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Recensioni:
Viktor
E. Frankl, Uno psicologo nei Lager, Ares, Milano
2005
Il testo, del 1967, è alla
sua quattordicesima edizione e si presenta, ancora oggi,
di grande attualità. L’autore descrive la sua esperienza
nei Lager, esperienza durante la quale egli ha
maturato il suo approccio alla psicologia e, più
precisamente, alla logoterapia, che l’ha reso famoso nel
mondo. Perché, davanti alla “condanna” del Lager,
alla prospettiva di una vita destinata a finire nella sola
dimensione “vegetativa”, unica dimensione che era data ai
prigionieri, spogliati di tutto, privati di un nome,
perché, dicevamo, questi uomini non si suicidarono tutti?
L’autore, oltre a darci una testimonianza della vita dei
Lager, ci interroga sul significato dell’esistenza
e della sofferenza. In un momento in cui si discute di
“qualità della vita” e di vite “degne” o meno di essere
vissute, il testo è ancor oggi di grande interesse.
La ricerca di senso di cui
tratta Frankl riguarda qualunque uomo, perché essa implica
ciò che, per definizione, non risparmia nessuno, ovvero
quell’esperienza della sofferenza e della morte che della
vita stessa fanno parte. Il merito di Frankl è quello di
aver evidenziato come, paradossalmente, sono proprio la
sofferenza e la morte a tenere “aperto” il senso nella
vita. Chi può dire, infatti, qual è la soglia oltre la
quale si perde il “senso” della vita? Del resto
proprio la vita da prigioniero mette l’autore di
fronte alla relatività del dolore e della felicità: come
dimostra il fatto che i
prigionieri di un distaccamento “invidiavano” la
condizione di un altro campo di lavoro o di un gruppo di
ergastolani. La «scala della felicità relativa» è
variegata, lo è sempre ed in circostanze diverse.
Particolarmente toccante è
il ricordo della moglie, la «contemplazione
dell’immagine spirituale della persona amata», che
fa riscoprire all’autore una libertà diversa, una
gioia che non è solo assenza di dolore: egli sperimenta se
stesso come essere «spirituale», dotato di libertà
interiore e valore personale che lo pongono al di sopra
delle circostanze biologiche o socio-ambientali. Egli
scopre di essere una «persona», unica ed irripetibile e di
avere la capacità di rispondere “sì”
alla vita anche nel momento del dolore. Ed è nella
risposta che siamo chiamati a dare non solo davanti alla
vita “attiva”, alla realizzazione creativa di valori ma
anche davanti al dolore, alla limitazione del nostro
essere, che l’uomo scopre il senso ultimo della vita,
della sofferenza e della morte.
Nicoletta Giganti |
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