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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 1 - Settembre 2006 
     
 

Da Parmenide alla bioetica. A proposito delle tesi di Emanuele Severino sullo statuto dell’embrione umano

 

di Luciano Sesta

 

 

Il volume Sull’embrione, di Emanuele Severino[1], raccoglie articoli pubblicati tra il dicembre 2004 e il maggio 2005 in occasione del dibattito sulla legge 40/2004, che, come è noto, regolamenta in Italia le pratiche di fecondazione artificiale. Il testo è estremamente complesso e richiede, per poter essere adeguatamente compreso – specialmente per chi non si occupa di filosofia – qualche informazione sulla più generale prospettiva dell’Autore. Per tale ragione premettiamo una breve sintesi del pensiero di Severino per poi affrontare, in modo analitico, le pagine che l’Autore dedica a uno dei temi più scottanti della bioetica, quello dello statuto dell’embrione umano. 

 

 

1. Sulla tesi fondamentale del pensiero di Severino

 

Emanuele Severino (Brescia, 1929) insegna filosofia teoretica all’Università di Venezia, ed è stato allievo di Gustavo Bontadini, uno dei più notevoli esponenti della filosofia neoscolastica. Il pensiero di Severino, il cui tema centrale è quello metafisico classico del rapporto tra essere e divenire, ha suscitato, fin dagli anni sessanta, un ampio dibattito in Italia[2].

       La tesi di Severino è che il peccato dell’Occidente (e il cristianesimo è compreso in questa critica) consiste nell’essersi allontanato dal precetto di Parmenide secondo il quale solo l’essere è e può essere pensato, laddove il non essere non è e non può in alcun modo essere pensato. Il pensiero greco, infatti, invece di considerare soltanto l’essere ha introdotto, dopo Parmenide, il divenire, inteso come la dimensione in cui le cose provengono dal non essere e vi fanno ritorno, inteso, dunque, come un inconcepibile passaggio dall’essere al non essere e viceversa. Così, introducendo il “non essere” come una realtà, l’umanità occidentale si è trovata in preda a un sentimento di angoscia di fronte al nulla, cominciando a sperimentare una nostalgia dell’essere. Da qui il maldestro tentativo di riparare il danno: l’Occidente costruisce degli immutabili (Dio, la Verità, i Valori, la Legge naturale), per difendersi dall’angoscia provocata dal non essere che esso stesso ha incautamente introdotto. In tal modo, però, il rimedio è peggiore del male: gli immutabili soffocano la vita in modo più insopportabile della stessa minaccia del non essere evocata dal divenire. Per questo l’uomo, stanco di sacrificare il divenire in nome della Verità, si rivolge alla scienza e alla tecnica, ovvero al dominio della realtà, per meglio sfruttarla prima che essa tramonti nel non essere. E infatti, se la realtà diviene, allora può essere manipolata a piacimento a vantaggio dell’uomo. Sia la costruzione di un Essere che sta al di sopra del divenire, sia la scelta di rinnegarlo affidandosi alla scienza, provengono dunque dal medesimo errore di aver ammesso il divenire come luogo del passaggio dall’essere al non essere.

       L’alternativa a tutto ciò è, secondo Severino, un ritorno a Parmenide[3]. Bisogna mettere in questione la fede nel divenire, ovvero la persuasione, che Severino ritiene “folle”, che ciò che è provenga dal non essere (nascendo) e vi faccia ritorno (morendo o distruggendosi). Ammettere il divenire è infatti ammettere l’assurdità che vi sia un tempo in cui l’essere è identico al nulla.

In base a queste premesse, Severino respinge la stessa idea di “possibilità”. La possibilità di qualcosa è impossibile, perché la possibilità di qualcosa indica il non essere (ancora) di qualcosa. Se qualcosa è possibile non è, ma se non è non può in alcun modo essere, ovvero è impossibile. Così, affermare la possibilità significherebbe affermare “la possibilità che un essente non sia, e poiché è necessario che ogni essente sia (eterno) è impossibile che esista qualche essente possibile. La Follia è appunto affermare che un essente qualsiasi non sia. La Non-Follia è affermare l’eternità di ogni essente” (104). Severino, dunque, non ammette in alcun modo né la possibilità (interpretandola tutt’al più come l’essere nascosto di ciò che è e non come un non essere ancora[4]), né, a fortiori, il passaggio dalla possibilità alla realtà, all’interno del quale egli legge anche il passaggio dalla potenza all’atto, inteso come un passaggio dal non essere all’essere. Quella che a tutti noi sembra un’evidenza, e cioè la trasformazione, il divenire, “il diventar altro” è, agli occhi di Severino, una contraddizione. E infatti, nota ancora Severino, “diventando altro, qualcosa è altro. Che qualcosa sia altro da ciò che esso è non è forse la forma estrema della Follia?” (113).

      

 

2. L’impianto argomentativo del testo Sull’embrione

 

Con il testo Sull’embrione Severino si affaccia nel campo della bioetica perché vi vede un’occasione per ripetere le tesi centrali del suo pensiero[5]. In particolare, egli discute il concetto aristotelico di “potenza” (qui inteso come una variante del concetto di “possibilità”), per evidenziare come ogni argomento che in base a esso voglia dimostrare che l’embrione è già un essere umano sia destinato a fallire.

Ciò che Severino intende dimostrare è “1) Che al di là delle intenzioni di chi accetta il concetto aristotelico di ‘potenza’, tale concetto costringe a negare che l’embrione sia un essere umano, sia pure potenziale; 2) che tale costrizione sussiste perché il concetto stesso di ‘potenza’ è contraddittorio, assurdo” (51-52). Il discorso di Severino dunque ammette, senza concedere, la legittimità del concetto di “potenza”, al solo scopo di mostrare che tale concetto costringe coloro che sostengono che l’embrione è un essere umano ad affermare che, in realtà, l’embrione non è un essere umano (42).

Ora, stranamente, benché nell’Avvertenza avesse dichiarato di voler discutere la tesi che l’embrione è un essere umano “in atto” (9), Severino comincia il suo discorso attribuendo ai suoi interlocutori la tesi secondo cui l’embrione sarebbe sì, “già uomo”, ma solo “in potenza” (44). Qui Severino, come molti hanno notato[6], ha frainteso, poiché per tutti coloro che sostengono che l’embrione è persona l’embrione non è un essere umano in potenza ma un essere umano in atto. Tale osservazione è stata rivolta da più parti a Severino, che sembra averla recepita (cfr. Avvertenza, pp. 53-54 e 99-104). Ciò nonostante, alla precisazione che l’embrione non è “in potenza” uomo ma “uomo in atto” che, semmai, in potenza è uomo adulto[7], Severino risponde spiegando che l’espressione da lui utilizzata “esser-già-uomo in potenza” aveva proprio questo significato, e cioè che “l’embrione è in potenza un adulto” (53). Facendo credere che tale affermazione fosse già contenuta nel suo precedente discorso, Severino la presenta come qualcosa che i critici “non hanno capito” leggendo il suo articolo (52) e non, invece, come una correzione dovuta alle obiezioni nel frattempo ricevute. Che non sia così, tuttavia, è dimostrato dal fatto che mentre nella prima parte del testo (cap. 5) Severino attribuisce ai suoi interlocutori l’affermazione che “l’embrione è in potenza un esser-già-uomo”, ovvero qualcosa che non è ancora uomo e che, proprio per questo, può diventarlo come può non diventarlo (primo argomento), nella seconda parte del testo egli parla dell’embrione come “un esser-già-uomo in potenza”, ovvero qualcosa che è già uomo e che, proprio per questo, può diventare adulto come può morire, e cioè diventare non-uomo (secondo argomento). In tal modo, la tesi, prima esposta, che l’embrione è in potenza uomo viene ora sostituita dalla tesi secondo cui l’embrione, essendo già uomo, è in potenza uomo adulto: “l’essere in potenza uomo non significa ‘non essere ancora un uomo’ [...] ma significa esser già uomo” che “deve ancora svilupparsi, cioè rendere attuali le proprie potenzialità” (53-54). Benché dunque i singoli articoli che compongono il testo siano presentati come una sequenza unitaria di riflessioni, tra i primi articoli e gli ultimi si assiste a una vistosa correzione dell’impianto generale del discorso, dovuta, evidentemente, alle critiche intanto ricevute[8].

