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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 2 - Gennaio 2007 
     
 

Bioetica verso dove?

di Salvino Leone*

 

 

A più di trent’anni dalla “nascita ufficiale” della bioetica, cioè dall’anno in cui l’oncologo australiano Van Rensellaer Potter coniò il termine bioetica, si sono avute notevoli e complesse evoluzioni non solo nella mole di studi e ricerche accumulate ma nella stessa identità disciplinare. Come ricorda il noto bioeticista spagnolo Francisco Abel: “quando ho iniziato a occuparmi di bioetica sapevo benissimo di cosa si trattasse, oggi non lo so più”. E questo nonostante ormai sulla bioetica vi siano numerosi articoli e riviste specializzate puntualmente recensite nel voluminoso Index bioethicus, centinaia di monografie, convegni corsi, dibattiti, istituti, centri, cattedre universitarie, siti su Internet.

Non solo ma la bioetica ha iniziato a “contestualizzarsi”, come d’altronde era giusto che fosse. Non solo sul piano della globale impostazione concettuale e precomprensione filosofica (valga per tutti il binomio bioetica laica o secolare versus bioetica cattolica di cui parleremo più avanti) ma anche sul piano della inculturazione. Così, ad esempio, negli Stati Uniti ogni puntata della popolare fiction medica E.R. viene analizzata anche per le problematiche bioetiche che presenta. Chi scrive, avendo tenuto un corso di bioetica a Pechino (se non il primo certamente uno dei primi) lo ha concluso invitando a rifuggire ogni possibile “colonizzazione culturale” e a trovare piuttosto una “via cinese” alla bioetica. E per ciò che riguarda l’Italia? Indubbiamente anche nel nostro Paese il dibattito sulla bioetica è entrato ormai in una stagione di piena maturità ma, proprio per questo, bisogna interrogarsi su quali siano le strade che la bioetica sta percorrendo e se queste siano del tutto consone alle peculiarità che la disciplina vorrebbe incarnare.

 

 

1. I fondamenti della visione di Potter

 

1.1. Il senso di un neologismo. Come si diceva, il termine bioetica venne utilizzato per la prima da Potter che, nel 1971 pubblica il libro Bioethics, a bridge to the future [1] . Se qualcuno dei moderni “bioeticisti”, infatti, volesse trovare nel libro di Potter il testo-base della disciplina di cui si occupa rimarrebbe profondamente deluso. Assolutamente nulla a che vedere con la nota definizione di W. Reich nella prima edizione della Encyclopedia of Bioetichs: “Studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi  morali” [2] . Né (attenendoci a una diversa fonte semantica) lo ritroverebbe nell’articolata descrizione che ne fa il Vocabolario della lingua italiana della Treccani che pur rinvia implicitamente a Potter riportando l’anno di nascita del neologismo:

 

bioètica  s.f. [dall’ing. bioethics (1971), comp. di bio- e -ethics “etica”). Disciplina, costituitasi recentemente nell’ambito delle scienze umane integrando temi ed esigenze dell’etica, individuale e sociale, e nuove conoscenze medico-biologiche, che ha, come particolare oggetto di interesse, il comportamento dell’individuo, del medico e della società nei confronti di problemi essenziali che riguardano: la vita intrauterina (manipolazione genetica, eugenica, aborto preventivo e terapeutico), la morte (casi di senilità grave e irreversibili, sopravvivenza vegetativa di soggetti cerebrolesi, eutanasia), la sperimentazione e l’intervento chirurgico sull’uomo e sugli animali (sperimentazione di farmaci, psicochirurgia, vivisezione), l’aumento demografico (controllo delle nascite, sterilizzazione), la tutela degli equilibri ecologici e dell’ambiente naturale. [3]

 

            Ma allora quale identità disciplinare ha voluto mettere a fuoco Potter? In effetti, il suo pensiero manca di una esigente sistematicità in quanto, ad esempio, non troviamo una         rigorosa fondazione epistemologica che avrebbe dovuto costituire il capitolo introduttivo e fondamentale. Unico “indizio”, mi si permetta di chiamarlo così, è il titolo dato al primo capitolo: “La Bioetica: scienza della sopravvivenza”. [4] Più illuminante, tuttavia, è quanto viene detto, nella Prefazione:

