità che vi sia un tempo in cui
l’essere è identico al nulla.
In base a queste premesse,
Severino respinge la stessa idea di “possibilità”. La
possibilità di qualcosa è impossibile, perché la
possibilità di qualcosa indica il non essere (ancora) di
qualcosa. Se qualcosa è possibile non è, ma se non è non
può in alcun modo essere, ovvero è impossibile. Così,
affermare la possibilità significherebbe affermare “la
possibilità che un essente non sia, e poiché è necessario
che ogni essente sia (eterno) è impossibile che esista
qualche essente possibile. La Follia è appunto affermare
che un essente qualsiasi non sia.
La Non-Follia è affermare
l’eternità di ogni essente” (104). Severino, dunque, non
ammette in alcun modo né la possibilità (interpretandola
tutt’al più come l’essere nascosto di ciò che è e non come
un non essere ancora),
né, a fortiori, il passaggio dalla possibilità alla
realtà, all’interno del quale egli legge anche il
passaggio dalla potenza all’atto, inteso come un passaggio
dal non essere all’essere. Quella che a tutti noi sembra
un’evidenza, e cioè la trasformazione, il divenire, “il
diventar altro” è, agli occhi di Severino, una
contraddizione. E infatti, nota ancora Severino,
“diventando altro, qualcosa è altro. Che qualcosa sia
altro da ciò che esso è non è forse la forma estrema della
Follia?” (113).
2. L’impianto
argomentativo del testo Sull’embrione
Con il testo
Sull’embrione Severino si affaccia nel campo della
bioetica perché vi vede un’occasione per ripetere le tesi
centrali del suo pensiero.
In particolare, egli discute il concetto aristotelico di
“potenza” (qui inteso come una variante del concetto di
“possibilità”), per evidenziare come ogni argomento che in
base a esso voglia dimostrare che l’embrione è già un
essere umano sia destinato a fallire.
Ciò che Severino intende
dimostrare è “1) Che al di là delle intenzioni di
chi accetta il concetto aristotelico di ‘potenza’, tale
concetto costringe a negare che l’embrione sia un
essere umano, sia pure potenziale; 2) che tale
costrizione sussiste perché il concetto stesso di
‘potenza’ è contraddittorio, assurdo” (51-52). Il discorso
di Severino dunque ammette, senza concedere, la
legittimità del concetto di “potenza”, al solo scopo di
mostrare che tale concetto costringe coloro che sostengono
che l’embrione è un essere umano ad affermare che, in
realtà, l’embrione non è un essere umano (42).
Ora, stranamente, benché
nell’Avvertenza avesse dichiarato di voler
discutere la tesi che l’embrione è un essere umano “in
atto” (9), Severino comincia il suo discorso attribuendo
ai suoi interlocutori la tesi secondo cui l’embrione
sarebbe sì, “già uomo”, ma solo “in potenza” (44). Qui
Severino, come molti hanno notato,
ha frainteso, poiché per tutti coloro che sostengono che
l’embrione è persona l’embrione non è un essere umano in
potenza ma un essere umano in atto. Tale
osservazione è stata rivolta da più parti a Severino, che
sembra averla recepita (cfr. Avvertenza, pp. 53-54
e 99-104). Ciò nonostante, alla precisazione che
l’embrione non è “in potenza” uomo ma “uomo in atto” che,
semmai, in potenza è uomo adulto,
Severino risponde spiegando che l’espressione da lui
utilizzata “esser-già-uomo in potenza” aveva proprio
questo significato, e cioè che “l’embrione è in potenza un
adulto” (53). Facendo credere che tale affermazione fosse
già contenuta nel suo precedente discorso, Severino la
presenta come qualcosa che i critici “non hanno capito”
leggendo il suo articolo (52) e non, invece, come una
correzione dovuta alle obiezioni nel frattempo ricevute.
Che non sia così, tuttavia, è dimostrato dal fatto che
mentre nella prima parte del testo (cap. 5) Severino
attribuisce ai suoi interlocutori l’affermazione che
“l’embrione è in potenza un esser-già-uomo”, ovvero
qualcosa che non è ancora uomo e che, proprio per questo,
può diventarlo come può non diventarlo
(primo argomento), nella seconda parte del testo egli
parla dell’embrione come “un esser-già-uomo in
potenza”, ovvero qualcosa che è già uomo e che, proprio
per questo, può diventare adulto come può morire, e cioè
diventare non-uomo (secondo argomento). In tal modo, la
tesi, prima esposta, che l’embrione è in potenza uomo
viene ora sostituita dalla tesi secondo cui l’embrione,
essendo già uomo, è in potenza uomo adulto: “l’essere in
potenza uomo non significa ‘non essere ancora un uomo’
[...] ma significa esser già uomo” che “deve ancora
svilupparsi, cioè rendere attuali le proprie potenzialità”
(53-54). Benché dunque i singoli articoli che compongono
il testo siano presentati come una sequenza unitaria di
riflessioni, tra i primi articoli e gli ultimi si assiste
a una vistosa correzione dell’impianto generale del
discorso, dovuta, evidentemente, alle critiche intanto
ricevute.
Fatta questa premessa,
possiamo vedere come Severino sviluppi il suo discorso
concentrando i primi due argomenti nella prima parte del
testo, per poi utilizzare un terzo argomento nella seconda
parte. Nella prima parte (cap. 5,6,7,8,), come abbiamo
visto, si considera dapprima l’argomento secondo cui
l’embrione è uomo in potenza che “ha la capacità di
diventare un essere umano”, dimostrando che tale capacità,
essendo contraddittoria, costringe ad ammettere che
l’embrione non è un essere umano. Successivamente, si
considera l’embrione come già uomo in atto che ha la
potenza “di diventare un essere umano adulto”, e si
dimostra, anche qui, che questa potenzialità di diventare
uomo adulto da parte dell’uomo-embrione, essendo
contraddittoria, costringe ad ammettere che l’embrione non
è un essere umano in atto e che l’aborto non è un
omicidio. Nella seconda parte del testo (cap.
10,12,13,15,16), con un nuovo argomento, si chiede a
coloro che sostengono che l’embrione è uomo in atto dove
si trovi la potenza, o la capacità, di diventare quell’uomo
in atto che è l’embrione, “che a sua volta ha la potenza
di diventare un essere umano adulto”, e si dimostra che
gli “amici dell’embrione”
non sono in grado di indicare dove mai questa potenza
possa esistere (103).
3. Primo argomento:
se la potenzialità dell’embrione di diventare “uomo in
atto” sia contraddittoria e costringa a negare che
l’embrione sia un essere umano
Analizziamo ora il primo
argomento di Severino, e cioè quello che attribuisce
(erroneamente) agli “amici dell’embrione” la convinzione
che “l’embrione è in potenza un esser-già-uomo”, ovvero
qualcosa che non è ancora uomo e che, proprio per questo,
può diventarlo come può non diventarlo.
Severino introduce il vero
e proprio tema del suo testo scrivendo: “Che l’embrione
prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna sia
un essere umano in potenza – ossia qualcosa che in
condizioni normali ha la capacità di diventare un essere
umano – è un principio accettato sia dal coloro che
sostengono, sia da coloro che negano che l’embrione
sia già un essere umano” (43-44).
