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Bioetica
verso dove?
di
Salvino Leone*
A più di trent’anni dalla “nascita ufficiale” della bioetica,
cioè dall’anno in cui l’oncologo australiano Van Rensellaer
Potter coniò il termine bioetica, si sono avute
notevoli e complesse evoluzioni non solo nella mole
di studi e ricerche accumulate ma nella stessa identità
disciplinare. Come ricorda il noto bioeticista spagnolo
Francisco Abel: “quando ho iniziato a occuparmi di bioetica
sapevo benissimo di cosa si trattasse, oggi non lo so
più”. E questo nonostante ormai sulla bioetica vi siano
numerosi articoli e riviste specializzate puntualmente
recensite nel voluminoso Index bioethicus, centinaia
di monografie, convegni corsi, dibattiti, istituti,
centri, cattedre universitarie, siti su Internet.
Non
solo ma la bioetica ha iniziato a “contestualizzarsi”,
come d’altronde era giusto che fosse. Non solo sul piano
della globale impostazione concettuale e precomprensione
filosofica (valga per tutti il binomio bioetica laica
o secolare versus bioetica cattolica di cui parleremo
più avanti) ma anche sul piano della inculturazione.
Così, ad esempio, negli Stati Uniti ogni puntata della
popolare fiction medica E.R. viene analizzata anche
per le problematiche bioetiche che presenta. Chi scrive,
avendo tenuto un corso di bioetica a Pechino (se non
il primo certamente uno dei primi) lo ha concluso invitando
a rifuggire ogni possibile “colonizzazione culturale”
e a trovare piuttosto una “via cinese” alla bioetica.
E per ciò che riguarda l’Italia? Indubbiamente anche
nel nostro Paese il dibattito sulla bioetica è entrato
ormai in una stagione di piena maturità ma, proprio
per questo, bisogna interrogarsi su quali siano le strade
che la bioetica sta percorrendo e se queste siano del
tutto consone alle peculiarità che la disciplina vorrebbe
incarnare.
1.
I fondamenti della visione di Potter
1.1. Il senso di un neologismo. Come
si diceva, il termine bioetica venne utilizzato per
la prima da Potter che, nel 1971 pubblica il libro Bioethics,
a bridge to the future. Se qualcuno dei moderni “bioeticisti”,
infatti, volesse trovare nel libro di Potter il testo-base
della disciplina di cui si occupa rimarrebbe profondamente
deluso. Assolutamente nulla a che vedere con la nota
definizione di W. Reich nella prima edizione della
Encyclopedia of Bioetichs: “Studio sistematico della
condotta umana nell’area delle scienze della vita e
della cura della salute, quando tale condotta viene
esaminata alla luce dei valori e dei principi
morali”. Né (attenendoci a una diversa fonte semantica)
lo ritroverebbe nell’articolata descrizione che ne fa
il Vocabolario della lingua italiana della Treccani
che pur rinvia implicitamente a Potter riportando l’anno
di nascita del neologismo:
bioètica
s.f. [dall’ing. bioethics (1971), comp. di bio-
e -ethics “etica”). Disciplina, costituitasi
recentemente nell’ambito delle scienze umane integrando
temi ed esigenze dell’etica, individuale e sociale,
e nuove conoscenze medico-biologiche, che ha, come particolare
oggetto di interesse, il comportamento dell’individuo,
del medico e della società nei confronti di problemi
essenziali che riguardano: la vita intrauterina (manipolazione
genetica, eugenica, aborto preventivo e terapeutico),
la morte (casi di senilità grave e irreversibili, sopravvivenza
vegetativa di soggetti cerebrolesi, eutanasia), la sperimentazione
e l’intervento chirurgico sull’uomo e sugli animali
(sperimentazione di farmaci, psicochirurgia, vivisezione),
l’aumento demografico (controllo delle nascite, sterilizzazione),
la tutela degli equilibri ecologici e dell’ambiente
naturale.
Ma allora quale identità disciplinare ha voluto mettere
a fuoco Potter? In effetti, il suo pensiero manca di
una esigente sistematicità in quanto, ad esempio, non
troviamo una
rigorosa fondazione epistemologica che avrebbe dovuto
costituire il capitolo introduttivo e fondamentale.