 

“Il proposito di questo libro è di contribuire al futuro della specie umana, promuovendo la formazione di una nuova disciplina, la disciplina della bioetica. Se vi sono “due culture” che non sembrano in grado di parlarsi - la scienza e le discipline classiche - e se ciò fa parte del motivo per cui il futuro sembra in dubbio, allora potremmo forse costruire un “ponte verso il futuro” ponendo la disciplina della bioetica come ponte tra le due culture”. [5]  

 

Ecco quindi la grande originalità del pensiero di Potter. L’antico e irrisolto dissidio tra scienza ed etica o, più in generale, tra scienza e “discipline classiche” diventa oggetto specifico di un confronto interculturale. Anzi questo viene assunto anche come metodologia operativa della nuova disciplina. Se si vuole “sopravvivere” in un futuro che non si autodistrugga i due ambiti disciplinari non potranno che entrare in dialogo.

L’istanza innovativa del pensiero potteriano, anche se esplicitamente non viene affermato, riguarda in modo assolutamente preminente l’etica cristiana, l’unica che da sempre ha posto i problemi inerenti la vita fisica quale oggetto specifico della sua riflessione etica [6] . Più estesamente il conflitto è stato formulato nei termini della dialettica tra scienza e fede e variamente risolto. In tempi moderni, più che l’istanza dialogica tra pensiero cristiano e scienze umane assistiamo a una certa preminenza del primo quale autentico interprete delle conclusioni a cui pervengono le seconde e questo anche nell’ambito della bioetica modernamente intesa.

La grande intuizione di Potter, che dovrebbe costituire la vera linea guida di quello che la bioetica è poi diventata, è contenuta nella semplice ma lapidaria affermazione: “i valori etici non possono essere separati dai fatti biologici”. [7] Una moderna rivisitazione dell’assunto kantiano sulla centralità della persona tra cielo stellato e legge morale? Forse qualcosa di più, cioè l’idea che il fatto biologico in quanto tale non possa essere disgiunto da un carica morale insita nel suo stesso porsi. Un superamento, in fondo, della vecchia logica dicotomica per cui la scienza, in quanto tale, è “neutra” mentre le sue applicazioni sono moralmente connotate. Nel pensiero di Potter l’opera dello scienziato ha in sé una valenza etica dalla quale non si può prescindere. Oggi si parla spesso di una sorta di “immaginazione morale” che dovrebbe avere l’uomo di scienza prevedendo e prevenendo le conseguenze moralmente erronee che la sua ricerca potrà avere. È un’interessante visione teleologica che da’ un nuovo nome alla sensibilità morale, anticipandola a livello di ricerca e sperimentazione, senza attendere risultati ed effetti.

 

1.2.       La sapienza come parola-chiave. Volendo identificare, nel testo di Potter, un filo conduttore in quella sorta di disordine che non è frutto di incapacità sistematica ma voluta libertà espressiva, quasi un brain storming autoreferenziale, possiamo trovarlo in una particolare accezione del termine saggezza. È da notare che l’eccellente versione italiana ha costantemente tradotto così il termine inglese wisdom e si tratta di una scelta assolutamente corretta. Tuttavia, la povertà terminologica della lingua inglese si presta – proprio per questo – a molteplici interpretazioni. Il sostantivo può infatti tradursi anche con sapienza. [8]

Questa prospettiva sapienziale che, ripeto, attraversa più o meno esplicitamente tutto il testo di Potter, ne costituisce al tempo stesso una fondamentale chiave interpretativa proprio in ordine alle prospettive della bioetica, sia nella accezione potteriana, sia nelle sue attuali estensioni semantiche e problematiche epistemologiche. Se, infatti, l’antico binomio che esprimeva, in una sorta di slogan, il criterio operativo dell’uomo di scienza o del medico era che questi doveva sempre agire secondo scienza e coscienza, oggi tale binomio appare riduttivo, non basta più. Occorre un ésprit de finesse per cui anche l’argomentazione morale deve percepire qualcos’altro: l’uomo deve agire secondo scienza, coscienza e sapienza. Questa rinnovata e ritrovata componente sapienziale deve costituire l’odierno complemento dell’antica attribuzione morale. Senza un sentire sapienziale persino la correttezza etica di una procedura o di una ricerca rischia di apparire arida e, alla fin dei conti, non in sintonia col vero bene dell’uomo.