Qui, come si può notare, c’è già una prima ambiguità. Come
possono “coloro che sostengono che l’embrione sia già un
essere umano” accettare il principio che l’embrione sia
“qualcosa che ha la capacità di diventare un essere
umano”? Coloro che partono dal principio che l’embrione
abbia la capacità di diventare un essere umano sono coloro
che ritengono che l’embrione non sia ancora un essere
umano. Chi ritiene che l’embrione sia già un essere umano,
infatti, non può credere che debba ancora diventarlo.
Delle due l’una: o qui Severino ha preso un abbaglio
logico o, peggio, dobbiamo sospettare che si tratti di una
mossa sleale, finalizzata a rinfacciare ai sostenitori
dell’umanità dell’embrione una contraddizione di cui essi
non sono in alcun modo responsabili. Il passo
immediatamente successivo, purtroppo, dimostra che tale
sospetto non è infondato. Severino, infatti, prosegue
precisando che i due opposti schieramenti divergerebbero
“in relazione a un ulteriore carattere della ‘potenza’.
Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione
sia un esser-già-uomo, ma, appunto, un esserlo già
‘in potenza’. Gli altri intendono che l’embrione, sebbene
sia ‘in potenza’ un essere umano, sia tuttavia un
non-essere-ancora-uomo. In questo secondo caso la sua
soppressione non è omicidio; nel primo caso sì” (44).
Qui Severino (oltre ad
attribuire ai suoi avversari, lo ricordiamo, una premessa
che essi non hanno mai accettato, e cioè che l’embrione
sia “uomo in potenza” e non “uomo in atto”), dissolve la
differenza tra potenza e atto, indicata dall’uso degli
avverbi “non ancora” e “già”. La mossa di Severino è qui
strategica. Prima, infatti, si attribuisce a coloro che
ritengono che l’embrione sia un essere umano in atto la
tesi secondo cui l’embrione, invece, sarebbe un essere
umano in potenza; poi, per nascondere e forse anche per
riscattare questa deformazione si aggiunge che sì,
l’embrione per costoro sarebbe “già-uomo”, ma in potenza.
Gli avverbi temporali “già” e “non ancora”, che nel
linguaggio comune e in quello di Aristotele esprimono la
distinzione tra atto e potenza, vengono entrambi usati da
Severino per indicare la potenza. Per gli “amici
dell’embrione”, così, l’embrione sarebbe un “esser-già-uomo”,
sebbene in potenza (44). Ma dire che l’embrione è “già
uomo in potenza”, significa dire che esso è “uomo in atto
in potenza”, ovvero, già uomo e non ancora
uomo. Eliminando la differenza tra potenza e atto Severino
costruisce ad hoc una contraddizione che poi
rinfaccia a coloro che, invece, fanno proprio di questa
differenza la base del loro argomento.
Severino, come si può
vedere, introduce surrettiziamente elementi del proprio
pensiero nella prospettiva dei suoi interlocutori,
rischiando di viziare alla radice ogni autentico
confronto. È nella prospettiva parmenidea che, infatti,
sia la potenza passiva, intesa come capacità di diventare
altro, sia la potenza attiva, intesa come capacità di far
diventare altro, sono impossibili, perché implicano che
qualcosa che non è (ancora), per esempio il vedere in chi
tiene gli occhi chiusi, sia (già). Tutto ciò che è in
potenza esprimerebbe qualcosa che è e, al tempo stesso,
che non è. Se l’espressione “in potenza” significa “non
essere ancora”, allora l’espressione “essere in potenza”
significa “essere già non essere ancora”: una follia.
Dopo aver ricostruito
(fraintendendola) la prospettiva degli “amici
dell’embrione”, Severino si accinge a mostrarne
l’incoerenza, partendo dall’affermazione che “se
l’embrione può diventare un uomo in atto,
allora, proprio perché ‘lo può’ (non lo diventa
ineluttabilmente), proprio per questo, può anche
diventare non-uomo, cioè qualcosa che uomo non è”
(45-46). Ciò significa che
proprio perché è ‘in potenza’ uomo, l’embrione è in
potenza anche non-uomo. [...] È già uomo e, anche, è già
non-uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti
necessariamente. Proprio per questo, l’embrione non è un
esser uomo. Infatti – anche per coloro che pensano alla
luce dell’idea di ‘potenza’ – l’uomo autentico è uomo, e
non è insieme non-uomo. Se un colore è insieme
un rosso e un non-rosso, tale (mostruoso) colore non è il
colore rosso. Analogamente, se l’embrione è, in potenza,
quell’esser già uomo che è necessariamente unito
all’esser già non-uomo, ne viene che l’embrione non è
già un uomo – non è cioè quell’esser autenticamente
uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo (46).
Sarebbe, questo, secondo
Severino, un argomento decisivo e inedito, che
costringerebbe tutti noi a negare l’umanità dell’embrione
umano e ad affermare “che la sua soppressione a fini
terapeutici o eugenetici non è omicidio” (47).
Come si può notare,
l’argomento di Severino si fonda sulla presunta
contraddittorietà del concetto di potenza. Tale
contraddittorietà sarebbe adombrata, secondo Severino,
nell’affermazione aristotelica secondo cui “ciò che è in
potenza è in potenza gli opposti” (54). Ora, poiché gli
“amici dell’embrione” si ispirano ad Aristotele e non a
Parmenide, si rende necessario un chiarimento. Come è
noto, Aristotele tentò di superare Parmenide attraverso
una concezione polivoca e non univoca dell’essere. Per
Aristotele l’essere si dice in molti modi, e il divenire
non implica un assurdo passaggio dal non essere all’essere
ma dall’essere in un certo modo all’essere in un
altro modo. I due principali modi di essere, che
spiegano il divenire, sono, per Aristotele, l’atto e la
potenza. Noi diciamo “potenza” la capacità, da parte di
qualcosa che esiste in atto, di realizzare qualcos’altro:
per es. la capacità di vedere da parte dell’uomo. Diciamo
“atto” la realizzazione di questa capacità, in questo caso
il vedere stesso. Come si può notare – e questo secondo
Aristotele vale in generale – il passaggio dal vedere in
potenza al vedere in atto non è un impossibile passaggio
dal nulla all’essere ma un passaggio da un modo di essere
a un altro, reso possibile da qualcosa che esiste già in
atto, in tal caso l’uomo. Una potenza che non è potenza di
realizzare qualcosa da parte di qualcos’altro che già è in
atto non esiste. La potenza di ciò che non è ancora in
atto (il vedere), può dunque essere predicata solo di ciò
che è già in atto (l’uomo). Da ciò derivano due importanti
conseguenze: 1) poiché la potenza è sempre e solo potenza
di qualcosa che è già in atto, la potenza, in quanto
tale, non esiste; 2) ciò che è in atto (per es.
l’uomo) è sempre anche in potenza, ma sotto un aspetto
diverso (il vedere, il camminare, il morire ecc.)
da ciò per cui è in atto (l’essere uomo).