Unico “indizio”, mi si permetta di chiamarlo così, è
il titolo dato al primo capitolo: “La Bioetica: scienza
della sopravvivenza”. Più illuminante, tuttavia, è quanto viene
detto, nella Prefazione:
“Il
proposito di questo libro è di contribuire al futuro
della specie umana, promuovendo la formazione di una
nuova disciplina, la disciplina della bioetica.
Se vi sono “due culture” che non sembrano in grado di
parlarsi - la scienza e le discipline classiche - e
se ciò fa parte del motivo per cui il futuro sembra
in dubbio, allora potremmo forse costruire un “ponte
verso il futuro” ponendo la disciplina della bioetica
come ponte tra le due culture”.
Ecco quindi la grande originalità del pensiero di Potter.
L’antico e irrisolto dissidio tra scienza ed etica o,
più in generale, tra scienza e “discipline classiche”
diventa oggetto specifico di un confronto interculturale.
Anzi questo viene assunto anche come metodologia operativa
della nuova disciplina. Se si vuole “sopravvivere” in
un futuro che non si autodistrugga i due ambiti disciplinari
non potranno che entrare in dialogo.
L’istanza innovativa del pensiero potteriano, anche
se esplicitamente non viene affermato, riguarda in modo
assolutamente preminente l’etica cristiana, l’unica
che da sempre ha posto i problemi inerenti la vita fisica
quale oggetto specifico della sua riflessione etica. Più estesamente il conflitto è stato formulato
nei termini della dialettica tra scienza e fede e variamente
risolto. In tempi moderni, più che l’istanza dialogica
tra pensiero cristiano e scienze umane assistiamo a
una certa preminenza del primo quale autentico interprete
delle conclusioni a cui pervengono le seconde e questo
anche nell’ambito della bioetica modernamente intesa.
La grande intuizione di Potter, che dovrebbe costituire
la vera linea guida di quello che la bioetica è poi
diventata, è contenuta nella semplice ma lapidaria affermazione:
“i valori etici non possono essere separati dai fatti
biologici”. Una moderna rivisitazione dell’assunto kantiano
sulla centralità della persona tra cielo stellato e
legge morale? Forse qualcosa di più, cioè l’idea che
il fatto biologico in quanto tale non possa essere disgiunto
da un carica morale insita nel suo stesso porsi. Un
superamento, in fondo, della vecchia logica dicotomica
per cui la scienza, in quanto tale, è “neutra” mentre
le sue applicazioni sono moralmente connotate. Nel pensiero
di Potter l’opera dello scienziato ha in sé una valenza
etica dalla quale non si può prescindere. Oggi si parla
spesso di una sorta di “immaginazione morale” che dovrebbe
avere l’uomo di scienza prevedendo e prevenendo le conseguenze
moralmente erronee che la sua ricerca potrà avere. È
un’interessante visione teleologica che da’ un nuovo
nome alla sensibilità morale, anticipandola a livello
di ricerca e sperimentazione, senza attendere risultati
ed effetti.
1.2.
La sapienza come parola-chiave.
Volendo
identificare, nel testo di Potter, un filo conduttore
in quella sorta di disordine che non è frutto di incapacità
sistematica ma voluta libertà espressiva, quasi un
brain storming autoreferenziale, possiamo trovarlo
in una particolare accezione del termine saggezza. È
da notare che l’eccellente versione italiana ha costantemente
tradotto così il termine inglese wisdom e si
tratta di una scelta assolutamente corretta. Tuttavia,
la povertà terminologica della lingua inglese si presta
– proprio per questo – a molteplici interpretazioni.
Il sostantivo può infatti tradursi anche con sapienza.
Questa prospettiva sapienziale che, ripeto, attraversa
più o meno esplicitamente tutto il testo di Potter,
ne costituisce al tempo stesso una fondamentale chiave
interpretativa proprio in ordine alle prospettive della
bioetica, sia nella accezione potteriana, sia nelle
sue attuali estensioni semantiche e problematiche epistemologiche.