 

 

2.        Dall’evoluzione al consolidamento epistemologico

 

       Proprio  negli anni in cui Potter pubblica i suoi studi nasce nei pressi di New York  l’Institute  of Society,  Ethics and the Life Sciences meglio noto come Hasting Center. Dal 1971 l'Hasting Center pub­blicherà una rivista (Hasting's Center Report) de­stinata a diventare un punto di riferimento obbliga­to e una palestra di interventi relativi alla nuova disciplina.

       La seconda istituzione che compare sulla scena mondiale, questa volta a livello accademico è il Kennedy Institute. Alla sua origine vi è Andre Hel­legers, un ostetrico che era stato membro autorevole della Commissione pontificia incaricata di studiare i problemi delle riproduzione umana, nonché  membro esecutivo del gruppo di maggioranza "bocciato" dalla decisione  ultima assunta da Paolo VI con la pubbli­cazione dell'Humanae Vitae. Dalla delusione prova­ta nasce, insieme al teologo protestante P. Ramsey, il desiderio di fondare un centro universitario che possa continuare la ricerca e il dialogo interdisci­plinare in tale ambito. Col contributo della Fonda­zione Kennedy, nasce così nel 1971 The Joseph and Rose Kennedy Institute for the Study of Human Repro­duction and Bioethics presso la Georgetown Universi­ty di Washington. Al di là dei singoli progetti,  il contributo più significativo dato dal Kennedy Insti­tute è senza dubbio la pubblicazione dell’Encyclope­dia of Bioethics giunta ormai alla sua terza edizione in cinque volumi [9] .

       Ovviamente in questa sede non possiamo approfondire gli ulteriori sviluppi della Bioetica sulla scena mondiale e su quella europea ed italiana in particolare. Rimandando per questo a più specifiche trattazioni [10] vorrei limitarmi a evidenziare alcuni “filoni” che la bioetica ha assunto per passare poi a evidenziare una serie di tendenze che, a mio avviso rischiano di soffocare l’originario slancio disciplinare.

       Molte delle istituzioni bioetiche del vecchio continente nascono in un contesto a vario titolo riconducibile a una matrice di pensiero cattolico. Mi limito a riportare due soli esempi. Il primo, relativo all’Europa, riguarda l’Institut Borja de Bioetica di Barcellona, fondato e fino a poco tempo fa diretto dal medico e padre gesuita Francisco Abél,  e attualmente una delle più prestigiose istituzioni europee, all’inizio annesso alla Facoltà teologica e divenuto successivamente indipendente. Il secondo esempio riguarda il primo e più autorevole Centro di bioetica italiano annesso all’Università Cattolica del Sacro Cuore e diretto da mons. Elio Sgreccia, un punto di riferimento obbligato e in qualche modo anche l’organo “ufficiale” della bioetica di matrice cattolica. In queste e altre istituzioni (come la Fondazione Lanza, il dipartimento di Medicina e Scienze Umane del San Raffaele, l’Istituto Siciliano di Bioetica, ecc.) l’impostazione disciplinare è essenzialmente di tipo personalista, sia pure con accentuazioni e sfumature diverse.

       Accanto a questi filoni tutti riconducibili alla matrice personalista se ne registrano altri più spiccatamente “laici” che si confrontano dialetticamente col pensiero cattolico. Anch’essi di rilievo sono quelli che fanno capo al gruppo di Politeia, alla Consulta Nazionale di Bioetica, al Centro di Bioetica dell’Istituto Gramsci, ecc.

       Il loro comune denominatore consiste in una visione antropologica e, conseguentemente, etica che prescinde da ogni precomprensione di tipo cristiano o giusnaturalistico fondandosi piuttosto su un eudaimonismo individuale e sociale che riconosce nel rispetto dell’autonomia la regola aurea dell’agire etico. Ovviamente le matrici filosofiche sono di tipo non-cognitivista e privilegiano decisamente i parametri inerenti la qualità della vita rispetto a quelli relativi alla sua sacralità.