Quando
Aristotele parla della potenza come unità degli opposti,
non parla di ogni tipo di potenza, ma della potenza
razionale, per esempio quella della medicina, che
può produrre tanto la salute quanto la malattia. Dalla
potenza razionale si distingue la “potenza irrazionale”,
che è invece potenza di un solo contrario (per esempio
quella del fuoco, che può riscaldare ma non raffreddare).
Ora, benché comprenda entrambi i contrari, la potenza
razionale non può realizzare
(cioè tradurre in atto) ambedue i contrari nello stesso
tempo (cfr. Meth. IX, 1048a 20-25), dal momento che
“è possibile che la medesima cosa sia, ad un tempo, i
contrari in potenza, ma non in atto” (Meth. IV 4
1009a 36). Solo in quest’ultimo caso, in effetti,
scatterebbe la contraddizione, poiché il principio di non
contraddizione recita che è impossibile che la stessa cosa
appartenga e non appartenga alla medesima cosa nello
stesso tempo e sotto il medesimo aspetto (cfr. Meth.
IV 1005b 19-20).
Così, un muro rosso è in
potenza blu e non-blu, perché possiamo dipingerlo di blu o
di un altro colore.
Qui non c’è contraddizione perché il principio di non
contraddizione recita che una cosa non può essere in
atto A e non-A laddove può essere in potenza A e non-A
(cfr. Meth. IV 4 1009a 36). Se l’embrione è già
uomo in atto, come Severino ammette che sia per i suoi
interlocutori (almeno nella seconda parte del testo),
allora può essere in potenza proprietà accidentali opposte
(adulto e non adulto) ma non “uomo” (che è sostanza e non
accidente) e “non-uomo”. Ricordiamo, infatti, che in virtù
del principio di non contraddizione, ciò che è in atto è
sempre anche in potenza, ma sotto un aspetto diverso da
ciò per cui è in atto. Potenza e atto non possono stare
insieme sotto lo stesso aspetto e nello stesso momento:
qualcosa non può essere già uomo e non ancora uomo:
significherebbe dire che è uomo e nello stesso tempo e
sotto il medesimo aspetto non-uomo. Può essere uomo in
potenza solo ciò che in atto non è ancora uomo e può
essere non-uomo in potenza solo ciò che in atto è già
uomo. Atto e potenza (già e non ancora) non possono stare
insieme nello stesso tempo rispetto all’essere uomo poiché
il passaggio dall’uno all’altro serve per spiegare il
divenire e, dunque, lo stare in tempi successivi di
determinazioni diverse. Quando si riferiscono allo stesso
aspetto atto e potenza sono, per definizione, in tempi
diversi: l’essere uomo in atto, insomma, esclude solo
l’essere uomo in potenza ma non la potenzialità, poiché
l’uomo diviene.
Da ciò consegue che
qualcosa può essere uomo in potenza solo se è non-uomo in
atto (il gamete, che può diventare uomo) o uomo in
atto se è non-uomo in potenza (l’embrione umano e
l’adulto, che possono morire). Se l’embrione è
già uomo non può essere in potenza uomo: potrà essere
in potenza un feto, un neonato, un adulto, un musicista
ecc. Se infatti è già uomo, deve essere in potenza
qualcosa di diverso dall’essere già uomo, poiché
essere già uomo significa essere uomo in atto,
ovvero far cessare l’uomo in potenza. Ci si domanderà
allora: cosa è in potenza ciò che è già un uomo allo
stadio embrionale? Naturalmente il pieno
sviluppo delle sue caratteristiche umane specifiche, che
lo faranno diventare un essere umano adulto.
Se l’embrione è un essere umano
in atto la potenza non riguarda, dunque, la sua
umanità, ma lo sviluppo delle sue caratteristiche umane,
che lo faranno diventare non un uomo (questo lo è già) ma
un uomo adulto.
Insistendo invece sul
carattere contraddittorio della potenza, dopo essersi
appellato al concetto di potenza “razionale” come “unità
dei contrari”, Severino aggiunge: “‘Ogni’ potenza: non
solo ciò che ha in potenza proprietà accidentali opposte,
ma anche ciò che, non esistendo ancora, può diventare come
non diventare una sostanza” (54). Ma, anche qui, per
Aristotele ciò che non esiste ancora e che può “diventare”
una sostanza non può mai essere in potenza, poiché la
potenza è sempre potenza di qualcosa che già è in atto,
che dunque già esiste (l’atto è l’esistere della cosa). La
“potenza” non è un’astratta condizione di possibilità
della sostanza, ma un aspetto concreto della sostanza
stessa che esprime la capacità: o di realizzare una
qualche proprietà specifica della sostanza (nel caso
dell’embrione umano la ragione, la volontà, il linguaggio
ecc.) o di causare una trasformazione (nel caso
dell’adulto la generazione) o di subire mutamento ad opera
di altro (potenza passiva). Le sostanze esistenti, dunque,
sono sempre in atto, pur essendo in potenza per i
molteplici aspetti che le caratterizzano.
Quando Severino scrive che
in potenza è “ciò che, non esistendo ancora, può diventare
come non diventare una sostanza” (54), rovescia
clamorosamente non solo l’asserto aristotelico secondo cui
l’atto precede sempre la potenza (Meth. IX 1049b
10-13) ma anche quello secondo cui la potenza degli
opposti non riguarda mai l’esistenza o la non esistenza
della sostanza (Meth. 1046b 10-25), visto che per
Aristotele la sostanza, a differenza degli accidenti, non
ammette contrario: non esiste il contrario di uomo o di
Socrate, mentre esiste il contrario di bianco. Insomma
“uomo”, “cane” e “marmo” non essendo proprietà che
qualcosa può avere o non avere, ma sostanze, non
possono trovarsi in potenza insieme al loro contrario in
qualcosa che, in atto, non è nessuno dei due contrari (il
gamete, per esempio, non è in potenza uomo e non-uomo ma
non-uomo in atto e uomo in potenza). Lo stesso termine
“embrione” non indica una sostanza ma lo stadio di
sviluppo di un determinato vivente la cui sostanza è
indicata dall’essenza specifica del vivente in questione,
in questo caso l’uomo. Il soggetto sostanziale dello
sviluppo embrionale pertanto, non è a rigor di termini
genericamente un embrione, ma un essere umano
allo stadio embrionale.