Fatta questa premessa, possiamo vedere come Severino sviluppi il suo discorso concentrando i primi due argomenti nella prima parte del testo, per poi utilizzare un terzo argomento nella seconda parte. Nella prima parte (cap. 5,6,7,8,), come abbiamo visto, si considera dapprima l’argomento secondo cui l’embrione è uomo in potenza che “ha la capacità di diventare un essere umano”, dimostrando che tale capacità, essendo contraddittoria, costringe ad ammettere che l’embrione non è un essere umano. Successivamente, si considera l’embrione come già uomo in atto che ha la potenza “di diventare un essere umano adulto”, e si dimostra, anche qui, che questa potenzialità di diventare uomo adulto da parte dell’uomo-embrione, essendo contraddittoria, costringe ad ammettere che l’embrione non è un essere umano in atto e che l’aborto non è un omicidio. Nella seconda parte del testo (cap. 10,12,13,15,16), con un nuovo argomento, si chiede a coloro che sostengono che l’embrione è uomo in atto dove si trovi la potenza, o la capacità, di diventare quell’uomo in atto che è l’embrione, “che a sua volta ha la potenza di diventare un essere umano adulto”, e si dimostra che gli “amici dell’embrione” [9] non sono in grado di indicare dove mai questa potenza possa esistere (103). 

 

 

3. Primo argomento: se la potenzialità dell’embrione di diventare “uomo in atto” sia contraddittoria e costringa a negare che l’embrione sia un essere umano

 

Analizziamo ora il primo argomento di Severino, e cioè quello che attribuisce (erroneamente) agli “amici dell’embrione” la convinzione che “l’embrione è in potenza un esser-già-uomo”, ovvero qualcosa che non è ancora uomo e che, proprio per questo, può diventarlo come può non diventarlo.

Severino introduce il vero e proprio tema del suo testo scrivendo: “Che l’embrione prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna sia un essere umano in potenza – ossia qualcosa che in condizioni normali ha la capacità di diventare un essere umano – è un principio accettato sia dal coloro che sostengono, sia da coloro che negano che l’embrione sia già un essere umano” (43-44)[10]. Qui, come si può notare, c’è già una prima ambiguità. Come possono “coloro che sostengono che l’embrione sia già un essere umano” accettare il principio che l’embrione sia “qualcosa che ha la capacità di diventare un essere umano”? Coloro che partono dal principio che l’embrione abbia la capacità di diventare un essere umano sono coloro che ritengono che l’embrione non sia ancora un essere umano. Chi ritiene che l’embrione sia già un essere umano, infatti, non può credere che debba ancora diventarlo. Delle due l’una: o qui Severino ha preso un abbaglio logico o, peggio, dobbiamo sospettare che si tratti di una mossa sleale, finalizzata a rinfacciare ai sostenitori dell’umanità dell’embrione una contraddizione di cui essi non sono in alcun modo responsabili. Il passo immediatamente successivo, purtroppo, dimostra che tale sospetto non è infondato. Severino, infatti, prosegue precisando che i due opposti schieramenti divergerebbero “in relazione a un ulteriore carattere della ‘potenza’. Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione sia un esser-già-uomo, ma, appunto, un esserlo già ‘in potenza’. Gli altri intendono che l’embrione, sebbene sia ‘in potenza’ un essere umano, sia tuttavia un non-essere-ancora-uomo. In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì” (44).

Qui Severino (oltre ad attribuire ai suoi avversari, lo ricordiamo, una premessa che essi non hanno mai accettato, e cioè che l’embrione sia “uomo in potenza” e non “uomo in atto”), dissolve la differenza tra potenza e atto, indicata dall’uso degli avverbi “non ancora” e “già”. La mossa di Severino è qui strategica. Prima, infatti, si attribuisce a coloro che ritengono che l’embrione sia un essere umano in atto la tesi secondo cui l’embrione, invece, sarebbe un essere umano in potenza; poi, per nascondere e forse anche per riscattare questa deformazione si aggiunge che sì, l’embrione per costoro sarebbe “già-uomo”, ma in potenza. Gli avverbi temporali “già” e “non ancora”, che nel linguaggio comune e in quello di Aristotele esprimono la distinzione tra atto e potenza, vengono entrambi usati da Severino per indicare la potenza. Per gli “amici dell’embrione”, così, l’embrione sarebbe un “esser-già-uomo”, sebbene in potenza (44). Ma dire che l’embrione è “già uomo in potenza”, significa dire che esso è “uomo in atto in potenza”, ovvero, già uomo e non ancora uomo. Eliminando la differenza tra potenza e atto Severino costruisce ad hoc una contraddizione che poi rinfaccia a coloro che, invece, fanno proprio di questa differenza la base del loro argomento.

Severino, come si può vedere, introduce surrettiziamente elementi del proprio pensiero nella prospettiva dei suoi interlocutori, rischiando di viziare alla radice ogni autentico confronto. È nella prospettiva parmenidea che, infatti, sia la potenza passiva, intesa come capacità di diventare altro, sia la potenza attiva, intesa come capacità di far diventare altro, sono impossibili, perché implicano che qualcosa che non è (ancora), per esempio il vedere in chi tiene gli occhi chiusi, sia (già). Tutto ciò che è in potenza esprimerebbe qualcosa che è e, al tempo stesso, che non è. Se l’espressione “in potenza” significa “non essere ancora”, allora l’espressione “essere in potenza” significa “essere già non essere ancora”: una follia.

Dopo aver ricostruito (fraintendendola) la prospettiva degli “amici dell’embrione”, Severino si accinge a mostrarne l’incoerenza, partendo dall’affermazione che “se l’embrione può diventare un uomo in atto, allora, proprio perché ‘lo può’ (non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo, può anche diventare non-uomo, cioè qualcosa che uomo non è” (45-46). Ciò significa che

 

proprio perché è ‘in potenza’ uomo, l’embrione è in potenza anche non-uomo. [...] È già uomo e, anche, è già non-uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente. Proprio per questo, l’embrione non è un esser uomo. Infatti – anche per coloro che pensano alla luce dell’idea di ‘potenza’ – l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo. Se un colore è insieme un rosso e un non-rosso, tale (mostruoso) colore non è il colore rosso. Analogamente, se l’embrione è, in potenza, quell’esser già uomo che è necessariamente unito all’esser già non-uomo, ne viene che l’embrione non è già un uomo – non è cioè quell’esser autenticamente uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo (46).

 

Sarebbe, questo, secondo Severino, un argomento decisivo e inedito, che costringerebbe tutti noi a negare l’umanità dell’embrione umano e ad affermare “che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è omicidio” (47).

Come si può notare, l’argomento di Severino si fonda sulla presunta contraddittorietà del concetto di potenza. Tale contraddittorietà sarebbe adombrata, secondo Severino, nell’affermazione aristotelica secondo cui “ciò che è in potenza è in potenza gli opposti” (54). Ora, poiché gli “amici dell’embrione” si ispirano ad Aristotele e non a Parmenide, si rende necessario un chiarimento. Come è noto, Aristotele tentò di superare Parmenide attraverso una concezione polivoca e non univoca dell’essere. Per Aristotele l’essere si dice in molti modi, e il divenire non implica un assurdo passaggio dal non essere all’essere ma dall’essere in un certo modo all’essere in un altro modo. I due principali modi di essere, che spiegano il divenire, sono, per Aristotele, l’atto e la potenza. Noi diciamo “potenza” la capacità, da parte di qualcosa che esiste in atto, di realizzare qualcos’altro: per es. la capacità di vedere da parte dell’uomo. Diciamo “atto” la realizzazione di questa capacità, in questo caso il vedere stesso. Come si può notare – e questo secondo Aristotele vale in generale – il passaggio dal vedere in potenza al vedere in atto non è un impossibile passaggio dal nulla all’essere ma un passaggio da un modo di essere a un altro, reso possibile da qualcosa che esiste già in atto, in tal caso l’uomo. Una potenza che non è potenza di realizzare qualcosa da parte di qualcos’altro che già è in atto non esiste. La potenza di ciò che non è ancora in atto (il vedere), può dunque essere predicata solo di ciò che è già in atto (l’uomo). Da ciò derivano due importanti conseguenze: 1) poiché la potenza è sempre e solo potenza di qualcosa che è già in atto, la potenza, in quanto tale, non esiste; 2) ciò che è in atto (per es. l’uomo) è sempre anche in potenza, ma sotto un aspetto diverso (il vedere, il camminare, il morire ecc.) da ciò per cui è in atto (l’essere uomo).