Se, infatti, l’antico binomio che esprimeva, in una
sorta di slogan, il criterio operativo dell’uomo di
scienza o del medico era che questi doveva sempre agire
secondo scienza e coscienza, oggi tale binomio
appare riduttivo, non basta più. Occorre un ésprit
de finesse per cui anche l’argomentazione morale
deve percepire qualcos’altro: l’uomo deve agire secondo
scienza, coscienza e sapienza. Questa rinnovata
e ritrovata componente sapienziale deve costituire l’odierno
complemento dell’antica attribuzione morale. Senza un
sentire sapienziale persino la correttezza etica di
una procedura o di una ricerca rischia di apparire arida
e, alla fin dei conti, non in sintonia col vero bene
dell’uomo.
2.
Dall’evoluzione al consolidamento epistemologico
Proprio negli anni in cui Potter pubblica i suoi
studi nasce nei pressi di New York l’Institute
of Society, Ethics and the Life Sciences meglio
noto come Hasting Center. Dal 1971 l'Hasting Center
pubblicherà una rivista (Hasting's Center Report)
destinata a diventare un punto di riferimento obbligato
e una palestra di interventi relativi alla nuova disciplina.
La seconda istituzione che compare sulla scena mondiale,
questa volta a livello accademico è il Kennedy Institute.
Alla sua origine vi è Andre Hellegers, un ostetrico
che era stato membro autorevole della Commissione pontificia
incaricata di studiare i problemi delle riproduzione
umana, nonché membro esecutivo del gruppo di maggioranza
"bocciato" dalla decisione ultima assunta
da Paolo VI con la pubblicazione dell'Humanae Vitae.
Dalla delusione provata nasce, insieme al teologo protestante
P. Ramsey, il desiderio di fondare un centro universitario
che possa continuare la ricerca e il dialogo interdisciplinare
in tale ambito.
Col contributo della Fondazione Kennedy, nasce così
nel 1971 The Joseph and Rose Kennedy Institute for
the Study of Human Reproduction and Bioethics presso
la Georgetown University di Washington. Al
di là dei singoli progetti, il contributo più
significativo dato dal Kennedy Institute è senza dubbio
la pubblicazione dell’Encyclopedia of Bioethics
giunta ormai alla sua terza edizione in cinque
volumi.
Ovviamente in questa sede non possiamo approfondire
gli ulteriori sviluppi della Bioetica sulla scena mondiale
e su quella europea ed italiana in particolare. Rimandando
per questo a più specifiche trattazioni vorrei limitarmi a evidenziare alcuni “filoni”
che la bioetica ha assunto per passare poi a evidenziare
una serie di tendenze che, a mio avviso rischiano di
soffocare l’originario slancio disciplinare.
Molte delle istituzioni bioetiche del vecchio continente
nascono in un contesto a vario titolo riconducibile
a una matrice di pensiero cattolico. Mi limito a riportare
due soli esempi. Il primo, relativo all’Europa, riguarda
l’Institut Borja de Bioetica di Barcellona, fondato
e fino a poco tempo fa diretto dal medico e padre gesuita
Francisco Abél, e attualmente una delle più prestigiose
istituzioni europee, all’inizio annesso alla Facoltà
teologica e divenuto successivamente indipendente. Il
secondo esempio riguarda il primo e più autorevole Centro
di bioetica italiano annesso all’Università Cattolica
del Sacro Cuore e diretto da mons. Elio Sgreccia, un
punto di riferimento obbligato e in qualche modo anche
l’organo “ufficiale” della bioetica di matrice cattolica.
In queste e altre istituzioni (come la Fondazione Lanza,
il dipartimento di Medicina e Scienze Umane del San
Raffaele, l’Istituto Siciliano di Bioetica, ecc.) l’impostazione
disciplinare è essenzialmente di tipo personalista,
sia pure con accentuazioni e sfumature diverse.
Accanto a questi filoni tutti riconducibili alla matrice
personalista se ne registrano altri più spiccatamente
“laici” che si confrontano dialetticamente col pensiero
cattolico. Anch’essi di rilievo sono quelli che fanno
capo al gruppo di Politeia, alla Consulta Nazionale
di Bioetica, al Centro di Bioetica dell’Istituto Gramsci,
ecc.