Considerando invece
l’embrione come una sorta di soggetto neutro e
indeterminato contenente in potenza i contrari di uomo e
di non-uomo, Severino finisce per confondere il concetto
di potenza, che esprime una disposizione a realizzare
qualcosa di determinato (che dunque esclude il suo
opposto), con quello di possibilità, che esprime invece,
in modo indeterminato, tutto ciò che non è impossibile (e
che dunque abbraccia i contrari). Ciò che è decisivo, qui,
è che la potenzialità, a differenza della possibilità,
esprime qualcosa che è già presente. Vale la pena,
per esprimere con chiarezza tale differenza, riportare una
pagina di Giuseppe Savagnone, uno degli studiosi
intervenuti nel dibattito suscitato dal testo di Severino:
La possibilità (di cui quello di probabilità è una
variante) indica solo una non contraddittorietà logica: è
possibile tutto ciò che non è assurdo. Di un alfabeta si
può dire che è pur sempre possibile che diventi professore
di Università. Una potenzialità si ha, invece, quando una
determinata situazione è già realmente presente, anche se
in modo ancora latente […]. L’esperienza ci suggerisce
innumerevoli varianti di una simile situazione, in cui una
proprietà o un’attitudine è già ben reale – e non solo
possibile – anche se, per così dire, quiescente. Così, non
è insensato chiedere a una persona, mentre sta in
silenzio, se “parla l’inglese”. Con tale domanda, infatti,
non ci si riferisce, evidentemente, all’esercizio attuale
di questa sua eventuale abilità, ma al fatto che la
possieda. E se così fosse, il suo caso sarebbe del tutto
diverso da quelo di chi, tacendo, non conosca però quella
lingua, pur avendo in astratto la possibilità, in quanto
dotato di corde vocali, di parlarla. […].
Analogamente, c’è una grande differenza tra un nastro o una
cassetta vuoti, che hanno la posssibilità di contenere
qualunque musica o film, e un nastro che contenga la sesta
sinfonia di Beethoven eseguita da Von Karajan […]. In
entrambi i casi nessuna nota risuona […]. Ma, nel primo,
[…] [il] nastro non […] [conterrebbe] nulla; nel secondo,
invece, una determinata musica sarebbe già presente, con
tutte le caratteristiche dell’esecuzione […]. A riprova di
ciò, chi, per ipotesi, distruggesse un nastro […]
contenente l’ultimo esemplare di quella esecuzione […],
avrebbe comesso un atto ben più grave della semplice
distruzione di un nastro […] che [avrebbe] “potuto”
contenere quella esecuzione […]. Così, chi uccide un
embrione […] non distrugge solo una possibilità di essere
umano, ma un individuo con le sue caratteristiche uniche e
irripetibili, anche se non in esercizio.
Se le cose stanno così,
nell’embrione umano a essere aperta a esiti opposti non è
l’umanità ma il suo sviluppo, nel senso che quest’ultimo
può proseguire oppure interrompersi. A essere possibile,
dunque, non è l’esser uomo dell’embrione ma il suo
effettivo sviluppo. In ogni caso, anche ammesso e non
concesso che l’embrione, in base alle premesse
erroneamente attribuite agli “amici dell’embrione”, sia in
potenza uomo e anche non-uomo, da ciò non deriva con
necessità logica, come crede Severino, che l’embrione
non è uomo perché “l’uomo autentico è uomo, e non è
insieme non-uomo” (46). Anche solo in base a queste
premesse, infatti, si potrebbe concludere il contrario:
poiché l’embrione è in potenza non-uomo e anche uomo,
allora l’embrione è uomo, perché “l’uomo autentico
è uomo, e non è insieme non-uomo”. In effetti, se
davvero qualcosa si presentasse nello stesso tempo come
“uomo” e “non-uomo”, potremmo concludere solo che essa non
può essere l’uno e l’altro insieme, ma non quale
dei due opposti debba essere.
Al termine di questa
analisi critica del primo argomento sostenuto da Severino
possiamo dunque concludere: a) che la premessa secondo cui
l’embrione è un uomo in potenza conduce a una
contraddizione solo se si legge il rapporto tra atto e
potenza in senso (parmenideo) opposto a quello
(aristotelico) in cui lo leggono coloro ai quali tale
premessa è (erroneamente) attribuita; b) che la
contraddizione espressa dal fatto che l’embrione sarebbe
al tempo stesso uomo e non-uomo non costringe a negare
l’umanità dell’embrione, potendo essere utilizzata, come
abbiamo visto, anche per dimostrarla.
4. Secondo argomento. Se la potenzialità dell’embrione di
diventare “adulto” sia contraddittoria e costringa a
negare che l’embrione sia un essere umano
Con il cap. 6
Severino introduce il secondo argomento, secondo il quale,
come abbiamo visto,
l’embrione è “un
esser-già-uomo in potenza”, ovvero qualcosa che è già
uomo ma che, proprio per questo, può diventare adulto come
può morire, e cioè diventare non-uomo.
Severino, dopo aver registrato le obiezioni, deve ora
riconoscere che per gli “amici dell’embrione”
l’embrione non è un essere umano in potenza ma un essere
umano in atto con delle potenzialità di sviluppo.
Tuttavia, nota Severino, questo
sviluppo, che conduce l’embrione a nascere e a diventare
uomo adulto, “non è garantito, non è
inevitabile, non ha un carattere deterministico,
ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative”
(45).
Si inserirebbe, a questo
punto, l’argomento decisivo “accennato” nei precedenti
capitoli: “L’uomo che è in potenza adulto è già un uomo,
ma è anche già un non-uomo, perché, secondo Aristotele,
invece di svilupparsi potrebbe morire”. Dire che
l’embrione può anche diventare non-uomo non significa
dunque, tiene a precisare Severino, dire che esso possa
diventare un gatto o una locomotiva (55), ma solo che esso
può morire. “Non-uomo”, insomma, significa il morto, il
“non più” uomo (49). Così, mentre nel primo argomento
Severino aveva identificato la potenza aristotelica con la
possibilità logica (che ciò che non è uomo lo
possa diventare), in questo secondo argomento
identifica la potenza con la probabilità statistica
(che ciò che è uomo possa non arrivare a diventare
adulto) (pp. 48-50).
Da ciò consegue che non
solo l’embrione che è in potenza uomo (primo argomento),
ma anche l’embrione che è già in atto uomo (secondo
argomento) è, nello stesso tempo, non-uomo, rappresentando
“un che di contraddittorio, di impossibile, di assurdo”
(54-55). Questo secondo argomento, dunque, è una variante
del primo. Solo che qui, a differenza del primo argomento,
risulta più evidente la sua assurdità. E infatti, una
volta che, con Severino, si ritiene un controsenso il
passaggio dall’essere al non essere, dalla vita alla
morte, un essere mortale, un essere che cioè può
morire, è qualcosa di impossibile.
In realtà, dire che
l’embrione è in potenza non-uomo adulto perché può morire
e uomo adulto perché può invece svilupparsi, non equivale
a una contraddizione per lo stesso motivo già evidenziato
a proposito del primo argomento sostenuto da Severino. Gli
opposti, infatti, non riguardano, qui, la sostanza
“uomo” ma delle proprietà accidentali quali il
morire e lo svilupparsi.
Anche per questo secondo
argomento, inoltre, possiamo fare una considerazione
analoga a quella fatta alla fine dell’analisi del primo
argomento. Dal fatto che l’embrione possa morire, sia cioè
in potenza non-uomo, non si deduce, come crede Severino,
che l’embrione non è uomo perché “l’uomo autentico
è uomo, e non è insieme non-uomo”. È vero piuttosto
il contrario: se l’embrione è in potenza non-uomo perché
può morire, e il non-uomo è il non-più-uomo, cioè l’uomo
morto, allora l’embrione è già uomo in atto, perché solo
ciò che è già uomo può, morendo, diventare non-uomo. Allo
stesso modo un gamete non è in potenza non-uomo ma
non-gamete, può cioè morire come gamete (e non come uomo).