Quando Aristotele parla della potenza come unità degli opposti, non parla di ogni tipo di potenza, ma della potenza razionale, per esempio quella della medicina, che può produrre tanto la salute quanto la malattia. Dalla potenza razionale si distingue la “potenza irrazionale”, che è invece potenza di un solo contrario (per esempio quella del fuoco, che può riscaldare ma non raffreddare). Ora, benché comprenda entrambi i contrari, la potenza razionale non può realizzare (cioè tradurre in atto) ambedue i contrari nello stesso tempo (cfr. Meth. IX, 1048a 20-25), dal momento che “è possibile che la medesima cosa sia, ad un tempo, i contrari in potenza, ma non in atto” (Meth. IV 4 1009a 36). Solo in quest’ultimo caso, in effetti, scatterebbe la contraddizione, poiché il principio di non contraddizione recita che è impossibile che la stessa cosa appartenga e non appartenga alla medesima cosa nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto (cfr. Meth. IV 1005b 19-20).

Così, un muro rosso è in potenza blu e non-blu, perché possiamo dipingerlo di blu o di un altro colore[11]. Qui non c’è contraddizione perché il principio di non contraddizione recita che una cosa non può essere in atto A e non-A laddove può essere in potenza A e non-A (cfr. Meth. IV 4 1009a 36). Se l’embrione è già uomo in atto, come Severino ammette che sia per i suoi interlocutori (almeno nella seconda parte del testo), allora può essere in potenza proprietà accidentali opposte (adulto e non adulto) ma non “uomo” (che è sostanza e non accidente) e “non-uomo”. Ricordiamo, infatti, che in virtù del principio di non contraddizione, ciò che è in atto è sempre anche in potenza, ma sotto un aspetto diverso da ciò per cui è in atto. Potenza e atto non possono stare insieme sotto lo stesso aspetto e nello stesso momento: qualcosa non può essere già uomo e non ancora uomo: significherebbe dire che è uomo e nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto non-uomo. Può essere uomo in potenza solo ciò che in atto non è ancora uomo e può essere non-uomo in potenza solo ciò che in atto è già uomo. Atto e potenza (già e non ancora) non possono stare insieme nello stesso tempo rispetto all’essere uomo poiché il passaggio dall’uno all’altro serve per spiegare il divenire e, dunque, lo stare in tempi successivi di determinazioni diverse. Quando si riferiscono allo stesso aspetto atto e potenza sono, per definizione, in tempi diversi: l’essere uomo in atto, insomma, esclude solo l’essere uomo in potenza ma non la potenzialità, poiché l’uomo diviene.  

Da ciò consegue che qualcosa può essere uomo in potenza solo se è non-uomo in atto (il gamete, che può diventare uomo) o uomo in atto se è non-uomo in potenza (l’embrione umano e l’adulto, che possono morire). Se l’embrione è già uomo non può essere in potenza uomo: potrà essere in potenza un feto, un neonato, un adulto, un musicista ecc. Se infatti è già uomo, deve essere in potenza qualcosa di diverso dall’essere già uomo, poiché essere già uomo significa essere uomo in atto, ovvero far cessare l’uomo in potenza. Ci si domanderà allora: cosa è in potenza ciò che è già un uomo allo stadio embrionale? Naturalmente il pieno sviluppo delle sue caratteristiche umane specifiche, che lo faranno diventare un essere umano adulto[12]. Se l’embrione è un essere umano in atto la potenza non riguarda, dunque, la sua umanità, ma lo sviluppo delle sue caratteristiche umane, che lo faranno diventare non un uomo (questo lo è già) ma un uomo adulto.

Insistendo invece sul carattere contraddittorio della potenza, dopo essersi appellato al concetto di potenza “razionale” come “unità dei contrari”, Severino aggiunge: “‘Ogni’ potenza: non solo ciò che ha in potenza proprietà accidentali opposte, ma anche ciò che, non esistendo ancora, può diventare come non diventare una sostanza” (54). Ma, anche qui, per Aristotele ciò che non esiste ancora e che può “diventare” una sostanza non può mai essere in potenza, poiché la potenza è sempre potenza di qualcosa che già è in atto, che dunque già esiste (l’atto è l’esistere della cosa). La “potenza” non è un’astratta condizione di possibilità della sostanza, ma un aspetto concreto della sostanza stessa che esprime la capacità: o di realizzare una qualche proprietà specifica della sostanza (nel caso dell’embrione umano la ragione, la volontà, il linguaggio ecc.) o di causare una trasformazione (nel caso dell’adulto la generazione) o di subire mutamento ad opera di altro (potenza passiva). Le sostanze esistenti, dunque, sono sempre in atto, pur essendo in potenza per i molteplici aspetti che le caratterizzano.

Quando Severino scrive che in potenza è “ciò che, non esistendo ancora, può diventare come non diventare una sostanza” (54), rovescia clamorosamente non solo l’asserto aristotelico secondo cui l’atto precede sempre la potenza (Meth. IX 1049b 10-13) ma anche quello secondo cui la potenza degli opposti non riguarda mai l’esistenza o la non esistenza della sostanza (Meth. 1046b 10-25), visto che per Aristotele la sostanza, a differenza degli accidenti, non ammette contrario: non esiste il contrario di uomo o di Socrate, mentre esiste il contrario di bianco. Insomma “uomo”, “cane” e “marmo” non essendo proprietà che qualcosa può avere o non avere, ma sostanze, non possono trovarsi in potenza insieme al loro contrario in qualcosa che, in atto, non è nessuno dei due contrari (il gamete, per esempio, non è in potenza uomo e non-uomo ma non-uomo in atto e uomo in potenza). Lo stesso termine “embrione” non indica una sostanza ma lo stadio di sviluppo di un determinato vivente la cui sostanza è indicata dall’essenza specifica del vivente in questione, in questo caso l’uomo. Il soggetto sostanziale dello sviluppo embrionale pertanto, non è a rigor di termini genericamente un embrione, ma un essere umano allo stadio embrionale.

Considerando invece l’embrione come una sorta di soggetto neutro e indeterminato contenente in potenza i contrari di uomo e di non-uomo, Severino finisce per confondere il concetto di potenza, che esprime una disposizione a realizzare qualcosa di determinato (che dunque esclude il suo opposto), con quello di possibilità, che esprime invece, in modo indeterminato, tutto ciò che non è impossibile (e che dunque abbraccia i contrari). Ciò che è decisivo, qui, è che la potenzialità, a differenza della possibilità, esprime qualcosa che è già presente. Vale la pena, per esprimere con chiarezza tale differenza, riportare una pagina di Giuseppe Savagnone, uno degli studiosi intervenuti nel dibattito suscitato dal testo di Severino:

 

La possibilità (di cui quello di probabilità è una variante) indica solo una non contraddittorietà logica: è possibile tutto ciò che non è assurdo. Di un alfabeta si può dire che è pur sempre possibile che diventi professore di Università. Una potenzialità si ha, invece, quando una determinata situazione è già realmente presente, anche se in modo ancora latente […]. L’esperienza ci suggerisce innumerevoli varianti di una simile situazione, in cui una proprietà o un’attitudine è già ben reale – e non solo possibile – anche se, per così dire, quiescente. Così, non è insensato chiedere a una persona, mentre sta in silenzio, se “parla l’inglese”. Con tale domanda, infatti, non ci si riferisce, evidentemente, all’esercizio attuale di questa sua eventuale abilità, ma al fatto che la possieda. E se così fosse, il suo caso sarebbe del tutto diverso da quelo di chi, tacendo, non conosca però quella lingua, pur avendo in astratto la possibilità, in quanto dotato di corde vocali, di parlarla. […].

