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Cambiare
la natura umana? Biotecnologie e questione antropologica٭
di Vittorio Possenti*
“Naturam expelles furca,
tamen
usque recurret” (Orazio)
“L’uomo, non il superuomo,
sia il fine” (H. Jonas)
La questione
antropologica
Sull’idea di natura umana, piatto ghiotto per il filosofo,
s’addensano innumerevoli dibattiti, resi ancor più
delicati dall’interrogativo su che cosa essa significhi e
se sia possibile cambiare la natura umana.
Intervenendo sull’uomo in maniera influente ma per molti
aspetti ancora ignota quanto agli esiti e alle
conseguenze, le biotecnologie postulano un’adeguata
conoscenza di chi sia l’uomo e di che cosa egli abbia
soprattutto bisogno. Ma proprio questo essenziale
elemento è divenuto problematico, anzi particolarmente
arduo da inquadrare. La più alta e complessa controversia,
da gran tempo in corso e che accende gli animi ovunque, è
appunto la controversia sull’ humanum. Sembra che
quanto più le scienze cercano di stringere da presso la
conoscenza dell’uomo, tanto più questa si divincoli e
sfugga alla presa dei saperi scientifico-analitici,
lasciando dietro di sé interrogativi e tensioni. Il
crocevia dove scienza-tecnica e persona si incontrano è
divenuto un incrocio problematico, nel quale le scienze
cercano di trasmettere una nuova comprensione dell’umano.
La sfida si era già dispiegata dinanzi all’occhio
scrutatore di Pascal. “Avevo trascorso gran
tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa
comunicazione che vi si può avere con gli uomini me
ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo,
capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo,
e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne
lo studio, che gli altri con l’ignorarle. Ho perdonato
agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare
molti compagni nello studio dell’uomo. Sbagliavo: son
meno ancora di quelli che studiano le matematiche” (1).
Sembrerebbe che la situazione contemporanea falsifichi
l’assunto pascaliano, tante sono oggi le discipline
e le scienze che si occupano dell’uomo. Ad una considerazione
un poco più attenta risulta però che, a fronte di una
grande varietà di saperi che si rivolgono ad aspetti
dell’uomo – in particolare al corpo – si trova un grande
vuoto quando si cerchi una considerazione interale dell’uomo.
Nell’epoca dell’essor delle scienze umane di
ogni tipo diventa ancor più vero dire che questi è un
essere sconosciuto che deve sempre e nuovamente venire
riscoperto come ai tempi di Pascal. Questi propone l’impegnativa
domanda antropologica pochi anni dopo l’infausta
separazione cartesiana fra pensiero/mente e corpo/estensione,
secondo cui l’io risiede nel pensiero e il corpo – affidato
alla contingenza e all’inessenziale – è pronto per essere
attribuito alla regia della scienza e a entrare nell’area
del dominio tecnico. Il presupposto di non poche utilizzazioni
recenti delle scoperte genetiche e biologiche può venire
individuato con sicurezza nel dualismo cartesiano, molto
comodo e altrettanto improbabile, e verso la cui riproposizione
occorre mantenere un’alta vigilanza intellettuale. La
semplicistica divisione dei compiti fra scienza e filosofia
– alla scienza la res extensa e alla filosofia
il pensiero – è diventata un ostacolo al sapere,
in specie a quello vertente sulla vita che si rifiuta
nella maniera più totale a essere ridotta a mera estensione.
Intanto un nuovo naturalismo è in cammino. Dal
lato degli orientamenti della cultura occorre infatti
considerare che la koiné naturalistica sta sostituendo
nella cultura la koiné ermeneutica, rimasta in
auge alquanto a lungo. Di questa tendenza è segno grande
il tentativo di pervenire ad un’integrale naturalizzazione
della mente/anima come parte di un processo indirizzato
all’integrale naturalizzazione dell’uomo: l’uomo dunque
risolto nella vita della physis, nel suo divenire
evolutivo e cieco. Sembra crescente la persuasione che
la concezione scientifica del mondo porterà necessariamente
ad un paradigma antropologico apertamente naturalistico.