            Il panorama che succintamente abbiamo cercato di riportare prescinde, ovviamente, dall’effettivo confronto tra queste impostazioni etiche limitandosi a recensirle senza entrare nel merito dell’effettiva prassi (didattica o esperienziale) che possono comportare. È proprio su quest’ultimo punto che vorremmo soffermare la nostra attenzione. A nostro giudizio, infatti sono in atto, sia pure inconsapevolmente  e senza alcuna deliberata intenzionalità, alcune distorsioni riduzionistiche che rischiano di svalorizzare e inficiare quanto in questi anni è stato costruito.

 

 

 

3.        L’attuale crisi riduzionista

 

       La prima, più importante ed attuale, di tali concezioni è quella che potremmo definire moralistica. In fondo è una vecchia tenta­zione dell'etica che si esprime sostanzialmente  nel ridurre  il   discorso   etico  alla  categoria  normativa di lecito/illecito identificando addirittura l'aggetti­vo "morale" quale sinonimo  di  moralmente retto e buono. Il moralismo bioetico si esprime in quel dif­fuso  atteggiamento che all'emergere di ogni nuova situazione va alla ricerca di una formula normativa, di sapere se "si può fare" o meno, senza chiedersi innanzitutto se "è giusto farlo" e perché. Una va­riante di tale atteggiamento è quello legalista in cui  tale ricerca della norma di comportamento viene demandata alla legge prima ancora di porre un prio­ritario riferimento nella normatività interiore del­la propria coscienza. Lo si è visto recentemente con la legge sulla riproduzione assistita invocata come panacea per la risoluzione dei molti problemi etici che tale procedura comporta. Come se l’obbedienza a una norma legale potesse risolvere ogni criticità morale o come se la legge dovesse normare tutto. Come diremo meglio più avanti tale paradigma legalista sta diventando oggi quello prevalente anche nelle sedi istituzionali, ospedaliere, accademiche, ecc.

       Su  un versante per certi versi opposto, si pone il relativismo. Com'è ovvio non si  tratta di una prerogativa della riflessione bioetica, essen­do un modo distorto di intendere l'etica a cui fa difetto la capacità di universalizzare, di cui  una vera riflessione etica non può fare a meno. In Bio­etica, tuttavia, questo assume particolare rilievo data la necessità di trovare punti comuni e di ampia condivisione  in  molti  ambiti  operativi (Comitati Etici, elaborazioni legislative, codici di deontolo­gia professionale,ecc.). A tale attitudine hanno fortemente contribuito i mass-media,  i talk-skow, e altri strumenti di forte incidenza sociale che hanno quasi sacralizzato il  sia pur giusto rispetto  dell'idea  altrui non spingendosi oltre,  verso quella ricchezza argo­mentativa dialettica che in passato  si  poneva  non l'obiettivo di ascoltare tutte le opinioni ma di ri­costruire attraverso queste la sintesi del vero.

       Altro atteggiamento in qualche modo anti-bioetico è quello proibizionista. Intendiamoci, è chiaro che nel passaggio dalla bio-etica descrittiva a quella normativa è inevitabile la for­mulazione di norme proibitive ma il  riduzionismo consiste  nel  ricondurre  essenzialmente a questo l'intero processo bioetico.  E' un po' la visione di una bioetica-carabiniere pronta a sparare a chi var­ca il confine e fondamentalmente preoccupata che non lo si scavalchi. In fondo è l'atteggiamento che sta dietro alle comuni esecrazioni su "dove stiamo arri­vando" o al continuo desiderio di "mettere dei paletti", ancora una volta ricadendo nel giuridicismo bioetico. In realtà se la bioetica non vuole ridursi a una scienza un po' antipatica da fuggire o accettare a denti stretti occorre che essa sia in grado di evidenziare e far gustare la bellezza dei valori da perseguire. Solo così non sarà un freddo controllore del progresso biomedico ma la sua anima, l'intima luce che può guidarlo verso il fine cui  è  natural­mente orientato, cioè il ben-essere dell'uomo.