Il loro comune denominatore consiste in una visione
antropologica e, conseguentemente, etica che prescinde
da ogni precomprensione di tipo cristiano o giusnaturalistico
fondandosi piuttosto su un eudaimonismo individuale
e sociale che riconosce nel rispetto dell’autonomia
la regola aurea dell’agire etico. Ovviamente le matrici
filosofiche sono di tipo non-cognitivista e privilegiano
decisamente i parametri inerenti la qualità della vita
rispetto a quelli relativi alla sua sacralità.
Il panorama che succintamente abbiamo cercato di riportare
prescinde, ovviamente, dall’effettivo confronto tra
queste impostazioni etiche limitandosi a recensirle
senza entrare nel merito dell’effettiva prassi (didattica
o esperienziale) che possono comportare. È proprio su
quest’ultimo punto che vorremmo soffermare la nostra
attenzione. A nostro giudizio, infatti sono in atto,
sia pure inconsapevolmente e senza alcuna deliberata
intenzionalità, alcune distorsioni riduzionistiche che
rischiano di svalorizzare e inficiare quanto in questi
anni è stato costruito.
3.
L’attuale crisi riduzionista
La prima, più importante ed attuale, di tali concezioni
è quella che potremmo definire moralistica. In
fondo è una vecchia tentazione dell'etica che si esprime
sostanzialmente nel ridurre il
discorso etico alla categoria
normativa di lecito/illecito identificando addirittura
l'aggettivo "morale" quale sinonimo
di moralmente retto e buono. Il moralismo bioetico
si esprime in quel diffuso atteggiamento che
all'emergere di ogni nuova situazione va alla ricerca
di una formula normativa, di sapere se "si può
fare" o meno, senza chiedersi innanzitutto se "è
giusto farlo" e perché. Una variante di tale atteggiamento
è quello legalista in cui tale ricerca
della norma di comportamento viene demandata alla legge
prima ancora di porre un prioritario riferimento nella
normatività interiore della propria coscienza. Lo si
è visto recentemente con la legge sulla riproduzione
assistita invocata come panacea per la risoluzione dei
molti problemi etici che tale procedura comporta. Come
se l’obbedienza a una norma legale potesse risolvere
ogni criticità morale o come se la legge dovesse normare
tutto. Come diremo meglio più avanti tale paradigma
legalista sta diventando oggi quello prevalente anche
nelle sedi istituzionali, ospedaliere, accademiche,
ecc.
Su un versante per certi versi opposto, si pone
il relativismo. Com'è ovvio non si tratta
di una prerogativa della riflessione bioetica, essendo
un modo distorto di intendere l'etica a cui fa difetto
la capacità di universalizzare, di cui una vera
riflessione etica non può fare a meno. In Bioetica,
tuttavia, questo assume particolare rilievo data la
necessità di trovare punti comuni e di ampia condivisione
in molti ambiti operativi (Comitati
Etici, elaborazioni legislative, codici di deontologia
professionale,ecc.). A tale attitudine hanno fortemente
contribuito i mass-media, i talk-skow, e altri
strumenti di forte incidenza sociale che hanno quasi
sacralizzato il sia pur giusto rispetto
dell'idea altrui non spingendosi oltre,
verso quella ricchezza argomentativa dialettica che
in passato si poneva non l'obiettivo
di ascoltare tutte le opinioni ma di ricostruire attraverso
queste la sintesi del vero.
Altro atteggiamento in qualche modo anti-bioetico è
quello proibizionista. Intendiamoci, è chiaro
che nel passaggio dalla bio-etica descrittiva a quella
normativa è inevitabile la formulazione di norme proibitive
ma il riduzionismo consiste nel ricondurre
essenzialmente a questo l'intero processo bioetico.
E' un po' la visione di una bioetica-carabiniere pronta
a sparare a chi varca il confine e fondamentalmente
preoccupata che non lo si scavalchi. In fondo è l'atteggiamento
che sta dietro alle comuni esecrazioni su "dove
stiamo arrivando" o al continuo desiderio di "mettere
dei paletti", ancora una volta ricadendo nel giuridicismo
bioetico. In realtà se la bioetica non vuole ridursi
a una scienza un po' antipatica da fuggire o accettare
a denti stretti occorre che essa sia in grado di evidenziare
e far gustare la bellezza dei valori da perseguire.
Solo così non sarà un freddo controllore del progresso
biomedico ma la sua anima, l'intima luce che può guidarlo
verso il fine cui è naturalmente orientato,
cioè il ben-essere dell'uomo.
