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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 2 - Gennaio 2007 
     
 

Recensioni:

Viktor E. Frankl, Uno psicologo nei Lager, Ares, Milano 2005

 

 

Il testo, del 1967, è alla sua quattordicesima edizione e si presenta, ancora oggi, di grande attualità. L’autore descrive la sua esperienza nei Lager, esperienza durante la quale egli ha maturato il suo approccio alla psicologia e, più precisamente, alla logoterapia, che l’ha reso famoso nel mondo. Perché, davanti alla “condanna” del Lager, alla prospettiva di una vita destinata a finire nella sola dimensione “vegetativa”, unica dimensione che era data ai prigionieri, spogliati di tutto, privati di un nome, perché, dicevamo, questi uomini non si suicidarono tutti? L’autore, oltre a darci una testimonianza della vita dei Lager, ci interroga sul significato dell’esistenza e della sofferenza. In un momento in cui si discute di “qualità della vita” e di vite “degne” o meno di essere vissute, il testo è ancor oggi di grande interesse.

La ricerca di senso di cui tratta Frankl riguarda qualunque uomo, perché essa implica ciò che, per definizione, non risparmia nessuno, ovvero quell’esperienza della sofferenza e della morte che della vita stessa fanno parte. Il merito di Frankl è quello di aver evidenziato come, paradossalmente, sono proprio la sofferenza e la morte a tenere “aperto” il senso nella vita. Chi può dire, infatti, qual è la soglia oltre la quale si perde il “senso” della vita? Del resto proprio la vita da prigioniero mette l’autore di fronte alla relatività del dolore e della felicità: come dimostra il fatto che i prigionieri di un distaccamento “invidiavano” la condizione di un altro campo di lavoro o di un gruppo di ergastolani. La «scala della felicità relativa» è variegata, lo è sempre ed in circostanze diverse.

Particolarmente toccante è il ricordo della moglie, la «contemplazione dell’immagine spirituale della persona amata», che fa riscoprire all’autore una libertà diversa, una gioia che non è solo assenza di dolore: egli sperimenta se stesso come essere «spirituale», dotato di libertà interiore e valore personale che lo pongono al di sopra delle circostanze biologiche o socio-ambientali. Egli scopre di essere una «persona», unica ed irripetibile e di avere la capacità di rispondere “sì” alla vita anche nel momento del dolore. Ed è nella risposta che siamo chiamati a dare non solo davanti alla vita “attiva”, alla realizzazione creativa di valori ma anche davanti al dolore, alla limitazione del nostro essere, che l’uomo scopre il senso ultimo della vita, della sofferenza e della morte.

 

 

Nicoletta Giganti

 
     
     
 
 
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