      Infine  il riduzionismo confessionale, difficile da trattare e da risolvere. Di per sé la bioetica è assolutamente “laica” o quantomeno non connotata ideologicamente, forte di una pretesa neutralità, una disciplina che nasce in un contesto del tutto svincolato da ogni riferimento trascendente [11] e si presenta oggi in tutta una serie di valenze non anti- ma certamente a-religiose (comitati etici, insegnamento scolastico, cattedre universitarie, ecc.).

Del resto, da parte degli stessi cattolici, viene espresso sempre un certo rifiuto o quantomeno disagio per una contrapposizione che si ritiene artificiosa, tra una presunta bioetica cattolica e una bioetica laica, ritenendo che si debba parlare di  bioetica tout court. In questa, tuttavia, vengono chiaramente identificati i concetti morali della tradizione cattolica. Tutto questo ben si armonizza col fondamentale assunto kantiano circa l’universalizzabilità dei giudizi morali, per cui se una valutazione etica è autenticamente tale, lo è indipendentemente dal fatto che venga formulata in una matrice di pensiero cattolico o laico.

Il pensiero cattolico, pertanto, si confronta col mondo laico con una coerenza che, spesso, non viene colta nella sua radicalità. Da un lato, infatti, ritiene che non vi debbano essere aggettivazioni che definiscano l’orientamento della bioetica, dall’altro afferma che la propria visione bioetica è conforme alla verità oggettiva e, pertanto, deve ritenersi “cattolica” non in senso confessionale ma nel significato proprio del termine, cioè universale. Alla radice di tutto questo non vi è il dato rivelato (che sarebbe comprensibilmente rifiutato dal non credente) ma la normatività della legge naturale, assunta dalla Rivelazione ma di per sé indipendente da essa e conoscibile da tutti [12] .

Dal canto suo il mondo “laico” non avrebbe alcuna difficoltà ad aggettivare in tal senso la bioetica e anche ad accettare, sul piano del confronto dialettico una eventuale bioetica cattolica ma trova insostenibile che la visione cattolica possa proporsi come unica visione etica accettabile. Detto in altri termini:

 

“L’affermazione stessa che la teologia ha un ruolo da svolgere nella bioetica comporta il porsi di fronte a un dilemma. O i principi che si applicano nella pratica della medicina, o della ricerca biologica, sono tali da poter essere approvati agli occhi di ogni persona ragionevole, nel qual caso non c’è alcun bisogno di far appello alla teologia; o la religione fornisce una prospettiva tra le altre, dalla quale considerare le problematiche morali, e non è chiaro perché in una società pluralistica questa prospettiva debba essere preferita a un’altra. La teologia o è superflua o è invadente. [13]

 

Tale divergenza concettuale si fa vero e proprio scontro ideologico di fronte a problemi di carattere legislativo (come nel caso italiano della riproduzione assistita e, in certa misura, anche dei trapianti d’organo) o procedurale (come nei Comitati etici).

 

4.        Il futuro tra medical humanities  e cultural bioethics

 

Dal panorama sopra delineato emerge fondamentalmente un pericolo che mina alle radici il lento e faticoso cammino di autospecificazione epistemologica che in questi decenni la bioetica ha cercato di compiere.

Oggi la bioetica si insegna nelle aule universitarie, di discute nei congressi medici, si promuove in numerosi master e corsi di formazione. Ma, al di là delle “varianti ideologiche” pur esse importanti tanto che non di bioetica si dovrebbe parlare ma di bioetiche, quale identità disciplinare viene proposta?

 

4.1. Medical humanities. Dice una battuta che i bioeticisti sono coloro che parlano di filosofia ai medici, di medicina ai filosofi e di calcio tra loro. E, forse, vi è un fondo di verità in tutto questo. Tuttavia, oggi i maggiori stimoli alla bioetica non provengono né dalla medicina né dalla filosofia ma piuttosto provengono essenzialmente dai risvolti giuridici che la disciplina ha assunto. Le problematiche del consenso informato, dei comitati etici e della sperimentazione clinica sono ormai di comune percezione perché la normativa europea sulle Good Clinical Practice le ha rese tali. In conseguenza di ciò abbiamo dei comitati etici ospedalieri che anziché essere vere e proprie fucine di pensiero e di crescita etica sono organi più o meno burocratici che verificano la sussistenza di alcune condizioni permittenti previste dalla legge. Della riproduzione assistita si è già parlato. Ancora sono vivi gli echi e le polemiche suscitate dalla normativa sul silenzio-assenso in merito ai trapianti mentre in panchina si stanno scaldando, pronti a entrare in campo i problemi giuridici relativi all’eutanasia.

