|
Editoriale
Quando
il senso della giustizia salva la ragione
È stato giustamente detto
che la bioetica, benché sia di moda, non è una moda (A.
Pessina). In effetti, i più recenti eventi di cronaca
hanno dimostrato la bruciante attualità delle tematiche
della vita e della morte pur non potendo esprimere, nella
puntualità della notizia mediatica, il loro spessore
problematico. Da qui la necessità di riflettere su tali
tematiche al di là dell’immediatezza con la quale esse
vengono consumate dal lettore dei quotidiani e dallo
spettatore dei telegiornali, quasi sempre costretti ad
assistere a una carrellata di opinioni che, a causa della
rapidità con cui vengono diffuse, sembrano dipendere più
dall’impostazione politica di chi le esprime che da un
tentativo di cogliere l’autentico significato
dell’accaduto. Di fronte a eventi come il caso Piergiorgio
Welby e il caso Saddam Hussein, per citare i più vistosi,
succede pertanto che ci si schieri “a favore” o “contro”
senza che il proprio personale giudizio abbia avuto il
tempo di maturare nei tempi e nei modi richiesti dalla
complessità delle questioni coinvolte.
Come già Angelo Cafaro e
Fulvio Di Blasi scrivevano nel primo Editoriale della
nostra rivista (cfr. Archivio numero 0), la
bioetica si presenta come un tentativo di superare le
reazioni puramente emotive, alla ricerca di un giudizio
che possa maturare da un’attenta e sincera analisi delle
questioni che anche l’attualità mette in gioco. Questo non
significa, si badi, che le reazioni immediate in presenza
di certi eventi – come per esempio quella di generalizzata
indignazione che ha preso la maggior parte di noi di
fronte al video dell’esecuzione di Saddam Hussein – non
possano avere una loro intrinseca razionalità. Chi non è
capace di indignarsi spontaneamente di fronte a certe
azioni che violano la dignità della persona umana e ha
magari bisogno di “riflettere” prima di decidere se
indignarsi o meno, probabilmente è una persona meno
razionale, dal punto di vista morale, di una persona che
invece, di fronte alle stesse azioni, si indigna
istantaneamente senza bisogno di riflettere. Un giudizio
morale a cui si giunge mediante una reazione emotiva può
essere più razionale di un giudizio morale a cui si giunge
dopo un’accurata riflessione. Ma, appunto, per scoprire
una tale razionalità non basta reagire emotivamente ma è
necessario riflettere.
La bioetica, dunque, vive
anche dei nostri sentimenti morali, in uno sforzo di
purificazione da tutto ciò che di irrazionale essi
rischiano sempre di contenere. Proprio i casi Welby e
Saddam sono stati esemplari al riguardo. In alcuni settori
della vita politica e culturale – non solo del nostro
Paese – è emersa infatti una concezione dei diritti umani
che sembra basarsi esclusivamente su reazioni emotive,
suscitate e alimentate dal potente impatto delle immagini.
Come è noto, dopo l’esecuzione in Iraq dell’ex dittatore,
il governo italiano, ammesso temporaneamente nel Consiglio
di Sicurezza dell’ONU, si è fatto interprete del
sentimento di rifiuto della pena di morte proponendo una
moratoria internazionale delle esecuzioni capitali. Molti
dei sostenitori di questa moratoria hanno anche promosso,
in Italia, una campagna perché venisse riconosciuto il
“diritto di morire” a pazienti in condizioni di salute
ritenute indegne di essere vissute, oltre a essersi
battuti, nell’estate dello scorso anno, perché venisse
revocata la partecipazione dell’Italia a quella “minoranza
di blocco” in sede di Unione Europea che, rifiutandosi di
finanziare la ricerca sulle cellule staminali embrionali,
avrebbe impedito l’eliminazione di migliaia di embrioni
umani. Poiché in questo caso una stessa linea di pensiero
ha affermato il diritto alla vita del dittatore, il
diritto alla morte del malato e il dovere di
morire a beneficio della scienza per gli embrioni
umani, in molti hanno fatto notare l’insostenibile
contraddizione di una cultura che mentre difende la
vita di criminali come Saddam Hussein promuove lo
sterminio di esseri umani innocenti come i malati e gli
embrioni.