Analogamente, c’è una grande differenza tra un nastro o una cassetta vuoti, che hanno la posssibilità di contenere qualunque musica o film, e un nastro che contenga la sesta sinfonia di Beethoven eseguita da Von Karajan […]. In entrambi i casi nessuna nota risuona […]. Ma, nel primo,  […] [il] nastro non […] [conterrebbe] nulla; nel secondo, invece, una determinata musica sarebbe già presente, con tutte le caratteristiche dell’esecuzione […]. A riprova di ciò, chi, per ipotesi, distruggesse un nastro […] contenente l’ultimo esemplare di quella esecuzione […], avrebbe comesso un atto ben più grave della semplice distruzione di un nastro […] che [avrebbe] “potuto” contenere quella esecuzione […]. Così, chi uccide un embrione […] non distrugge solo una possibilità di essere umano, ma un individuo con le sue caratteristiche uniche e irripetibili, anche se non in esercizio[13].

 

Se le cose stanno così, nell’embrione umano a essere aperta a esiti opposti non è l’umanità ma il suo sviluppo, nel senso che quest’ultimo può proseguire oppure interrompersi. A essere possibile, dunque, non è l’esser uomo dell’embrione ma il suo effettivo sviluppo. In ogni caso, anche ammesso e non concesso che l’embrione, in base alle premesse erroneamente attribuite agli “amici dell’embrione”, sia in potenza uomo e anche non-uomo, da ciò non deriva con necessità logica, come crede Severino, che l’embrione non è uomo perché “l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo” (46). Anche solo in base a queste premesse, infatti, si potrebbe concludere il contrario: poiché l’embrione è in potenza non-uomo e anche uomo, allora l’embrione è uomo, perché “l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo”. In effetti, se davvero qualcosa si presentasse nello stesso tempo come “uomo” e “non-uomo”, potremmo concludere solo che essa non può essere l’uno e l’altro insieme, ma non quale dei due opposti debba essere.   

Al termine di questa analisi critica del primo argomento sostenuto da Severino possiamo dunque concludere: a) che la premessa secondo cui l’embrione è un uomo in potenza conduce a una contraddizione solo se si legge il rapporto tra atto e potenza in senso (parmenideo) opposto a quello (aristotelico) in cui lo leggono coloro ai quali tale premessa è (erroneamente) attribuita; b) che la contraddizione espressa dal fatto che l’embrione sarebbe al tempo stesso uomo e non-uomo non costringe a negare l’umanità dell’embrione, potendo essere utilizzata, come abbiamo visto, anche per dimostrarla.

 

 

4. Secondo argomento. Se la potenzialità dell’embrione di diventare “adulto” sia contraddittoria e costringa a negare che l’embrione sia un essere umano

 

Con il cap. 6 Severino introduce il secondo argomento, secondo il quale, come abbiamo visto, l’embrione è “un esser-già-uomo in potenza”, ovvero qualcosa che è già uomo ma che, proprio per questo, può diventare adulto come può morire, e cioè diventare non-uomo. Severino, dopo aver registrato le obiezioni, deve ora riconoscere che per gli “amici dell’embrione” l’embrione non è un essere umano in potenza ma un essere umano in atto con delle potenzialità di sviluppo. Tuttavia, nota Severino, questo sviluppo, che conduce l’embrione a nascere e a diventare uomo adulto, “non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico, ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative” (45).

Si inserirebbe, a questo punto, l’argomento decisivo “accennato” nei precedenti capitoli: “L’uomo che è in potenza adulto è già un uomo, ma è anche già un non-uomo, perché, secondo Aristotele, invece di svilupparsi potrebbe morire”. Dire che l’embrione può anche diventare non-uomo non significa dunque, tiene a precisare Severino, dire che esso possa diventare un gatto o una locomotiva (55), ma solo che esso può morire. “Non-uomo”, insomma, significa il morto, il “non più” uomo (49). Così, mentre nel primo argomento Severino aveva identificato la potenza aristotelica con la possibilità logica (che ciò che non è uomo lo possa diventare), in questo secondo argomento identifica la potenza con la probabilità statistica (che ciò che è uomo possa non arrivare a diventare adulto) (pp. 48-50).

Da ciò consegue che non solo l’embrione che è in potenza uomo (primo argomento), ma anche l’embrione che è già in atto uomo (secondo argomento) è, nello stesso tempo, non-uomo, rappresentando “un che di contraddittorio, di impossibile, di assurdo” (54-55). Questo secondo argomento, dunque, è una variante del primo. Solo che qui, a differenza del primo argomento, risulta più evidente la sua assurdità. E infatti, una volta che, con Severino, si ritiene un controsenso il passaggio dall’essere al non essere, dalla vita alla morte, un essere mortale, un essere che cioè può morire, è qualcosa di impossibile.   

In realtà, dire che l’embrione è in potenza non-uomo adulto perché può morire e uomo adulto perché può invece svilupparsi, non equivale a una contraddizione per lo stesso motivo già evidenziato a proposito del primo argomento sostenuto da Severino. Gli opposti, infatti, non riguardano, qui, la sostanza “uomo” ma delle proprietà accidentali quali il morire e lo svilupparsi.

Anche per questo secondo argomento, inoltre, possiamo fare una considerazione analoga a quella fatta alla fine dell’analisi del primo argomento. Dal fatto che l’embrione possa morire, sia cioè in potenza non-uomo, non si deduce, come crede Severino, che l’embrione non è uomo perché “l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo”. È vero piuttosto il contrario: se l’embrione è in potenza non-uomo perché può morire, e il non-uomo è il non-più-uomo, cioè l’uomo morto, allora l’embrione è già uomo in atto, perché solo ciò che è già uomo può, morendo, diventare non-uomo. Allo stesso modo un gamete non è in potenza non-uomo ma non-gamete, può cioè morire come gamete (e non come uomo). Severino non si accorge che, anche così deformata, la dottrina dei suoi avversari riesce a spuntarla: l’embrione, essendo in potenza un uomo morto, è in atto un uomo vivo[14].    

 

 

5. Terzo argomento: se l’uomo in atto, per esistere, debba prima essere stato “uomo” in potenza

 

Nel capitolo 10 Severino utilizza un terzo argomento per dimostrare che i sostenitori dell’umanità dell’embrione non sono in grado di evitare altre contraddizioni e incoerenze[15]. Per gli “amici dell’embrione”, scrive Severino,

 

con l’unione dello [...] spermatozoo e dell’uovo della donna incomincia una nuova vita umana. Chiediamoci: prima che questa nuova vita incominci, esiste qualcosa che abbia la capacità di diventare questa nuova vita? Stando alla logica che stiamo discutendo (e non solo a essa) è necessario rispondere affermativamente. Se infatti non potesse esistere tale capacità da parte di tale qualcosa, allora una nuova vita umana sarebbe impossibile: spermatozoo e uovo, che di fatto si uniscono, non potrebbero mai unirsi e quindi non potrebbe mai incominciare alcuna nuova vita umana. [...] Se non ci fosse il seme – che ha la capacità di diventare albero, non ci sarebbero alberi. La capacità da parte di qualcosa di diventare vita umana è stata chiamata [...] ‘potenza’. Ciò che ha la capacità di diventare vita umana è cioè vita umana potenziale, ‘in potenza’ [...].

Bene. Ma dove si trova questa vita umana potenziale? Si risponderà subito, come purtroppo mi è stato risposto da certi esperti: ma si trova nello spermatozoo e nell’uovo. E invece, proprio no! Perché quando questi due princìpi [...] sono ancora separati, ognuno dei due, in quanto separato dall’altro, non ha la capacità di diventare una nuova vita umana, ma ha soltanto la capacità di unirsi all’altro (73-74)

 

Ora, è vero che il singolo gamete non possiede la capacità attiva di diventare uomo, ma solo la capacità, passiva, di unirsi ad altro. Ciò significa che l’eventualità che i due gameti possano unirsi non può essere definita come “uomo in potenza” ma solo come una possibilità di uomo. I gameti, infatti, hanno la possibilità indeterminata, legata a un evento esterno che non è detto che si verifichi, di diventare un uomo, ma non sono un uomo in potenza.