Severino non si accorge che, anche così deformata, la
dottrina dei suoi avversari riesce a spuntarla:
l’embrione, essendo in potenza un uomo morto, è in atto un
uomo vivo.
5. Terzo argomento:
se l’uomo in atto, per esistere, debba prima essere stato
“uomo” in potenza
Nel capitolo 10 Severino
utilizza un terzo argomento per dimostrare che i
sostenitori dell’umanità dell’embrione non sono in grado
di evitare altre contraddizioni e incoerenze.
Per gli “amici dell’embrione”, scrive Severino,
con l’unione dello [...] spermatozoo e dell’uovo della donna
incomincia una nuova vita umana. Chiediamoci: prima
che questa nuova vita incominci, esiste qualcosa
che abbia la capacità di diventare questa nuova vita?
Stando alla logica che stiamo discutendo (e non solo a
essa) è necessario rispondere affermativamente. Se infatti
non potesse esistere tale capacità da parte di tale
qualcosa, allora una nuova vita umana sarebbe impossibile:
spermatozoo e uovo, che di fatto si uniscono, non
potrebbero mai unirsi e quindi non potrebbe mai
incominciare alcuna nuova vita umana. [...] Se non ci
fosse il seme – che ha la capacità di diventare albero,
non ci sarebbero alberi. La capacità da parte di qualcosa
di diventare vita umana è stata chiamata [...] ‘potenza’.
Ciò che ha la capacità di diventare vita umana è cioè vita
umana potenziale, ‘in potenza’ [...].
Bene. Ma dove si trova questa vita umana potenziale? Si
risponderà subito, come purtroppo mi è stato risposto da
certi esperti: ma si trova nello spermatozoo e nell’uovo.
E invece, proprio no! Perché quando questi due princìpi
[...] sono ancora separati, ognuno dei due, in quanto
separato dall’altro, non ha la capacità di diventare una
nuova vita umana, ma ha soltanto la capacità di unirsi
all’altro (73-74)
Ora, è vero che il singolo
gamete non possiede la capacità attiva di diventare uomo,
ma solo la capacità, passiva, di unirsi ad altro. Ciò
significa che l’eventualità che i due gameti possano
unirsi non può essere definita come “uomo in potenza” ma
solo come una possibilità di uomo. I gameti,
infatti, hanno la possibilità indeterminata, legata
a un evento esterno che non è detto che si verifichi, di
diventare un uomo, ma non sono un uomo in potenza.
Come si può vedere, qui
Severino non distingue, come invece fanno gli “amici
dell’embrione” sulla scorta di Aristotele, la potenza
attiva dalla potenza passiva.
Solo in base a questa mancata distinzione Severino può
sostenere, ambiguamente, che “l’insieme dei due gameti
separati [non] ha la capacità di diventare uomo”
(116). Se dunque la capacità del seme di unirsi all’ovulo
non equivale alla capacità di diventare uomo (85), ne
deriva che per gli amici dell’embrione “nemmeno l’unione
dei gameti maschile e femminile ha la capacità di
diventare uomo, perché tale unione concorre a costituire
ciò che [...] non è più soltanto capace di diventare uomo,
ma è già uomo. (Stiamo parlando, infatti, della
capacità che cessa quando è realizzata – e che
Aristotele chiamava potenza)” (85). Qui è davvero
sorprendente che si affermi, come fa Severino, che per gli
“amici dell’embrione” l’unione dei gameti non ha la
capacità “di diventare uomo” “perché” (dunque “in ragione
del fatto che”) questa unione costituisce ciò che “è già
uomo”. Severino sembra non accorgersi dell’effetto
boomerang del suo ragionamento. E infatti, per chi
ritiene che l’unione dei gameti costituisce ciò che è già
uomo, la potenzialità di diventare uomo (più che l’uomo
in potenza) si trova precisamente nei due gameti
separati, dal momento che è proprio la loro unione che fa
cessare quella potenzialità traducendola nell’uomo in
atto.
A chi gli obietta che la
separazione in atto dei gameti corrisponde alla loro unità
in potenza (115), Severino risponde che, se così fosse,
dovremmo dire che è possibile che essi si uniscano e,
insieme, che è possibile che essi non si uniscano, laddove
“questa duplice possibilità non può essere la loro unità
in potenza” (117). Anche quest’ultima conclusione
sorprende, dal momento che lo stesso Severino aveva
costantemente ribadito, per sostenere la sua concezione
della potenza come categoria autocontraddittoria, che ogni
potenza è potenza dei contrari.
Possiamo dire, dunque, che
la potenzialità passiva di diventare uomo si trova nei
gameti separati, laddove l’uomo in atto, che fa cessare
quella potenza, è presente a partire dall’unione dei due
gameti (l’embrione). È qui che si trova la risposta alla
domanda – che Severino rivolge agli “amici dell’embrione”
– di indicare dove mai si trovi l’uomo in potenza che
precede l’uomo in atto che è l’embrione.
Alla domanda di Severino
si può dunque rispondere facilmente dicendo che l’uomo in
potenza si trova nei gameti maschile e femminile,
considerati separatamente, così come la farina, il lievito
e il sale (a loro volta considerati separatamente) sono il
pane in potenza. Di fronte a questa affermazione, che è
precisamente la risposta alla domanda circa il luogo in
cui si trovi l’uomo in potenza prima di diventare uomo in
atto, lo spavaldo argomentare di Severino comincia ad
arrancare. E infatti, tutto ciò che egli ha da
controbattere è che questa affermazione “non è una
delle premesse della dottrina della Chiesa, la quale
allora dovrebbe ammettere [...] che un uomo possa essere
stato in organismi così diversi come lo sono il gamete
maschile e quello femminile” (107). Questa pagina di
Severino è esemplare del suo stile e di alcune strategie
retoriche praticate nel testo. Vediamole.
1) Come spesso viene fatto
in bioetica, quando non si trovano argomenti di fronte a
chi sostiene razionalmente che l’embrione è un essere
umano in atto, si invocano la Chiesa e le sue presunte
incoerenze, confidando nel fatto che spesso chi ritiene
l’embrione un essere umano è anche un credente cattolico.
Ma qui la Chiesa non c’entra. Tirarla fuori insieme alla
dottrina di Tommaso (107), che la Chiesa tra l’altro su
questo punto non accetta (e Severino lo sa) equivale a uno
spostamento di discorso che serve a mascherare la propria
incapacità di rispondere all’argomento avversario sul
piano in cui l’argomento si è espresso, e cioè su un piano
strettamente filosofico.
2) Secondo Severino “è
assurdo, per la filosofia della Chiesa” che un uomo possa
essere stato in potenza in organismi così diversi come lo
sono il gamete maschile e quello femminile. Qui Severino
confonde il proprio concetto di potenza (come qualcosa di
impossibile) con quello della dottrina della Chiesa. E
infatti, solo se è impossibile che l’uomo possa
esistere in potenza prima di esistere in atto come
embrione è assurdo che l’unione di due gameti (che non
sono ancora uomo) possa dar luogo a un embrione (che è già
uomo). La Chiesa è dunque coerente
rispetto alle premesse della sua dottrina, e cade in
assurdità solo se tra queste premesse si introduce quella
di Severino, che la Chiesa, così come larga parte della
storia del pensiero, non ha mai accettato. Insomma, è
davvero assurdo, come ritiene Severino, che la possibilità
di diventare uomo si trovi nella possibilità che un gamete
maschile umano (con 23 cromosomi) si unisca a un
gamete femminile umano (con altri 23 cromosomi) per
formare un embrione umano (con 46
cromosomi)?