Il progetto che fa da sfondo a varie espressioni
della scienza e della filosofia attuale consiste nel
riportare tutto l’uomo a res naturalis vitalis,
cancellando in lui la res cogitans come
fenomeno irriducibile al biologico. L’anima come ‘spettro
nella macchina’ sarebbe solo il cattivo frutto nato
da un dogma, la res cogitans cartesiana. In realtà
non vi sarebbe alcuno ‘spettro nella macchina’ da cercare,
nessuna anima come entità a sé da studiare, perché la
psiche e i fatti psichici si riconducono soltanto a
fisica. In questa linea viene a conclusione contraddittoria
– grandiosa eterogenesi dei fini – l’aspirazione di
Nietzsche a preparare l’avvento dell’oltreuomo (Ubermensch):
quell’aspirazione non si è minimamente realizzata e
ha dato invece l’avvio al suo contrario, alla diminuzione
dell’uomo, alla produzione del sottouomo. Non dobbiamo
sottovalutare il rischio che un esteso naturalismo antropologico
conduca infine a un deciso nichilismo sull’uomo: l’uomo
ridotto, l’uomo come “null’altro che”, infine l’uomo
come prodotto casuale dell’evoluzione quale ultima parola
dell’evoluzionismo nichilistico. Intanto si può sostenere
che il naturalismo evoluzionistico rifiuta l’idea di
essenza/natura come qualcosa di stabile e di ‘eterno’,
spingendo così la filosofia a recuperare questo concetto.
Larga parte della discussione morale e antropologica
contemporanea scaturisce dagli sviluppi incalzanti delle
scienze della vita e delle neuroscienze: stiamo assistendo
ad una vera rivoluzione che concerne le sorgenti della
vita e che potremmo chiamare rivoluzione del genoma
e del DNA. Essa rimette in discussione le nozioni di
identità (chi siamo come uomini? Chi sono io?), di rispetto
della persona, di responsabilità verso se stessi e gli
altri, che costituiscono la base della civiltà. Negli
ultimi lustri si è imposta all’attenzione la ‘questione
antropologica’, ormai prepotentemente affiancatasi alle
classiche grandi questioni pubbliche che prendono da
tempo il nome di ‘questione istituzionale democratica’
e ‘questione sociale’, le quali hanno dato almeno in
Occidente il tono a due secoli di storia.
Rispetto a queste problematiche la questione antropologica
presenta caratteri più radicali ed appare destinata
a diventare sempre più pervasiva. L’uomo è messo in
questione tanto nella sua base biologica e corporea
quanto nella coscienza che forma di se stesso. E ciò
non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché
le nuove tecnologie incidono sul soggetto, lo trasformano,
tendono ad operare un mutamento nel modo di intendere
nozioni centrali dell’esperienza di ognuno: essere generato
oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare
la salute, invecchiare, ecc. Se è vero che la più gelosa
questione sollevata dalle bioscienze è quella antropologica,
il nome finora universalmente impiegato di bioetica
per denominare la riflessione sui temi di cui sopra,
appare inappropriato perché tende a velare che buona
parte degli interrogativi detti bioetici sono in realtà
problemi non di morale ma di antropologia (e spesso
anche di ontologia).
Ora
tanto le scienze della vita che trovano un punto di
elezione nella genetica e nella biologia molecolare,
quanto le neuroscienze sono nuclei meritevoli di particolare
attenzione per i problemi antropologici che sgorgano
dai due ambiti. Nel primo caso è in gioco la possibilità
di pervenire, manipolando il genoma umano, ad una nuova
forma dell’umano (l’espressione è volutamente indeterminata
perché siamo alle prese con reali dubbi sulle
possibilità e gli esiti delle manipolazioni genetiche),
nell’altro emergono i problemi del funzionamento del
cervello, dell’intelligenza artificiale, del rapporto
fra mente e cervello (identità, differenza?) e quello
non meno cruciale dell’anima e della psiche. Se in questo
scritto ci dedicheremo al primo aspetto ciò è
dovuto al fatto che mentre il dibattito sulle neuroscienze
è da tempo avviato, quello sulla natura umana e la genetica
appare più decisivo e forse meno avanzato.
L’indirizzo generale metodico sarà di comprendere quanto sta
accadendo, evitando l’atteggiamento della paura come
quello dell’entusiasmo: neque lugere, neque ridere sed
intelligere. Per comprendere occorre aggiungere che il
discorso sulle biotecnologie chiama in causa i saperi, in
specie la filosofia. Quanto più avanza la scienza, tanto
più indispensabile diventa la filosofia, oggi in specie
una filosofia che si allontani dallo spensierato
orientamento antiessenzialistico che predomina, sul quale
osserva Jonas: “L’antiessenzialismo della teoria dominante
che conosce solo i risultati de facto della
casualità evoluzionistica e non conosce alcuna essenza
valida, che li possa sanzionare, affida il nostro essere a
una libertà senza norme” (2). Il rifiuto apriorico delle
essenze, equiparate a un suono (flatus vocis)
senz’altro significato, è atteggiamento diffuso che
sconfina col nichilismo. Abbiamo perciò estremo bisogno di
un rinnovato sapere sulla natura dell’uomo e sul suo
posto nell’universo.