Come si può vedere, qui Severino non distingue, come invece fanno gli “amici dell’embrione” sulla scorta di Aristotele, la potenza attiva dalla potenza passiva.[16] Solo in base a questa mancata distinzione Severino può sostenere, ambiguamente, che “l’insieme dei due gameti separati [non] ha la capacità di diventare uomo” (116). Se dunque la capacità del seme di unirsi all’ovulo non equivale alla capacità di diventare uomo (85), ne deriva che per gli amici dell’embrione “nemmeno l’unione dei gameti maschile e femminile ha la capacità di diventare uomo, perché tale unione concorre a costituire ciò che [...] non è più soltanto capace di diventare uomo, ma è già uomo. (Stiamo parlando, infatti, della capacità che cessa quando è realizzata – e che Aristotele chiamava potenza)” (85). Qui è davvero sorprendente che si affermi, come fa Severino, che per gli “amici dell’embrione” l’unione dei gameti non ha la capacità “di diventare uomo” “perché” (dunque “in ragione del fatto che”) questa unione costituisce ciò che “è già uomo”. Severino sembra non accorgersi dell’effetto boomerang del suo ragionamento. E infatti, per chi ritiene che l’unione dei gameti costituisce ciò che è già uomo, la potenzialità di diventare uomo (più che l’uomo in potenza) si trova precisamente nei due gameti separati, dal momento che è proprio la loro unione che fa cessare quella potenzialità traducendola nell’uomo in atto.

A chi gli obietta che la separazione in atto dei gameti corrisponde alla loro unità in potenza (115), Severino risponde che, se così fosse, dovremmo dire che è possibile che essi si uniscano e, insieme, che è possibile che essi non si uniscano, laddove “questa duplice possibilità non può essere la loro unità in potenza” (117). Anche quest’ultima conclusione sorprende, dal momento che lo stesso Severino aveva costantemente ribadito, per sostenere la sua concezione della potenza come categoria autocontraddittoria, che ogni potenza è potenza dei contrari.  

Possiamo dire, dunque, che la potenzialità passiva di diventare uomo si trova nei gameti separati, laddove l’uomo in atto, che fa cessare quella potenza, è presente a partire dall’unione dei due gameti (l’embrione). È qui che si trova la risposta alla domanda – che Severino rivolge agli “amici dell’embrione” – di indicare dove mai si trovi l’uomo in potenza che precede l’uomo in atto che è l’embrione.

Alla domanda di Severino si può dunque rispondere facilmente dicendo che l’uomo in potenza si trova nei gameti maschile e femminile, considerati separatamente, così come la farina, il lievito e il sale (a loro volta considerati separatamente) sono il pane in potenza. Di fronte a questa affermazione, che è precisamente la risposta alla domanda circa il luogo in cui si trovi l’uomo in potenza prima di diventare uomo in atto, lo spavaldo argomentare di Severino comincia ad arrancare. E infatti, tutto ciò che egli ha da controbattere è che questa affermazione “non è una delle premesse della dottrina della Chiesa, la quale allora dovrebbe ammettere [...] che un uomo possa essere stato in organismi così diversi come lo sono il gamete maschile e quello femminile” (107). Questa pagina di Severino è esemplare del suo stile e di alcune strategie retoriche praticate nel testo. Vediamole.

1) Come spesso viene fatto in bioetica, quando non si trovano argomenti di fronte a chi sostiene razionalmente che l’embrione è un essere umano in atto, si invocano la Chiesa e le sue presunte incoerenze, confidando nel fatto che spesso chi ritiene l’embrione un essere umano è anche un credente cattolico. Ma qui la Chiesa non c’entra. Tirarla fuori insieme alla dottrina di Tommaso (107), che la Chiesa tra l’altro su questo punto non accetta (e Severino lo sa) equivale a uno spostamento di discorso che serve a mascherare la propria incapacità di rispondere all’argomento avversario sul piano in cui l’argomento si è espresso, e cioè su un piano strettamente filosofico.

2) Secondo Severino “è assurdo, per la filosofia della Chiesa” che un uomo possa essere stato in potenza in organismi così diversi come lo sono il gamete maschile e quello femminile. Qui Severino confonde il proprio concetto di potenza (come qualcosa di impossibile) con quello della dottrina della Chiesa. E infatti, solo se è impossibile che l’uomo possa esistere in potenza prima di esistere in atto come embrione è assurdo che l’unione di due gameti (che non sono ancora uomo) possa dar luogo a un embrione (che è già uomo). La Chiesa è dunque coerente rispetto alle premesse della sua dottrina, e cade in assurdità solo se tra queste premesse si introduce quella di Severino, che la Chiesa, così come larga parte della storia del pensiero, non ha mai accettato. Insomma, è davvero assurdo, come ritiene Severino, che la possibilità di diventare uomo si trovi nella possibilità che un gamete maschile umano (con 23 cromosomi) si unisca a un gamete femminile umano (con altri 23 cromosomi) per formare un embrione umano (con 46 cromosomi)?            

3) Severino ritiene che l’argomento dei gameti appena riportato confonde “la capacità (potenza) di unirsi a ciò insieme a cui si costituirà la potenza di esser uomo, con la capacità (potenza) di essere uomo” (108). Ma chi sostiene l’argomento dei gameti non sostiene che nei gameti c’è la possibilità di unirsi costituendo la potenza di esser uomo, dal momento che l’embrione non è potenza di essere uomo ma uomo in atto[17]. Ciò significa che l’argomento dei gameti sostiene che in ciascun gamete c’è la possibilità di unirsi a ciò insieme a cui si costituirà l’uomo in atto e non semplicemente in potenza. Se dunque Severino vuole una risposta alla domanda dove mai si trovi la capacità di esser uomo, allora dovrebbe ascoltare le risposte di chi gli indica i gameti, senza modificarle a proprio vantaggio nel momento decisivo, quando cioè queste risposte giungono alla conclusione che la capacità di diventar uomo dei gameti cessa nel momento in cui i gameti si uniscono formando l’uomo in atto (e non la potenza di essere uomo, come invece inspiegabilmente riporta Severino nella precedente citazione di p. 108 privando la risposta dei suoi critici del passaggio decisivo)[18].

Severino insiste, e aggiunge un’altra obiezione alla risposta che indica i gameti. Secondo la filosofia aristotelica degli “amici dell’embrione”

 

un uomo può nascere solo se, prima di esso, esiste qualcosa che la capacità (o “potenza”) di diventare uomo. Si badi: qualcosa di unitario. Tale principio vale anche per altre forme di “generazione”. E così: una statua può essere prodotta solo se, prima di esserlo, esiste, poniamo, un blocco di marmo capace di diventare una statua (per opera dello scultore). Se il blocco fosse in frantumi, nessuno di essi, e nemmeno il loro insieme, avrebbe la capacità di diventare quella statua. Per produrre quella statua bisogna che le parti del blocco non siano frantumi, ma unite; ossia che il blocco sia qualcosa di unitario. [...] pertanto [...] se, prima della nascita dell’essere umano, non esistesse qualcosa di unitario, avente la capacità di diventare un uomo (se cioè non esistesse un uomo “in potenza”), la nascita di uomini sarebbe impossibile (90-91).

 

Secondo Severino gli “amici dell’embrione” non sono in grado di indicare qualcosa di unitario che non è ancora l’uomo e che però ha la capacità di diventarlo. Le uniche realtà disponibili che potrebbero vantare questa capacità di diventare uomo sono lo spermatozoo e l’ovocita. Ma, come abbiamo visto,  spermatozoo e ovocita non hanno, singolarmente presi, la capacità di diventare un essere umano, ma solo la capacità, come i frammenti di marmo, di unirsi l’uno all’altro: “un ente unitario che sia uomo in potenza, e che non può essere sperma e ovulo separati, ci deve pur essere da qualche parte, perché altrimenti non potrebbe mai realizzarsi l’uomo in atto” (56).  E poiché questo ente unitario non si è in grado di trovarlo, la conclusione implicita del ragionamento degli “amici dell’embrione” sarebbe, ancora una volta, controproducente: “Sostenendo che fin dal momento della fecondazione esiste un uomo ‘in atto’, [...] [si] viene a negare (contro le proprie intenzioni) l’esistenza della capacità, da parte di qualcosa di unitario, di diventare un uomo; e da questa negazione segue ciò che anche per [...] [gli amici dell’embrione] è un assurdo, cioè che non potrebbe nascere alcun uomo. Ma gli uomini nascono. Dunque ciò che provoca questo assurdo è impossibile, ossia è impossibile che sin dall’inizio l’embrione sia un uomo” (92-93). 