3) Severino ritiene che
l’argomento dei gameti appena riportato confonde “la
capacità (potenza) di unirsi a ciò insieme a cui si
costituirà la potenza di esser uomo, con la capacità
(potenza) di essere uomo” (108). Ma chi sostiene
l’argomento dei gameti non sostiene che nei gameti c’è la
possibilità di unirsi costituendo la potenza di esser
uomo, dal momento che l’embrione non è potenza di essere
uomo ma uomo in atto.
Ciò significa che l’argomento dei gameti sostiene che in
ciascun gamete c’è la possibilità di unirsi a ciò insieme
a cui si costituirà l’uomo in atto e non semplicemente in
potenza. Se dunque Severino vuole una risposta alla
domanda dove mai si trovi la capacità di esser uomo,
allora dovrebbe ascoltare le risposte di chi gli indica i
gameti, senza modificarle a proprio vantaggio nel momento
decisivo, quando cioè queste risposte giungono alla
conclusione che la capacità di diventar uomo dei gameti
cessa nel momento in cui i gameti si uniscono formando
l’uomo in atto (e non la potenza di essere uomo, come
invece inspiegabilmente riporta Severino nella precedente
citazione di p. 108 privando la risposta dei suoi critici
del passaggio decisivo).
Severino insiste, e
aggiunge un’altra obiezione alla risposta che indica i
gameti. Secondo la filosofia aristotelica degli “amici
dell’embrione”
un uomo può nascere solo se, prima di esso, esiste
qualcosa che la capacità (o “potenza”) di
diventare uomo. Si badi: qualcosa di unitario. Tale
principio vale anche per altre forme di “generazione”. E
così: una statua può essere prodotta solo se, prima di
esserlo, esiste, poniamo, un blocco di marmo capace
di diventare una statua (per opera dello scultore). Se il
blocco fosse in frantumi, nessuno di essi, e nemmeno il
loro insieme, avrebbe la capacità di diventare
quella statua. Per produrre quella statua bisogna che le
parti del blocco non siano frantumi, ma unite;
ossia che il blocco sia qualcosa di unitario. [...]
pertanto [...] se, prima della nascita dell’essere umano,
non esistesse qualcosa di unitario, avente la capacità di
diventare un uomo (se cioè non esistesse un uomo “in
potenza”), la nascita di uomini sarebbe impossibile
(90-91).
Secondo Severino gli
“amici dell’embrione” non sono in grado di indicare
qualcosa di unitario che non è ancora l’uomo e che
però ha la capacità di diventarlo. Le uniche realtà
disponibili che potrebbero vantare questa capacità di
diventare uomo sono lo spermatozoo e l’ovocita. Ma, come
abbiamo visto, spermatozoo e ovocita non hanno,
singolarmente presi, la capacità di diventare un essere
umano, ma solo la capacità, come i frammenti di marmo, di
unirsi l’uno all’altro: “un ente unitario che sia
uomo in potenza, e che non può essere sperma e ovulo
separati, ci deve pur essere da qualche parte, perché
altrimenti non potrebbe mai realizzarsi l’uomo in atto”
(56). E poiché questo ente unitario non si è in grado di
trovarlo, la conclusione implicita del ragionamento degli
“amici dell’embrione” sarebbe, ancora una volta,
controproducente: “Sostenendo che fin dal momento della
fecondazione esiste un uomo ‘in atto’, [...] [si] viene a
negare (contro le proprie intenzioni) l’esistenza della
capacità, da parte di qualcosa di unitario, di diventare
un uomo; e da questa negazione segue ciò che anche per
[...] [gli amici dell’embrione] è un assurdo, cioè che non
potrebbe nascere alcun uomo. Ma gli uomini nascono. Dunque
ciò che provoca questo assurdo è impossibile, ossia è
impossibile che sin dall’inizio l’embrione sia un uomo”
(92-93).
Di fronte a quest’ultima
deduzione si potrebbe osservare, come abbiamo già fatto a
proposito dei due precedenti argomenti, che il discorso di
Severino presenta una struttura logica puramente formale,
che può facilmente essere invertita di segno. Al
sillogismo severiniano può essere infatti opposto il
seguente contro-sillogismo: sostenendo che per essere
uomini in atto si debba prima essere stati uomini in
potenza in qualcosa di unitario (che cioè non deve unirsi
ad altro per trasformarsi in uomo in atto), Severino viene
a negare la capacità, da parte dello spermatozoo, di
diventare uomo in atto unendosi all’ovocita. Ma da questa
negazione segue ciò che anche per Severino è un assurdo,
cioè che nessuno spermatozoo unendosi all’ovocita diventi
embrione e poi uomo. Ma questo accade. Dunque ciò che
provoca questo assurdo è impossibile, ossia che per essere
uomini in atto si debba prima essere stati uomini in
potenza in qualcosa di unitario.
Severino si ostina a
ritenere che l’uomo in potenza non possa trovarsi nei
gameti separati, ma debba esistere come qualcosa di
unitario, e cita, per confermarlo, Meth. IX, 7,
dove Aristotele afferma che “la terra [qui paragonata ai
gameti] non è ancora statua in potenza [qui paragonata
all’uomo], ma deve trasformarsi e divenir bronzo” (108,
parentesi mie). Ma il corrispettivo del gamete, nella
prospettiva degli “amici dell’embrione”, è il bronzo (a
cui deve unirsi lo scalpello dello scultore perché
esso si trasformi da statua in potenza a statua in atto) e
non la terra (alla quale può essere paragonato invece il
materiale genetico di cui sono costituiti i gameti).
Infine, se davvero gli
“amici dell’embrione” sostenessero ciò che attribuisce
loro Severino, e cioè che una sostanza per esistere deve
prima esistere in potenza in qualcosa di unitario, senza
che dunque questo qualcosa debba unirsi ad altro per far
esistere la sostanza in questione, allora essi dovrebbero
negare, come invece non fanno, l’esistenza di tutto ciò
che si genera per composizione: il pane, per
esempio, non potrebbe mai esistere in atto, poiché esso
deriva dall’unione di più elementi (lievito, farina e
sale) e non da un “pane in potenza” unitario che, poi, si
trasforma in pane in atto.
La maggior parte delle realtà esistenti, in effetti,
risulta dalla composizione di elementi che, isolatamente
presi, non sono ancora quelle realtà.