Evidenziare questa
contraddizione, a ben vedere, non costituisce un argomento
decisivo contro questo tipo di prospettiva. Chi ritiene
che gli embrioni umani e Welby debbano morire mentre
Saddam Hussein debba vivere non vede in ciò alcuna
contraddizione poiché l’assunto da cui parte è quello –
notoriamente teorizzato dalla bioetica procedurale di
matrice anglo-americana – secondo cui «il male,
nell’omicidio, non consiste nell’uccidere qualcuno, ma nel
farlo senza il suo permesso» (H. T. Engelhardt). Se il
principio è questo, non c’è alcuna contraddizione nel
difendere il criminale che non vuole morire e
nell’auspicare la morte dell’innocente che non vuole più
vivere, così come è moralmente lecito, anzi, doveroso,
tentare di trovare terapie efficaci anche se ciò provoca
la morte di embrioni umani. Questi ultimi infatti, si
afferma, non potendo esprimere il loro consenso mancano
del requisito minimo indispensabile per poter essere
riconosciuti soggetti degni di considerazione morale. La
contraddizione di cui si diceva, pertanto, è solo un
effetto di superficie che presuppone ben più profonde
concezioni della persona e della giustizia sulle quali è
dovere della bioetica puntare l’attenzione.
È proprio quando si
comincia a riflettere su tali concezioni della persona e
della giustizia che emerge quel peculiare intreccio di
convinzioni morali e reazioni emotive che rischia di fare
delle prime un mero rispecchiamento passivo delle seconde.
Il principio, apparentemente inattaccabile, secondo cui
non si può uccidere chi non vuole morire e non si può
costringere a vivere chi vuole morire conduce ad affermare
l’immoralità della pena capitale e la legittimità
dell’eutanasia e della distruzione degli embrioni umani
solo a condizione di non applicare un’adeguata riflessione
razionale alle nostre reazioni emotive più immediate. Se
ci fermiamo a queste ultime, infatti, le percezioni che
abbiamo di fronte a una provetta svuotata su un lavandino
e al cappio che si stringe intorno al collo di un feroce
dittatore non corrispondono all’uccisione di un innocente,
da un lato, e di un criminale, dall’altro, ma all’idea di
un gesto moralmente irrilevante nel primo caso e
dell’uccisione di una persona umana nel secondo. Allo
stesso modo, la proposta di accettare l’eutanasia
associata alla vista di una persona sofferente può
impedire di riflettere sulle alternative possibili. A
questo punto la domanda decisiva, che chiama in causa la
peculiarità della riflessione bioetica distinguendola dal
dibattito mediatico e politico, è questa: il fatto che la
pietà e la compassione siano sentimenti umanamente
autentici li rende, per ciò stesso, consiglieri
infallibili circa ciò che è giusto fare?
Spesso l’affermazione di
alcuni diritti, ovvero di esigenze la cui
soddisfazione si presenta come un atto dovuto
secondo giustizia, viene dedotta troppo
frettolosamente dalle nostre reazioni emotive. Non
dovremmo mai essere così sicuri che dal nostro sentimento
di compassione si possa dedurre ipso facto
l’esistenza del “diritto a morire” di colui che soffre.
Che cosa dobbiamo davvero a un malato che soffre,
che cosa esprime meglio la nostra pietà, la morte (un
iniezione di cloruro di potassio) o, piuttosto,
un’assistenza medica efficace unita a una solidarietà
adeguata alla sua condizione e alle sue sofferenze? Allo
stesso modo, non possiamo essere così sicuri che il
sentimento di indifferenza nei confronti di invisibili
embrioni umani rinchiusi in un congelatore implichi
l’inesistenza della loro identità personale. Il nostro
senso di giustizia e il nostro uso della ragione non
possono fermarsi solo a ciò che proviamo solo
perché lo vediamo. Dovrebbe far pensare, da questo
punto di vista, il fatto che la mobilitazione umanitaria
che c’è stata per Saddam Hussein non ci sia stata invece
per le sue vittime e per tutti i condannati per delitti
comuni che ogni giorno vengono giustiziati in altri Paesi.