Di fronte a quest’ultima deduzione si potrebbe osservare, come abbiamo già fatto a proposito dei due precedenti argomenti, che il discorso di Severino presenta una struttura logica puramente formale, che può facilmente essere invertita di segno. Al sillogismo severiniano può essere infatti opposto il seguente contro-sillogismo: sostenendo che per essere uomini in atto si debba prima essere stati uomini in potenza in qualcosa di unitario (che cioè non deve unirsi ad altro per trasformarsi in uomo in atto), Severino viene a negare la capacità, da parte dello spermatozoo, di diventare uomo in atto unendosi all’ovocita. Ma da questa negazione segue ciò che anche per Severino è un assurdo, cioè che nessuno spermatozoo unendosi all’ovocita diventi embrione e poi uomo. Ma questo accade. Dunque ciò che provoca questo assurdo è impossibile, ossia che per essere uomini in atto si debba prima essere stati uomini in potenza in qualcosa di unitario.

Severino si ostina a ritenere che l’uomo in potenza non possa trovarsi nei gameti separati, ma debba esistere come qualcosa di unitario, e cita, per confermarlo, Meth. IX, 7, dove Aristotele afferma che “la terra [qui paragonata ai gameti] non è ancora statua in potenza [qui paragonata all’uomo], ma deve trasformarsi e divenir bronzo” (108, parentesi mie). Ma il corrispettivo del gamete, nella prospettiva degli “amici dell’embrione”, è il bronzo (a cui deve unirsi lo scalpello dello scultore perché esso si trasformi da statua in potenza a statua in atto) e non la terra (alla quale può essere paragonato invece il materiale genetico di cui sono costituiti i gameti).

Infine, se davvero gli “amici dell’embrione” sostenessero ciò che attribuisce loro Severino, e cioè che una sostanza per esistere deve prima esistere in potenza in qualcosa di unitario, senza che dunque questo qualcosa debba unirsi ad altro per far esistere la sostanza in questione, allora essi dovrebbero negare, come invece non fanno, l’esistenza di tutto ciò che si genera per composizione: il pane, per esempio, non potrebbe mai esistere in atto, poiché esso deriva dall’unione di più elementi (lievito, farina e sale) e non da un “pane in potenza” unitario che, poi, si trasforma in pane in atto[19]. La maggior parte delle realtà esistenti, in effetti, risulta dalla composizione di elementi che, isolatamente presi, non sono ancora quelle realtà.

Concludendo l’analisi di questo terzo argomento si può notare, come giustamente è stato fatto, che Severino “non riesce a pensare all’essere in potenza se non immaginandolo come una specie di ‘esserino’ che sta dietro all’essere in atto. Ma la potenza, in quanto tale, non è: ciò che esiste è solo ciò che è in atto. La potenza, infatti, è sempre e soltanto potenza di qualcosa che è già in atto [...] e serve per esprimere il fatto del divenire: un embrione è un essere umano in atto che ha in sé la potenza di diventare feto, bambino, adulto, ecc. Perciò l’uomo in potenza non esiste (se esistesse sarebbe già in atto)”[20]. Da ciò deriva, coerentemente, che “uomini in atto hanno la potenza di far essere altri uomini, cioè di generare e fare figli, ma fare figli non significa ricavare uomini in atto da uomini in potenza: prima dell’embrione, uomo in atto, non c’è l’embrione uomo in potenza, ci sono ovociti e spermatozoi”[21].

Si deve allora dire che, come la farina in atto (con potenza passiva di diventare pane) e il lievito in atto (con potenza passiva di diventare pane) unendosi danno luogo al pane in atto, allo stesso modo lo spermatozoo in atto (con potenza passiva di diventare uomo) e l’ovocita in atto (con potenza passiva di diventare uomo), unendosi, danno luogo a un uomo in atto allo stadio iniziale della sua vita.

 

 

6. Se il fatto di poter esistere da parte dell’embrione obblighi moralmente coloro che possono generarlo a farlo esistere

 

Trattando della questione dell’eventuale liceità del sacrificio degli embrioni umani per il prelievo delle cellule staminali, Severino scrive:

 

anche qualora si concedesse che l’embrione è persona umana fornita di tutti i diritti dell’uomo adulto, e che quindi la sua uccisione è omicidio, anche in questo caso il problema non verrebbe chiuso, nemmeno dal punto di vista cattolico, perché la dottrina della Chiesa ammette il sacrificio di esseri umani per il bene comune. E se la Chiesa ammette, per il bene comune, ad esempio il sacrificio di soldati che combattono una guerra giusta, e che quindi sono presumibilmente innocenti, non si vede quali motivi impediscano di assimilare il sacrificio dell’embrione al sacrificio del soldato, visto che anche l’embrione sarebbe sacrificato per il bene comune, cioè per la collettività dei sofferenti (20-21).

 

Severino non vede quali motivi impediscano di assimilare il sacrificio di embrioni umani nella speranza di trovare cure per alcune malattie al sacrificio che dei soldati possono fare della loro vita per difendere la patria. Eppure, una volta che si sia concesso (come fa Severino) che l’embrione è un soggetto umano, la differenza tra i due casi risulta di solare evidenza: mentre è un atto eroico decidere in modo consapevole e libero di offrire la propria vita (come fa il soldato) perché da questo gesto possa scaturire la salvezza di altri, è profondamente ingiusto sacrificare la vita di altri nostri simili (gli embrioni) approfittando del fatto che sono inconsapevoli. Un conto è insomma offrire la propria vita, altro conto è sacrificare quella di un altro (anche se destinato certamente alla morte come l’embrione congelato), senza informarlo e chiedere il suo consenso[22].

       Stranamente Severino non si avvede di questa elementare differenza e procede oltre, sostenendo che chi condanna l’aborto dovrebbe condannare anche l’astinenza sessuale, perché essa lascerebbe nel nulla la persona che sarebbe potuta nascere con l’atto sessuale. Nel discorso sviluppato alle pp. 64-67, Severino ripete una frequente obiezione rivolta a coloro che ritengono moralmente discutibile la fecondazione artificiale alla luce dei diritti del nascituro. Secondo questa obiezione sarebbe paradossale rispettare il diritto di qualcuno impedendogli di venire al mondo, non tenendo conto del fatto che è sicuramente meglio nascere, anche tramite fecondazione artificiale, piuttosto che non nascere affatto[23]. Così, criticando l’idea che si debba rinunciare a concepire un figlio in provetta o che si possa rinunciarvi anche naturalmente, Severino giunge ad affermare che “l’omicidio più radicale [...] è [...] quello compiuto da coloro che, credendo che l’embrione sia già persona umana, e volendo quindi evitare che sia ucciso, ritengono che alla sua uccisione sia preferibile non farlo nascere, cioè lasciarlo definitivamente ed eternamente nel nulla” (66).

Severino, naturalmente, non ammettendo alcun passaggio dal non essere all’essere, ritiene che questa obiezione valga solo all’interno dell’orizzonte della “follia”, ovvero di quella concezione secondo la quale un ente avrebbe sia la possibilità di incominciare a esistere, sia la possibilità di rimanere eternamente un nulla (cfr. 105). In realtà, l’obiezione secondo cui “è meglio esistere (geneticamente migliorato o tramite fecondazione artificiale) piuttosto che non esistere affatto” non funziona proprio alla luce della concezione che Severino ritiene folle. Infatti, colui di cui si parla qui, non esiste. Pensare che chi non esiste, se davvero non esiste, possa subire danno dalla non esistenza, si fonda su una finzione astratta, che consiste nell’immaginare qualcuno, che ancora non esiste o non esisterà mai, posto di fronte all’alternativa tra esistere e non esistere[24]. Non è possibile stabilire alcuna continuità, neanche logica, tra chi non esiste ancora e chi esisterà. Chi viene concepito, infatti, non è qualcuno che, prima di essere concepito, passa dalla non esistenza all’esistenza. Il “non esistere ancora” di Tizio può essere predicato di Tizio solo a posteriori, con un riferimento a ritroso che parte dal momento in cui Tizio già esiste. Dunque non si può dire, di fronte a una coppia che si rifiuta di concepire (in vitro o anche naturalmente), che chi sarebbe stato concepito rimane costretto a non esistere. Nella non esistenza non c’è qualcuno di ben determinato che subirebbe danno o giovamento per il fatto che non sarà o sarà concepito. Il passaggio dall’esistenza alla non esistenza, quando riguarda un soggetto concreto, non ammette gradi intermedi, come se chi non esiste potesse stare in attesa di esistere per poi, una volta ottenuta l’esistenza, poter paragonare la sua condizione attuale con quella in cui non esisteva, magari sentendosene minacciato. Rinunciare a concepire, insomma, non equivale a danneggiare alcun essere umano che rimarrebbe, a causa dei nostri tabù morali, imprigionato nella non esistenza.