Infine il riduzionismo confessionale, difficile
da trattare e da risolvere. Di per sé la bioetica è
assolutamente “laica” o quantomeno non connotata ideologicamente,
forte di una pretesa neutralità, una disciplina che
nasce in un contesto del tutto svincolato da ogni riferimento
trascendente e si presenta oggi in tutta una serie di
valenze non anti- ma certamente a-religiose
(comitati etici, insegnamento scolastico, cattedre universitarie,
ecc.).
Del
resto, da parte degli stessi cattolici, viene espresso
sempre un certo rifiuto o quantomeno disagio per una
contrapposizione che si ritiene artificiosa, tra una
presunta bioetica cattolica e una bioetica laica, ritenendo
che si debba parlare di bioetica tout court.
In questa, tuttavia, vengono chiaramente identificati
i concetti morali della tradizione cattolica. Tutto
questo ben si armonizza col fondamentale assunto kantiano
circa l’universalizzabilità dei giudizi morali, per
cui se una valutazione etica è autenticamente tale,
lo è indipendentemente dal fatto che venga formulata
in una matrice di pensiero cattolico o laico.
Il
pensiero cattolico, pertanto, si confronta col mondo
laico con una coerenza che, spesso, non viene colta
nella sua radicalità. Da un lato, infatti, ritiene che
non vi debbano essere aggettivazioni che definiscano
l’orientamento della bioetica, dall’altro afferma che
la propria visione bioetica è conforme alla verità oggettiva
e, pertanto, deve ritenersi “cattolica” non in senso
confessionale ma nel significato proprio del termine,
cioè universale. Alla radice di tutto questo non vi
è il dato rivelato (che sarebbe comprensibilmente rifiutato
dal non credente) ma la normatività della legge naturale,
assunta dalla Rivelazione ma di per sé indipendente
da essa e conoscibile da tutti.
Dal
canto suo il mondo “laico” non avrebbe alcuna difficoltà
ad aggettivare in tal senso la bioetica e anche ad accettare,
sul piano del confronto dialettico una eventuale
bioetica cattolica ma trova insostenibile che la
visione cattolica possa proporsi come unica visione
etica accettabile. Detto in altri termini:
“L’affermazione
stessa che la teologia ha un ruolo da svolgere nella
bioetica comporta il porsi di fronte a un dilemma. O
i principi che si applicano nella pratica della medicina,
o della ricerca biologica, sono tali da poter essere
approvati agli occhi di ogni persona ragionevole, nel
qual caso non c’è alcun bisogno di far appello alla
teologia; o la religione fornisce una prospettiva tra
le altre, dalla quale considerare le problematiche morali,
e non è chiaro perché in una società pluralistica questa
prospettiva debba essere preferita a un’altra. La teologia
o è superflua o è invadente.
Tale
divergenza concettuale si fa vero e proprio scontro
ideologico di fronte a problemi di carattere legislativo
(come nel caso italiano della riproduzione assistita
e, in certa misura, anche dei trapianti d’organo) o
procedurale (come nei Comitati etici).
4.
Il
futuro tra medical humanities e cultural
bioethics
Dal
panorama sopra delineato emerge fondamentalmente un
pericolo che mina alle radici il lento e faticoso cammino
di autospecificazione epistemologica che in questi decenni
la bioetica ha cercato di compiere.
Oggi
la bioetica si insegna nelle aule universitarie, di
discute nei congressi medici, si promuove in numerosi
master e corsi di formazione. Ma, al di là delle “varianti
ideologiche” pur esse importanti tanto che non di
bioetica si dovrebbe parlare ma di bioetiche,
quale identità disciplinare viene proposta?
4.1. Medical humanities. Dice una battuta
che i bioeticisti sono coloro che parlano di filosofia
ai medici, di medicina ai filosofi e di calcio tra loro.
E, forse, vi è un fondo di verità in tutto questo. Tuttavia,
oggi i maggiori stimoli alla bioetica non provengono
né dalla medicina né dalla filosofia ma piuttosto provengono
essenzialmente dai risvolti giuridici che la disciplina
ha assunto. Le problematiche del consenso informato,
dei comitati etici e della sperimentazione clinica sono
ormai di comune percezione perché la normativa europea
sulle Good Clinical Practice le ha rese tali.