Naturalmente ciò non è accaduto perché gli oppositori
della pena capitale non riconoscessero anche alle vittime
del raìs un diritto alla vita, ma a causa della
mancanza di visibilità mediatica di queste ultime, che non
hanno potuto contare, per così dire, sul nostro sentimento
di pietà. Di questo è bene essere consapevoli, non tanto
per rinunciare alla propria battaglia contro la pena
capitale, quanto, piuttosto, per evitare la brutta
impressione che questa battaglia non sia guidata dal senso
della giustizia ma da un’incerta e contraddittoria vox
populi i cui contenuti sono decisi, di volta in volta,
dal potere mediatico.
Tutto considerato, la
prospettiva che promuove la dignità e i diritti della
persona umana dal concepimento alla morte naturale sembra
la meno sospetta e la più ragionevole, poiché non è
costretta a escludere nessuno dalla condizione di
soggetto titolare di diritti inalienabili, facendosi così
portavoce di un autentico senso della giustizia. Un senso
della giustizia che salva la ragione dal rischio di
appiattirsi sui nostri sentimenti di pietà, escludendo
ingiustamente tutti coloro che non sono nelle condizioni
di suscitarli. La prima forma di giustizia in effetti è
riconoscere l’uguale dignità di ogni persona umana: anche
di quelle che, non cadendo sotto il nostro sguardo o sotto
i riflettori dei media, non suscitano emozioni e
compassione. Uno dei grandi maestri della bioetica che in
Italia ama definirsi “laica”, Uberto Scarpelli, aveva
intuito che in bioetica non bastano né i sentimenti né il
ragionamento logico ma è necessario un particolare
esprit de finesse, che sia capace, aggiungiamo noi, di
discernere ciò che è giusto, vero e buono, nelle complesse
sfumature di un mondo fatto di immagini e di sentimenti a
volte confusi. Forse è proprio per la mancanza di questo
esprit de finesse che oggi trasformiamo i nostri
sentimenti in mensura rerum, facendone il
fondamento di una giustizia che, dimenticando la dignità e
i diritti di tutti coloro che non ci coinvolgono
emotivamente, rischia di coincidere con l’ingiustizia.
Il presente numero di
“Questioni di bioetica” ospita i contributi di tre dei
nove nuovi membri del comitato scientifico della rivista.
Giuseppe Savagnone delinea con sintetica efficacia alcuni
presupposti ricorrenti nelle dispute di bioetica,
evidenziando la necessità di ripensarli alla luce di una
maggiore attenzione a dimensioni spesso trascurate nel
dibattito, come la riscoperta del valore della ragione in
morale, il ruolo non puramente procedurale delle leggi e
la dimensione intersoggettiva e non individualistica della
libertà. Vittorio Possenti affronta invece il complesso
tema dell’identità della natura umana di fronte alle nuove
possibilità della genetica. In dialogo, tra gli altri, con
Jürgen Habermas e Francis Fukuyama, Possenti, dopo aver
fornito ampie motivazioni etiche e antropologiche,
conclude che la natura umana non solo non può essere di
fatto cambiata ma che, anche se lo si potesse, non sarebbe
moralmente lecito farlo. Salvino Leone, infine,
riattraversa il complesso percorso epistemologico della
bioetica, da un lato riconoscendo l’ampiezza dei confini
di una disciplina che coinvolge un intero universo
culturale e non soltanto un intreccio di discipline, e
dall’altro mettendo in guardia da tentazioni
riduzionistiche come il moralismo, il relativismo, il
proibizionismo e il confessionalismo. Seguono, come
sempre, una sezione dedicata a Recensioni e notizie,
la Rassegna stampa e le Novità bibliografiche.
Luciano Sesta |
|