Concludendo l’analisi di
questo terzo argomento si può notare, come giustamente è
stato fatto, che Severino “non riesce a pensare all’essere
in potenza se non immaginandolo come una specie di
‘esserino’ che sta dietro all’essere in atto. Ma la
potenza, in quanto tale, non è: ciò che esiste è solo ciò
che è in atto. La potenza, infatti, è sempre e soltanto
potenza di qualcosa che è già in atto [...] e serve per
esprimere il fatto del divenire: un embrione è un essere
umano in atto che ha in sé la potenza di diventare feto,
bambino, adulto, ecc. Perciò l’uomo in potenza non esiste
(se esistesse sarebbe già in atto)”.
Da ciò deriva, coerentemente, che “uomini in atto hanno la
potenza di far essere altri uomini, cioè di generare e
fare figli, ma fare figli non significa ricavare uomini in
atto da uomini in potenza: prima dell’embrione, uomo in
atto, non c’è l’embrione uomo in potenza, ci sono ovociti
e spermatozoi”.
Si deve allora dire che,
come la farina in atto (con potenza passiva di diventare
pane) e il lievito in atto (con potenza passiva di
diventare pane) unendosi danno luogo al pane in atto, allo
stesso modo lo spermatozoo in atto (con potenza passiva di
diventare uomo) e l’ovocita in atto (con potenza passiva
di diventare uomo), unendosi, danno luogo a un uomo in
atto allo stadio iniziale della sua vita.
6. Se il fatto di
poter esistere da parte dell’embrione obblighi moralmente
coloro che possono generarlo a farlo esistere
Trattando della questione
dell’eventuale liceità del sacrificio degli embrioni umani
per il prelievo delle cellule staminali, Severino scrive:
anche qualora si concedesse che l’embrione è persona umana
fornita di tutti i diritti dell’uomo adulto, e che quindi
la sua uccisione è omicidio, anche in questo caso il
problema non verrebbe chiuso, nemmeno dal punto di vista
cattolico, perché la dottrina della Chiesa ammette il
sacrificio di esseri umani per il bene comune. E se la
Chiesa ammette, per il bene comune, ad esempio il
sacrificio di soldati che combattono una guerra giusta, e
che quindi sono presumibilmente innocenti, non si vede
quali motivi impediscano di assimilare il sacrificio
dell’embrione al sacrificio del soldato, visto che anche
l’embrione sarebbe sacrificato per il bene comune, cioè
per la collettività dei sofferenti (20-21).
Severino non vede quali
motivi impediscano di assimilare il sacrificio di embrioni
umani nella speranza di trovare cure per alcune malattie
al sacrificio che dei soldati possono fare della loro vita
per difendere la patria. Eppure, una volta che si sia
concesso (come fa Severino) che l’embrione è un soggetto
umano, la differenza tra i due casi risulta di solare
evidenza: mentre è un atto eroico decidere in modo
consapevole e libero di offrire la propria vita (come fa
il soldato) perché da questo gesto possa scaturire la
salvezza di altri, è profondamente ingiusto sacrificare la
vita di altri nostri simili (gli embrioni) approfittando
del fatto che sono inconsapevoli. Un conto è insomma
offrire la propria vita, altro conto è sacrificare
quella di un altro (anche se destinato certamente
alla morte come l’embrione congelato), senza informarlo e
chiedere il suo consenso.
Stranamente
Severino non si avvede di questa elementare differenza e
procede oltre, sostenendo che chi condanna l’aborto
dovrebbe condannare anche l’astinenza sessuale, perché
essa lascerebbe nel nulla la persona che sarebbe potuta
nascere con l’atto sessuale. Nel discorso sviluppato alle
pp. 64-67, Severino ripete una frequente obiezione rivolta
a coloro che ritengono moralmente discutibile la
fecondazione artificiale alla luce dei diritti del
nascituro. Secondo questa obiezione sarebbe paradossale
rispettare il diritto di qualcuno impedendogli di venire
al mondo, non tenendo conto del fatto che è sicuramente
meglio nascere, anche tramite fecondazione artificiale,
piuttosto che non nascere affatto.
Così, criticando l’idea che si debba rinunciare a
concepire un figlio in provetta o che si possa rinunciarvi
anche naturalmente, Severino giunge ad affermare che
“l’omicidio più radicale [...] è [...] quello compiuto da
coloro che, credendo che l’embrione sia già persona umana,
e volendo quindi evitare che sia ucciso, ritengono che
alla sua uccisione sia preferibile non farlo nascere, cioè
lasciarlo definitivamente ed eternamente nel nulla” (66).
C’è chi ritiene che stando
a questa tesi “dovremmo concludere che chi viene ucciso
non subirebbe mai un danno, in quanto non passa in una
condizione peggiore (non esistendo più, infatti, non può
trovarsi in una situazione migliore o peggiore rispetto a
un’altra)”.
Una differenza, in realtà, c’è: una cosa è la non
esistenza provocata dall’omicidio, che rappresenta un
danno perché elimina chi già esiste, altra cosa è
la non esistenza di chi non esiste, il quale può risultare
beneficato dall’esistenza solo nella misura in cui
continua a vivere una volta che esiste e non perché
comincia a esistere rispetto a un tempo in cui non
esisteva. Quanto diciamo non esclude, chiaramente, l’idea
che la vita sia per stessa un bene, ma solo che si possa
parlare di coloro che non esistono come di soggetti
ingiustamente privati di questo bene.
Ignorando queste
implicazioni, Severino sostiene invece che l’etica
cattolica “produce” l’assenza dal mondo di coloro che
sarebbero potuti nascere senza i divieti di quell’etica.
E, anche qualora costoro nascessero, rimarrebbero
atterriti all’idea che sarebbero potuti rimanere nel nulla
in ossequio alla morale cattolica (39). Inoltre, aggiunge
Severino – che qui riporta alcune osservazioni di Jürgen
Habermas sulla genetica – è vero che chi nasce con certe
caratteristiche genetiche stabilite dai genitori potrebbe
lamentarsene, ma è anche vero che potrebbe lamentarsene
chi non le ha ricevute, laddove i suoi genitori potevano
invece donargliele (40-41). Qui Severino non si accorge,
ancora una volta, di attribuire all’etica che egli sta
criticando un’idea esattamente contraria a quella da essa
effettivamente sostenuta, e cioè che esista una
responsabilità diretta dei genitori nei confronti
delle caratteristiche genetiche di coloro che vengono
concepiti. E infatti, i genitori sarebbero chiamati a
rendere conto e ragione delle caratteristiche genetiche
dei loro figli solo se, in linea di principio, essi
fossero moralmente obbligati a migliorarle e,
invece, non lo facessero: ovvero solo se si accetta quello
che, invece, l’etica criticata da Severino rifiuta.
7. Conclusione
Riferendosi al pensiero di
Severino, Enrico Berti ha fatto notare che mentre “alcuni
lo accettano in blocco, dichiarandosene entusiasti come di
una nuova rivelazione, altri lo respingono ugualmente in
blocco, considerandolo una specie di mostruosità, ma quasi
nessuno lo sottopone a una critica rigorosa, capace di
distinguere dove le sue argomentazioni ‘reggono’ e dove,
eventualmente, non reggono”.