In conseguenza di ciò abbiamo dei comitati etici ospedalieri
che anziché essere vere e proprie fucine di pensiero
e di crescita etica sono organi più o meno burocratici
che verificano la sussistenza di alcune condizioni permittenti
previste dalla legge. Della riproduzione assistita si
è già parlato. Ancora sono vivi gli echi e le polemiche
suscitate dalla normativa sul silenzio-assenso in merito
ai trapianti mentre in panchina si stanno scaldando,
pronti a entrare in campo i problemi giuridici relativi
all’eutanasia.
Ma
la bioetica è tutto questo? Beninteso non voglio assolutamente
negare le doverose implicanze giuridiche ma non possiamo
ridurre a questo trent’anni di dibattito, soprattutto
nel mondo della Medicina. La più evidente prova di questo
sta nel fatto che la maggior parte di insegnamenti universitari
di bioetica (almeno nella Facoltà di Medicina) ricade
nell’ambito delle discipline medico-legali. La figura
del bioeticista e di una bioetica inserita come
in tutti gli altri Paesi nell’ambito delle medical
humanities è pressocché assente. Dovrebbe essere
questa la vera sfida accademica e legislativa dei prossimi
anni.
In
un interessante e pressocché dimenticato documento del
Comitato Nazionale di Bioetica relativo alla formazione
in Bioetica si diceva, tra l’altro:
“Per
tale equilibrata formazione le scienze di base e le
scienze cliniche vanno adeguatamente integrate con
l'insieme delle discipline che gli anglosassoni chiamano
humanities (scienze della comunicazione, epistemologia
scientifica, antropologia medica, ecc.). Occorre sensibilizzare
fin dai primi anni di studio delle professioni sanitarie
gli allievi: la precocità di questa esperienza ha lo
scopo di rinsaldare le motivazioni umanitarie agli studi
medici e di aiutare gli allievi a sviluppare una visione
globale delle persone pazienti. Si deve al più presto
creare un corpo docente che sia in grado di possedere
una competenza disciplinare che sia sintesi di una preparazione
speciale, multidisciplinare, medico-scientifica, epistemologica
e filosofica. Sono indiscutibili i rapporti tra bioetica,
medicina-legale e deontologia, ma alla bioetica bisogna
riconoscere una fondazione autonoma”.
Il primo elemento da evidenziare è l'affermazione di
principio dell'assoluta necessità di una valida formazione
bioetica per l'operatore sanitario. Questo viene detto,
peraltro, senza recriminazioni o piagnistei sulla disumanità
o antieticità di tanti comportamenti sanitari ma in
positivo come elemento essenziale per una assistenza
sanitaria che sia servizio integrale al bene della persona.
D'altra, parte, e il documento lo evidenzia bene, non
si può pensare a un atto sanitario "competente"
se questo unitamente al sapere e al saper fare non comprenda
anche il saper essere. Nell'ambito del saper essere
si colloca anche la formazione bioetica. Se ce ne fosse
bisogno poi, può essere utile riaffermare la profonda
differenza che c'è tra in-formazione e formazione, movimento
centripeto il primo (che cerca di "introdurre"
nel discente alcune nozioni), effetto centrifugo il
secondo (che cerca di dar forma a quelle potenzialità
già insite nella natura umana, divenendone quasi un
habitus).
In secondo luogo viene chiaramente affermata l'esigenza
di una seria programmazione didattica che veda la bioetica
regolarmente inserita nell'iter curriculare dell'operatore
sanitario e quindi la consequenziale creazione di un
corpo docente.
Inoltre viene attentamente identificato l'ambito disciplinare
proprio in cui va collocata la bioetica che è quello
delle medical humanities (cioè filosofia della
medicina, storia della medicina, antropologia medica,
ecc.). Pur se l'insegnamento verrà inserito nell'area
medico-legale occorre tenere ben distinta la fondazione
autonoma della bioetica onde evitare il rischio di un
sua "giuridicizzazione" o di un possibile
riduttivismo medico-deontologico. D'altra parte non
bisogna sottovalutare l'opportunità di una preliminare
formazione "etica" di ordine generale fin
dalla scuola media secondaria. Etica professionale e
bioetica, altrimenti, rischiano di avere un impatto
violento e di difficile comprensione per l'allievo o
il professionista.