C’è chi ritiene che stando a questa tesi “dovremmo concludere che chi viene ucciso non subirebbe mai un danno, in quanto non passa in una condizione peggiore (non esistendo più, infatti, non può trovarsi in una situazione migliore o peggiore rispetto a un’altra)” [25]. Una differenza, in realtà, c’è: una cosa è la non esistenza provocata dall’omicidio, che rappresenta un danno perché elimina chi già esiste, altra cosa è la non esistenza di chi non esiste, il quale può risultare beneficato dall’esistenza solo nella misura in cui continua a vivere una volta che esiste e non perché comincia a esistere rispetto a un tempo in cui non esisteva. Quanto diciamo non esclude, chiaramente, l’idea che la vita sia per stessa un bene, ma solo che si possa parlare di coloro che non esistono come di soggetti ingiustamente privati di questo bene.

       Ignorando queste implicazioni, Severino sostiene invece che l’etica cattolica “produce” l’assenza dal mondo di coloro che sarebbero potuti nascere senza i divieti di quell’etica. E, anche qualora costoro nascessero, rimarrebbero atterriti all’idea che sarebbero potuti rimanere nel nulla in ossequio alla morale cattolica (39). Inoltre, aggiunge Severino – che qui riporta alcune osservazioni di Jürgen Habermas sulla genetica – è vero che chi nasce con certe caratteristiche genetiche stabilite dai genitori potrebbe lamentarsene, ma è anche vero che potrebbe lamentarsene chi non le ha ricevute, laddove i suoi genitori potevano invece donargliele (40-41). Qui Severino non si accorge, ancora una volta, di attribuire all’etica che egli sta criticando un’idea esattamente contraria a quella da essa effettivamente sostenuta, e cioè che esista una responsabilità diretta dei genitori nei confronti delle caratteristiche genetiche di coloro che vengono concepiti. E infatti, i genitori sarebbero chiamati a rendere conto e ragione delle caratteristiche genetiche dei loro figli solo se, in linea di principio, essi fossero moralmente obbligati a migliorarle e, invece, non lo facessero: ovvero solo se si accetta quello che, invece, l’etica criticata da Severino rifiuta.

 

 

7. Conclusione

 

Riferendosi al pensiero di Severino, Enrico Berti ha fatto notare che mentre “alcuni lo accettano in blocco, dichiarandosene entusiasti come di una nuova rivelazione, altri lo respingono ugualmente in blocco, considerandolo una specie di mostruosità, ma quasi nessuno lo sottopone a una critica rigorosa, capace di distinguere dove le sue argomentazioni ‘reggono’ e dove, eventualmente, non reggono”[26]. Ci piace pensare che le riflessioni sviluppate in questo contributo, pur con i suoi inevitabili limiti, siano state un tentativo di questa “critica rigorosa”, che non respinge pregiudizialmente l’impostazione dell’interlocutore, ma entra in merito a ciò che egli effettivamente sostiene e al modo in cui lo sostiene. Il nostro contributo, d’altronde, non aveva la pretesa di dimostrare che l’embrione umano è già una persona. Il nostro intento, più limitato, era solo quello di evidenziare come gli argomenti che Severino usa per cogliere in fallo “gli amici dell’embrione” mancano il bersaglio. Dal modo in cui abbiamo cercato di documentare questo fallimento crediamo sia anche emerso come tali argomenti, risultando esclusivamente logico-dialettici, sono inadeguati non solo per risolvere ma anche semplicemente per affrontare un tema non puramente formale come quello dello statuto dell’embrione umano. Severino sembra infatti pretendere che l’uomo concretamente esistente, per essere veramente tale, debba essere una sorta di “atto puro”, senza alcuna potenzialità di sviluppo. Questa pretesa è coerente con l’impostazione parmenidea del suo pensiero, che, lo abbiamo visto, ritiene impossibili il divenire e la potenza. Eppure l’essere vivente, in quanto tale, è, per definizione, ciò che rimane lo stesso nel divenire delle sue forme. Come ha scritto Romano Guardini:

 

il modo di esistere del vivente proviene da un inizio semplice, ossia dalla divisione di una cellula o dall’unione di due, passa attraverso una serie di trasformazioni fino al pieno svolgimento morfologico […]. Questi singoli stadi però – e ciò è essenziale – non si susseguono l’uno dopo l’altro in una serie esteriore, ma formano un tutto, una forma [Gestalt] nel senso stretto del termine. Ciò che chiamiamo organismo, da questo punto di vista, ha due forme per manifestarsi. Una sincronica […] [chiamata] “forma strutturale” [Baugestalt] [e una] diacronica [che chiamiamo] “forma in divenire” [Werdegestalt]. Da parte loro entrambe le forme, quella strutturale e quella in divenire, si coappartengono, vale a dire rappresentano entrambe […] l’organismo, la prima nello spazio, l’altra nel tempo […]. “L’albero” [per esempio] è quella figura che ha la sua presenza nello spazio, disposta in radici, tronco, rami, fogliame – ma è pure quella serie di fasi che vanno attuandosi nella successione temporale di seme, embrione, pianticella, albero adulto pienamente sviluppato. L’albero, in ogni fase sempre identico a se stesso, si attua interamente soltanto nella serie completa fino all’ultimo morire della radice. Sostenere che l’essere da noi considerato incominci a esser se stesso solamente quando ha già percorso un certo numero di forme evolutive, sarebbe piatto meccanicismo, essendo posta in tal caso una somma di particelle in luogo di una totalità vivente[27].

L’importanza attribuita da Severino al pensiero logico, irrigidito nella sue impalcature formali, è francamente eccessiva e dunque inadeguata a descrivere, rispettandone la dinamica, l’essere vivente[28]. Il risultato è che la logica, non essendo qui utilizzata per esprimere la struttura del vivente così come esso ci appare, finisce per negare che esso sia così come ci appare. Questa sorta di cecità filosofica nei confronti dell’esperienza dipende da una cattiva interpretazione della vocazione critica della filosofia di fronte al senso comune. La filosofia, infatti, è tale quando approfondisce il senso dell’evidenza, mostrando, per esempio, ciò che di essa non si vede immediatamente (non sempre, infatti, l’evidenza si spiega da sé, potendo essere compresa solo se rimanda ad altro), ma non può, senza tagliare il ramo sul quale è seduta, contraddire l’evidenza. Ora, forse proprio la questione dell’embrione umano dimostra, meglio di ogni altra, come il discorso di Severino sia scarsamente persuasivo. Credere di poter rimuovere certe evidenze a colpi di sillogismi equivale a una pretesa destinata a fallire. In base agli schemi logici di Severino un feto non sarebbe un uomo. Eppure, chiunque abbia visto un’ecografia di un feto anche solo alla quinta settimana potrà rendersi conto, abbastanza facilmente, che Severino, invitandoci a diffidare dei nostri occhi per confidare invece sui suoi sillogismi, ci chieda onestamente un po’ troppo.

 

 

 


 


[1] E. SEVERINO, Sull’embrione, Rizzoli, Milano 2005 (il testo riprende e in certi casi approfondisce questioni già trattate in Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Rizzoli, Milano 2003). D’ora in poi alle citazioni tratte da Sull’embrione seguirà, tra parentesi, il numero di pagina.