Ci piace pensare che le riflessioni sviluppate in questo
contributo, pur con i suoi inevitabili limiti, siano state
un tentativo di questa “critica rigorosa”, che non
respinge pregiudizialmente l’impostazione
dell’interlocutore, ma entra in merito a ciò che egli
effettivamente sostiene e al modo in cui lo sostiene. Il
nostro contributo, d’altronde, non aveva la pretesa di
dimostrare che l’embrione umano è già una persona. Il
nostro intento, più limitato, era solo quello di
evidenziare come gli argomenti che Severino usa per
cogliere in fallo “gli amici dell’embrione” mancano il
bersaglio. Dal modo in cui abbiamo cercato di documentare
questo fallimento crediamo sia anche emerso come tali
argomenti, risultando esclusivamente logico-dialettici,
sono inadeguati non solo per risolvere ma anche
semplicemente per affrontare un tema non puramente formale
come quello dello statuto dell’embrione umano. Severino
sembra infatti pretendere che l’uomo concretamente
esistente, per essere veramente tale, debba essere una
sorta di “atto puro”, senza alcuna potenzialità di
sviluppo. Questa pretesa è coerente con l’impostazione
parmenidea del suo pensiero, che, lo abbiamo visto,
ritiene impossibili il divenire e la potenza. Eppure
l’essere vivente, in quanto tale, è, per definizione, ciò
che rimane lo stesso nel divenire delle sue
forme. Come ha scritto Romano Guardini:
il modo di esistere del vivente proviene da un inizio
semplice, ossia dalla divisione di una cellula o
dall’unione di due, passa attraverso una serie di
trasformazioni fino al pieno svolgimento morfologico […].
Questi singoli stadi però – e ciò è essenziale – non si
susseguono l’uno dopo l’altro in una serie esteriore, ma
formano un tutto, una forma [Gestalt] nel senso
stretto del termine. Ciò che chiamiamo organismo, da
questo punto di vista, ha due forme per manifestarsi. Una
sincronica […] [chiamata] “forma strutturale” [Baugestalt]
[e una] diacronica [che chiamiamo] “forma in divenire” [Werdegestalt].
Da parte loro entrambe le forme, quella strutturale e
quella in divenire, si coappartengono, vale a dire
rappresentano entrambe […] l’organismo, la prima nello
spazio, l’altra nel tempo […]. “L’albero” [per esempio] è
quella figura che ha la sua presenza nello spazio,
disposta in radici, tronco, rami, fogliame – ma è pure
quella serie di fasi che vanno attuandosi nella
successione temporale di seme, embrione, pianticella,
albero adulto pienamente sviluppato. L’albero, in ogni
fase sempre identico a se stesso, si attua interamente
soltanto nella serie completa fino all’ultimo morire
della radice. Sostenere che l’essere da noi considerato
incominci a esser se stesso solamente quando ha già
percorso un certo numero di forme evolutive, sarebbe
piatto meccanicismo, essendo posta in tal caso una somma
di particelle in luogo di una totalità vivente.
L’importanza attribuita da
Severino al pensiero logico, irrigidito nella sue
impalcature formali, è francamente eccessiva e dunque
inadeguata a descrivere, rispettandone la dinamica,
l’essere vivente.
Il risultato è che la logica, non essendo qui utilizzata
per esprimere la struttura del vivente così come esso ci
appare, finisce per negare che esso sia così come
ci appare. Questa sorta di cecità filosofica nei confronti
dell’esperienza dipende da una cattiva interpretazione
della vocazione critica della filosofia di fronte al senso
comune. La filosofia, infatti, è tale quando approfondisce
il senso dell’evidenza, mostrando, per esempio, ciò che di
essa non si vede immediatamente (non sempre, infatti,
l’evidenza si spiega da sé, potendo essere compresa solo
se rimanda ad altro), ma non può, senza tagliare il ramo
sul quale è seduta, contraddire l’evidenza. Ora,
forse proprio la questione dell’embrione umano dimostra,
meglio di ogni altra, come il discorso di Severino sia
scarsamente persuasivo. Credere di poter rimuovere certe
evidenze a colpi di sillogismi equivale a una pretesa
destinata a fallire. In base agli schemi logici di
Severino un feto non sarebbe un uomo. Eppure, chiunque
abbia visto un’ecografia di un feto anche solo alla quinta
settimana potrà rendersi conto, abbastanza facilmente, che
Severino, invitandoci a diffidare dei nostri occhi per
confidare invece sui suoi sillogismi, ci chieda
onestamente un po’ troppo.
Severino fa notare come il concetto di potenza (o di
capacità), abbia influenzato profondamente la cultura
occidentale in tutti i campi. E nello specificare in
che cosa esso consista, aggiunge che, con Aristotele,
esso indica “che la capacità esiste anche prima di
essere esplicata o messa in pratica” (43). Già questa
definizione è però una tautologia che non corrisponde
alla definizione aristotelica. Dire che la “capacità”
esiste prima di realizzarsi, infatti, è un modo
diverso di dire che la capacità è una capacità, e cioè
qualcosa che, appunto per definizione, esiste prima di
realizzarsi. In realtà, a esistere prima di
realizzarsi non è per Aristotele la capacità o la
potenza (come è naturale che sia), ma ciò di cui
la capacità è capacità: nello scienziato che dorme la
scienza esiste anche in assenza del suo
esercizio attuale, ed è per questo che egli ne è
“capace” (Meth. IX 1048a 33-35). Lo stesso
Severino lo ammette quando, dopo aver citato l’esempio
del bambino che “è capace di diventare adulto anche
prima che lo divenga effettivamente” (43), aggiunge
che per Aristotele ciò che è “capace di essere o di
fare qualcosa” “è ‘in potenza’ tale essere o fare”
(ibidem).
E ancora: se, come sostiene Severino, l’uomo in
potenza è “uomo e non-uomo” per il fatto di poter
sempre morire, allora dobbiamo dire che l’uomo in
potenza diventa uomo in atto solo quando esclude il
suo opposto, quando cessa di essere “non-uomo” in
potenza e diventa “non-uomo” in atto. La conclusione è
che per diventare uomo in atto l’uomo in potenza deve
morire, poiché soltanto morendo l’uomo in potenza
esclude la possibilità di diventare non-uomo. Infatti,
come ricorda Severino, la potenza cessa di essere tale
quando si traduce in atto. Questa strana conclusione
deriva dalla deformazione dei concetti aristotelici di
atto e potenza di cui Severino crede responsabili i
sostenitori dell’umanità personale dell’embrione.
Forse non è elegante, dopo quanto abbiamo evidenziato,
che Severino presenti l’interlocutore che gli obietta
l’argomento dei gameti come uno che “non capisce il
senso e le immediate implicazioni” (108) di ciò che
dice. Severino, purtroppo, ama spesso dare
l’impressione di comprendere la dottrina della Chiesa
meglio di quanto la Chiesa comprenda se stessa,
ripetendo la mossa con le tesi di tutti gli studiosi
cattolici.
R. GUARDINI, Das Recht des werdenden Menschenlebens.
Zur Diskussion um den Paragraph 218 des
Strafgesetzbuches, 1-5 Tsd, Wunderlich, Tübingen-Stuttgart
1949; tr. it.
Il diritto alla vita prima della nascita,
a cura di O. Brino, Morcelliana, Brescia 2005, pp.
26-29.
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