Ma la bioetica è tutto questo? Beninteso non voglio assolutamente negare le doverose implicanze giuridiche ma non possiamo ridurre a questo trent’anni di dibattito, soprattutto nel mondo della Medicina. La più evidente prova di questo sta nel fatto che la maggior parte di insegnamenti universitari di bioetica (almeno nella Facoltà di Medicina) ricade nell’ambito delle discipline medico-legali. La figura del bioeticista e di una bioetica inserita come in tutti gli altri Paesi nell’ambito delle medical humanities è pressocché assente. Dovrebbe essere questa la vera sfida accademica e legislativa dei prossimi anni.

In un interessante e pressocché dimenticato documento del Comitato Nazionale di Bioetica relativo alla formazione in Bioetica si diceva, tra l’altro:

 

“Per tale equilibrata formazione le scienze di base e le scienze cliniche vanno adeguatamente integrate con l'insieme delle discipline che gli anglosassoni chiamano humanities (scienze della comunicazione, epistemologia scientifica, antropologia medica, ecc.). Occorre sensibilizzare fin dai primi anni di studio delle professioni sanitarie gli allievi: la precocità di questa esperienza ha lo scopo di rinsaldare le motivazioni umanitarie agli studi medici e di aiutare gli allievi a sviluppare una visione globale delle persone pazienti. Si deve al più presto creare un corpo docente che sia in grado di possedere una competenza disciplinare che sia sintesi di una preparazione speciale, multidisciplinare, medico-scientifica, epistemologica e filosofica. Sono indiscutibili i rapporti tra bioetica, medicina-legale e deontologia, ma alla bioetica bisogna riconoscere una fondazione autonoma”. [14]

 

            Il primo elemento da evidenziare è l'affermazione di principio dell'assoluta necessità di una valida formazione bioetica per l'operatore sanitario. Questo viene detto, peraltro, senza recriminazioni o piagnistei sulla disumanità o antieticità di tanti comportamenti sanitari ma in positivo come elemento essenziale per una assistenza sanitaria che sia servizio integrale al bene della persona. D'altra, parte, e il documento lo evidenzia bene, non si può pensare a un atto sanitario "competente" se questo unitamente al sapere e al saper fare non comprenda anche il saper essere. Nell'ambito del saper essere si colloca anche la formazione bioetica. Se ce ne fosse bisogno poi, può essere utile riaffermare la profonda differenza che c'è tra in-formazione e formazione, movimento centripeto il primo (che cerca di "introdurre" nel discente alcune nozioni), effetto centrifugo il secondo (che cerca di dar forma a quelle potenzialità già insite nella natura umana, divenendone quasi un habitus).

            In secondo luogo viene chiaramente affermata l'esigenza di una seria programmazione didattica che veda la bioetica regolarmente inserita nell'iter curriculare dell'operatore sanitario e quindi la consequenziale creazione di un corpo docente.

            Inoltre viene attentamente identificato l'ambito disciplinare proprio in cui va collocata la bioetica che è quello delle medical humanities (cioè filosofia della medicina, storia della medicina, antropologia medica, ecc.). Pur se l'insegnamento verrà inserito nell'area medico-legale occorre tenere ben distinta la fondazione autonoma della bioetica onde evitare il rischio di un sua "giuridicizzazione" o di un possibile riduttivismo medico-deontologico. D'altra parte non bisogna sottovalutare l'opportunità di una preliminare formazione "etica" di ordine generale fin dalla scuola media secondaria. Etica professionale e bioetica, altrimenti, rischiano di avere un impatto violento e di difficile comprensione per l'allievo o il professionista.