D’altra parte nell’attuale riordino degli studi universitari
sono anche ipotizzabili percorsi interdisciplinari con
insegnamenti comuni a varie Facoltà (medicina, filosofia,
scienze della formazione nonché le relative scuole di
specializzazione).
4.2. Cultural bioethics. Nel variegato caleidoscopio di cui s’è detto la bioetica comincia ad essere
non più o non solo aggettivante ma anche e soprattutto
aggettivata per cui parliamo di bioetica fondamentale,
bioetica clinica, bioetica narrativa, bioetica pastorale
ma anche di metabioetica, pedabioetica, ecobioetica,
biogiuridica, ecc.
Alcune di tali aggettivazioni accanto alla semplice
definizione di una “sottosezione” tendente solo a descrivere
l’ambito di una restrizione di obiettivo, pongono una
sorta di precomprensione, di chiave ermeneutica, che
dà significato all’intero ambito disciplinare. In tal
senso, ormai da tempo comincia a parlarsi, soprattutto
nel mondo anglosassone di cultural bioethics.
Apparentemente potrebbe trattarsi solo di un’ennesima
aggettivazione se non fosse per l’estensione concettuale
che una tale definizione sottende e che può gettare
nuova luce su tutto l’ambito disciplinare rivelandosi
persino risolutiva dei vari riduzionismi sopra evidenziati.
La prospettiva di una riflessione bioetica in chiave
culturale potrebbe essere la linea “vincente” sulle
attuali antinomie. In tal senso la dimensione congiuntiva
delle due realtà (la bioetica da un lato, la cultura
dall’altro) mi sembra che ben si sposi con quella identificativa.
In un tempo di generalizzato vuoto culturale, di pensiero
debole e deboli determinazioni operative l’unica resistenza
possibile è quella delle idee. Come scrivevo in un editoriale
di quasi un decennio fa, occorre divenire “partigiani
del sapere”, custodirlo come si faceva un tempo con
la neve nelle conche delle montagne. In questo contesto si colloca anche la bioetica
con la sua ermetica e suggestiva simbiosi tra bios
ed ethos. Se è vero che è suo merito aver
fatto riscoprire la dimensione etica all’uomo contemporaneo
potrà essere suo nuovo merito condurlo verso un orizzonte
valoriale dal quale pericolosamente si allontana. In
tal senso la bioetica riscopre le sue vere radici superando
le anguste secche del normativismo giuridico in cui
rischia di arenarsi.
Ma per essere autenticamente tale la bioetica deve farsi
sintesi di culture, aprendosi alla libertà del dialogo
e del confronto. Il primo incontro dovrà essere quello
tra la cultura e la sensibilità medica e quella filosofica;
in quest’ultima poi tra il sapere di orientamento cattolico
e quello secolare. Ma anche tra cultura letteraria,
iconografica, antropologica, sociologica, storica; letture
del mito e delle tradizioni dei popoli; intuizioni dell’artista
e speculazioni dell’uomo di fede.
Orizzonte ambizioso? Forse, ma pienamente rispettoso
del paradigma della complessità che è fondamentale per
l’ermeneutica del pensiero e della sensibilità contemporanea.
In tal senso mi viene in mente quell’aforisma orientale
dei quattro ciechi chiamati a definire un oggetto: il
primo dice che è una colonna, il secondo propende per
un serpente, il terzo per un muro e il quarto per un
aquilone. Nessuno si accorge che sta toccando solo una
delle parti di un elefante.
Solo dal confronto dei saperi e delle prospettive si
può ricostruire o quantomeno approssimarsi a una totalità
che risulterà sempre maggiore della somma delle parti,
in cui l’uno possa coniugarsi col molteplice e la cui
identità sarà comunione di reciprocità.
La legittimità di tale scelta è confermata dalle
attuali versioni del libro biblico della Sapienza
il cui titolo viene tradotto, nelle moderne Bibbie
inglesi, con Wisdom. In realtà il titolo
greco originale è Sōphía e non Phrónēsis
come sarebbe stato più propriamente espresso
dal concetto di “saggezza”.
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