[2] Seguiamo, qui, la sintesi sul pensiero di Severino contenuta in N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, vol. X, La filosofia contemporanea 4, UTET, Torino 1994, pp. 340-343.

[3] Cfr. E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 19-61.

[4] “La totalità del possibile è pertanto eternamente esistente e qualcosa di essa va via via manifestandosi” (104). Non è questo il luogo per discutere la plausibilità del discorso di Severino, tuttavia, ci si può limitare a citare una acuta osservazione, non priva di ironia, di Bacchini: “A che serve dire che il minestrone che mangeremo è eterno e preesiste da sempre alla sua apparizione sulla nostra tavola, se poi occorre dire – come Severino fa – che gli eterni ci appaiono entrando «nella totalità manifesta degli eterni» (ovvero in una specie di palcoscenico degli eterni) e che scompaiono dalla nostra vista uscendovi? "Entrare" o "sopraggiungere", così come "uscire", non sono infatti forme del divenire? Un eterno che si trovava fuori dalla totalità manifesta degli eterni, e che vi entra, non è forse un eterno che da eterno-fuori-della-totalità-manifesta diventa un eterno-dentro-la-totalità?” (F. BACCHINI, L’embrione del filosofo, su www.larivistadeilibri.it).

[5] Cfr. A. PESSINA, L’identità personale dell’embrione umano, “Studi Cattolici” 530, aprile 2005, pp. 249-254.

[6] Cfr. Ivi.

[7] Cfr., tra i tanti, R. DE MATTEI, La premessa sbagliata con la quale il prof. Severino vuole ingannarci, “Il Foglio”, 4 dicembre 2004.

[8] Purtroppo in Sull’embrione, Severino, che è, a detta di tutti, un filosofo geniale, si lancia con disinvoltura su un terreno che non è il suo, quello della bioetica. Il risultato è un confuso intreccio di argomenti che non tiene conto di alcuni elementari e imprescindibili presupposti di ogni dibattito sullo statuto dell’embrione: il riferimento ai dati scientifici (da Severino invece snobbati come semplici “ipotesi”) e alla tensione problematica tra i concetti di “essere umano” e di “persona” (sulla quale Severino tace).   

[9] Così Severino, simpaticamente, chiama i sostenitori dell’umanità dell’embrione. Per comodità espositiva utilizzeremo anche noi la stessa espressione.

[10] Severino fa notare come il concetto di potenza (o di capacità), abbia influenzato profondamente la cultura occidentale in tutti i campi. E nello specificare in che cosa esso consista, aggiunge che, con Aristotele, esso indica “che la capacità esiste anche prima di essere esplicata o messa in pratica” (43). Già questa definizione è però una tautologia che non corrisponde alla definizione aristotelica. Dire che la “capacità” esiste prima di realizzarsi, infatti, è un modo diverso di dire che la capacità è una capacità, e cioè qualcosa che, appunto per definizione, esiste prima di realizzarsi. In realtà, a esistere prima di realizzarsi non è per Aristotele la capacità o la potenza (come è naturale che sia), ma ciò di cui la capacità è capacità: nello scienziato che dorme la scienza esiste anche in assenza del suo esercizio attuale, ed è per questo che egli ne è “capace” (Meth. IX 1048a 33-35). Lo stesso Severino lo ammette quando, dopo aver citato l’esempio del bambino che “è capace di diventare adulto anche prima che lo divenga effettivamente” (43), aggiunge che per Aristotele ciò che è “capace di essere o di fare qualcosa” “è ‘in potenza’ tale essere o fare” (ibidem).

[11] G. SAMEK LODOVICI, I sofismi di un filosofo, “Il Timone”, 40, febbraio 2005, pp. 32-33.

[12] A meno che non si voglia dire che l’embrione è uomo “in potenza” nel senso che deve ancora sviluppare e manifestare le sue caratteristiche umane ma non la sua natura di essere umano, come fa E. BERTI, Quando esiste l’uomo in potenza? La tesi di Aristotele, in M. MORI (a cura), Quale statuto per l'embrione umano. Problemi e prospettive, Politeia, Milano 1992, pp. 52-58.          

[13] G. SAVAGNONE, Metamorfosi della persona. Il soggetto umano e non umano in bioetica, Elle di ci (Leumann), Torino 2004, pp. 98-99.

[14] E ancora: se, come sostiene Severino, l’uomo in potenza è “uomo e non-uomo” per il fatto di poter sempre morire, allora dobbiamo dire che l’uomo in potenza diventa uomo in atto solo quando esclude il suo opposto, quando cessa di essere “non-uomo” in potenza e diventa “non-uomo” in atto. La conclusione è che per diventare uomo in atto l’uomo in potenza deve morire, poiché soltanto morendo l’uomo in potenza esclude la possibilità di diventare non-uomo. Infatti, come ricorda Severino, la potenza cessa di essere tale quando si traduce in atto. Questa strana conclusione deriva dalla deformazione dei concetti aristotelici di atto e potenza di cui Severino crede responsabili i sostenitori dell’umanità personale dell’embrione.

[15] Il fatto stesso che Severino si senta in dovere di formulare un altro argomento, ben diverso dai primi due, dimostra, forse, che i primi due argomenti non sono così convincenti e “decisivi” come si vorrebbe far credere.

[16] Si ricordi che Aristotele distingue la “potenza attiva” (potenza di agire, per esempio di riscaldare da parte del fuoco), dalla “potenza passiva” (potenza di subire, per esempio di essere riscaldato da parte del ferro).  

[17] In un passaggio del suo testo Severino sembra riconoscere che la vera tesi degli amici dell’embrione è questa (cfr. p. 111), tuttavia, egli non trae fino in fondo le conseguenze di questa ammissione.

[18] Forse non è elegante, dopo quanto abbiamo evidenziato, che Severino presenti l’interlocutore che gli obietta l’argomento dei gameti come uno che “non capisce il senso e le immediate implicazioni” (108) di ciò che dice. Severino, purtroppo, ama spesso dare l’impressione di comprendere la dottrina della Chiesa meglio di quanto la Chiesa comprenda se stessa, ripetendo la mossa con le tesi di tutti gli studiosi cattolici.

[19] Gli esempi si possono moltiplicare: non potrebbero esistere uomini in atto perché non c’è un uomo in potenza che poi diventa in atto senza unirsi ad altro; non potrebbe esistere il colore arancione in atto, perché l’arancione è costituito dall’unione di giallo e di rosso ecc.

[20] A. PESSINA, L’embrione e l’uomo, tra potenza e atto, “Avvenire”, 15 dicembre 2004.

[21] Ivi.

[22] Cfr. G. M. CARBONE, Le cellule staminali. Che cosa sono? A cosa servono? È lecito usarle? ESD, Bologna 2005, p. 24.

[23] Cfr. M. MORI, La ‘novità’ della bioetica, in S. RODOTÀ (a cura di), Questioni di bioetica, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 397-420, 410.

[24] Cfr. P. CATTORINI, Bioetica. Metodo ed elementi di base per affrontare problemi clinici, Masson, Milano 1996, p. 114.

[25] M. BALISTRERI, voce “Danno da procreazione” in E. LECALDANO [a cura di], Dizionario di Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 73.

[26]  E. BERTI, Critica all’interpretazione neoparmenidea dell’Occidente, in ID., Le vie della ragione,  Il Mulino, Bologna 1987, pp. 209-226.

[27] R. GUARDINI, Das Recht des werdenden Menschenlebens. Zur Diskussion um den Paragraph 218 des Strafgesetzbuches, 1-5 Tsd, Wunderlich, Tübingen-Stuttgart 1949; tr. it. Il diritto alla vita prima della nascita, a cura di O. Brino, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 26-29.

[28] L’ipertrofia formalistica del pensiero di Severino è ben evidenziata da Bacchini quando scrive: “Severino nega che esista il divenire perché lo dice il verbo ‘essere’. Tutto ciò è triste. Concludere che il divenire non esiste perché altrimenti la legna sarebbe non-legna [quando diventa cenere] è tanto ingenuo quanto concludere che la casa è fatta di quattro lettere” (F. BACCHINI, L’embrione del filosofo, cit., parentesi mie).

 
 
     
     
 
 
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