            D’altra parte nell’attuale riordino degli studi universitari sono anche ipotizzabili percorsi interdisciplinari con insegnamenti comuni a varie Facoltà (medicina, filosofia, scienze della formazione nonché le relative scuole di specializzazione).

 

            4.2. Cultural bioethics. Nel variegato caleidoscopio di cui s’è detto la bioetica comincia ad essere non più o non solo aggettivante ma anche e soprattutto aggettivata [15] per cui parliamo di bioetica fondamentale, bioetica clinica, bioetica narrativa, bioetica pastorale ma anche di metabioetica, pedabioetica, ecobioetica, biogiuridica, ecc.

            Alcune di tali aggettivazioni accanto alla semplice definizione di una “sottosezione” tendente solo a descrivere l’ambito di una restrizione di obiettivo, pongono una sorta di precomprensione, di chiave ermeneutica, che dà significato all’intero ambito disciplinare. In tal senso, ormai da tempo comincia a parlarsi, soprattutto nel mondo anglosassone di cultural bioethics.

            Apparentemente potrebbe trattarsi solo di un’ennesima aggettivazione se non fosse per l’estensione concettuale che una tale definizione sottende e che può gettare nuova luce su tutto l’ambito disciplinare rivelandosi persino risolutiva dei vari riduzionismi sopra evidenziati.

            La prospettiva di una riflessione bioetica in chiave culturale potrebbe essere la linea “vincente” sulle attuali antinomie. In tal senso la dimensione congiuntiva delle due realtà (la bioetica da un lato, la cultura dall’altro) mi sembra che ben si sposi con quella identificativa.

            In un tempo di generalizzato vuoto culturale, di pensiero debole e deboli determinazioni operative l’unica resistenza possibile è quella delle idee. Come scrivevo in un editoriale di quasi un decennio fa, occorre divenire “partigiani del sapere”, custodirlo come si faceva un tempo con la neve nelle conche delle montagne. [16] In questo contesto si colloca anche la bioetica con la sua ermetica e suggestiva simbiosi tra bios ed ethos. Se è vero che è suo merito aver fatto riscoprire la dimensione etica all’uomo contemporaneo potrà essere suo nuovo merito condurlo verso un orizzonte valoriale dal quale pericolosamente si allontana. In tal senso la bioetica riscopre le sue vere radici superando le anguste secche del normativismo giuridico in cui rischia di arenarsi.

            Ma per essere autenticamente tale la bioetica deve farsi sintesi di culture, aprendosi alla libertà del dialogo e del confronto. Il primo incontro dovrà essere quello tra la cultura e la sensibilità medica e quella filosofica; in quest’ultima poi tra il sapere di orientamento cattolico e quello secolare. Ma anche tra cultura letteraria, iconografica, antropologica, sociologica, storica; letture del mito e delle tradizioni dei popoli; intuizioni dell’artista e speculazioni dell’uomo di fede.

            Orizzonte ambizioso? Forse, ma pienamente rispettoso del paradigma della complessità che è fondamentale per l’ermeneutica del pensiero e della sensibilità contemporanea. In tal senso mi viene in mente quell’aforisma orientale dei quattro ciechi chiamati a definire un oggetto: il primo dice che è una colonna, il secondo propende per un serpente, il terzo per un muro e il quarto per un aquilone. Nessuno si accorge che sta toccando solo una delle parti di un elefante.

            Solo dal confronto dei saperi e delle prospettive si può ricostruire o quantomeno approssimarsi a una totalità che risulterà sempre maggiore della somma delle parti, in cui l’uno possa coniugarsi col molteplice e la cui identità sarà comunione di reciprocità.

 

 

 

 

 

 

 


 


* Docente di Medicina Sociale e di Bioetica al Corso di laurea in Servizio Sociale della LUMSA

 

[1] A dire il vero Potter aveva già proposto il suo neologismo in un articolo, meno noto, di un anno prima: V.R. Potter, Bioethics: the science of survival, in “Perspectives in Biology and Medicine” 14 (1970) pp. 120-153.

 

 

[2] W.T. Reich, Encyclopedia of Bioethics, McMillian, New York 1978, p. XIX. Per dare un’idea di una certa “plasticità” della disciplina basti vedere come nella seconda edizione della stessa Enciclopedia (1995) Reich dia una definizione molto più articolata: “studio sistematico delle dimensioni morali – comprendenti visioni morali, decisioni, condotte e politiche – delle scienze della vita e della cura della salute, utilizzando vari tipi di metodologie etiche in un approccio interdisciplinare” (p. xxi).

 

[3] Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della lingua italiana, Roma 1986, vol. I, p.466.

 

[4] Il titolo (e, sostanzialmente anche il contenuto) del capitolo riproduce fedelmente quello del citato articolo.

 

[5] Traggo la citazione dall’edizione italiana del libro che è stata pubblicata solo alcuni anni fa: V.R. Potter, Bioetica, ponte verso il futuro, Sicania, Messina 2000, p. 33.

 

[6]   Attenzione ai problemi della vita, in modo particolare per ciò che riguarda l’aborto, troviamo già nella Didachè. Attraverso i penitenziali medievali i temi della morale corporea giungono fino all’epoca della manualistica in cui si strutturano nel trattato De quinto praecepto. Si articoleranno successivamente nella “morale della vita fisica” trovando la loro più compiuta e innovativa espressione nell’Etica medica di Bernard Haering (1968). Da segnalare poi, sul piano magisteriale i numerosi  “Discorsi ai medici di Pio XII” nonché la rinnovata attenzione per quella che ormai anche il magistero chiama bioetica, da parte di Giovanni Paolo II.

 

[7] V.R. Potter, Ibidem.

 

[8] La legittimità di tale scelta è confermata dalle attuali versioni del libro biblico della Sapienza il cui titolo viene tradotto, nelle moderne Bibbie inglesi, con Wisdom. In realtà il titolo greco originale è Sōphía e non Phrónēsis come sarebbe stato più propriamente espresso dal concetto di “saggezza”.

 

[9] S. G. POST (ed.), Encyclopedia of Bioethics, 5 vols., Macmillan Reference – Thomson Gale, New York 2004.

[10] Tra queste mi limito a ricordare: C. Viafora ( a cura di) Vent’anni di bioetica, Fondazione Lanza-Università Gregoriana, Padova-Roma 1990; G. Russo, Storia della bioetica, Armando, Roma 1995.

[11] Fina dalla sua nascita come autonoma identità disciplinare la bioetica costituisce un vero e proprio movimento di “secolarizzazione” dell’etica che, in tal senso si tacca dai percorsi classici fino ad allora riservati alla filosofia e alla teologia morale. Non a caso irrita molto il mondo laico il ritenere che vi sia una “preistoria” della bioetica che la ricolleghi in modo diretto alla tradizionale morale cattolica (Cf. G. Russo, Storia della Bioetica dalle origini ad oggi in: G. Russo [a cura di], “Storia della Bioetica”, op. cit.,  pp. 14-15).  

 

[12] Senza addentrarci nello sviluppo storico-filosofico dell’idea di legge naturale e delle notevoli problematiche ad essa correlate (Cf. G. Savagnone, Legge naturale, in: S. Leone - S. Privitera [a cura di] “Dizionario di Bioetica, Ed. Dehoniane-ISB, Bologna-Acireale 1991, pp. 533-544) ci limitiamo a riportare l’accezione che ne da’ il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica e in virtù della quale la Chiesa afferma (ottimisticamente) la piena conoscibilità e condivisibilità da parte di ogni uomo: “la legge naturale esprime il senso morale originale che permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, quello che sono il bene e il male, la verità e la menzogna” (n. 1954).

 

[13] B. Mitchell, Il ruolo della teologia nella bioetica, in: E. Schelp (ed.) “Teologia e bioetica”, Ed. Dehoniane, Bologna 1989, p. 129.

 

[14] Comitato Nazionale  per la Bioetica, Bioetica e formazione nel sistema sanitario, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1991, p. 8.

[15] Cf. S. Privitera, Per una bioetica non aggettivata ma aggettivante, in “Bioetica e Cultura”,  V (1996) n. 10, pp. 133-135.

 

[16] S. Leone, Bioetica è cultura, in “Bioetica e cultura”  III (1994) n. 5, pp. 5-7.

 
 
     
     
 
 
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