Dopo aver scelto il titolo della mia relazione, mi sono
reso conto che col riferimento alla natura umana esso
richiama quello di due notevoli saggi recenti di J.
Habermas e di F. Fukuyama. Il titolo del primo suona:
Il futuro della natura umana e l’altro L’uomo al di
là dell’uomo (Rizzoli, Milano 2003). L’evento
conferma che nelle tecnologie della vita è in gioco il
significato stesso di uomo e di natura umana, qualcosa che
concerne l’autocomprensione del genere. Gli esiti
collegati non potranno non esercitare un profondo e per
ora poco prevedibile influsso sulla politica: è possibile
che le conseguenze dell’impiego delle biotecnologie siano
ben superiori a quelle accadute col crollo del muro di
Berlino.
Negli
approcci di Habermas e Fukuyama, nati in contesti
culturali diversi e avendo alle spalle prospettive
filosofiche e antropologiche forse lontane, la domanda
centrale suona all’incirca: il concetto di natura umana
che si ritiene rilevante tollera o meno che l’uomo sia
costruibile e dunque manipolabile entro confini volta a
volta determinati? Tale questione ne introduce un’altra
che non sempre emerge in maniera diretta ma che influisce
sull’intero dibattito: è possibile cambiare la natura
umana? Desidero attirare l’attenzione sul fatto che
essa di per sé solleva una questione di possibilità
ontologica, non di liceità morale. La domanda, se è
imposta dalle applicazioni biotecnologiche all’ambito
delicato e antropologicamente geloso dell’embrione, della
fecondazione extracorporea, dell’intervento sul genoma
umano, genera problemi di alta complessità per il cui
schiarimento sembra impossibile non ricorrere alla
riflessione sull’uomo e al concetto di natura umana. Nell’
‘800 si era ancora persuasi di ciò e di conseguenza il
filosofo morale responsabile componeva trattati di
antropologia in ausilio della scienza morale e della
politica. Con l’ingresso del nichilismo speculativo, di
cui costituisce una manifestazione l’essor del
pensiero debole, non si ritengono più possibili risposte
filosofiche solide ai temi della vita buona, della natura
umana, di un’etica sostantiva e non soltanto procedurale
e formale. Un ‘debolista’ di classe quale è J. Habermas
cerca da almeno vent’anni di promuovere questa prospettiva
che implica una diversa autocomprensione dell’uomo e della
filosofia: “Oggi, superata la metafisica, la filosofia non
crede più in risposte vincolanti sulle questioni della
condotta di vita, personale e collettiva che sia”. La
filosofia “si limita a indagare le caratteristiche formali
dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai
loro contenuti. Certo tutto questo può sembrare deludente.
Ma che obiezioni potremmo mai sollevare contro questa
astensione ben giustificata?” (3).
Dinanzi a
questa corriva rinuncia - cui curiosamente contravviene
Habermas stesso che di fatto nelle pagine successive
difende posizioni sostantive - si fa più chiaro che le
questioni sollevate dalle biotecnologie richiedono di
porre nuovamente la domanda sulla natura umana, senza
risparmiarci alcune necessarie spese intellettuali. La
riflessione scientifica e filosofica esita a farlo: anzi
sussistono al presente obiezioni così forti contro tale
concetto che potrebbe forse convenire chiudere il dossier
e allontanarci in silenzio. E’ perciò ancor più
significativo che Habermas e Fukuyama lo richiamino in
servizio, il primo già nel titolo: ma con quali modalità?
Qui le vie tendono a divergere; per rendercene conto è
opportuno ripercorrerle in modo succinto. Successivamente
svolgeremo qualche spunto sulla natura umana, adottando
una riflessione ontologica sull’uomo, non un cammino di
antropologia filosofica.
I due
approcci risultano notevolmente diversi. La riflessione
ontologica è più sobria, incisiva, capace di stabilire i
limiti – molto vasti – entro cui si muove la complessità
dell’uomo, mentre l’antropologia filosofica è disciplina
dallo statuto alquanto incerto e ondivago. Socrate e i
suoi molti successori erano interessati all’uomo, non
all’antropologia filosofica, ambito novecentesco che può
esibire caratteri variabili dal conservatorismo al
progressismo, e che è spesso connesso a filosofie della
storia altrettanto diversificate. Di gran lunga precedente
all’antropologia filosofica, la riflessione ontologica
sulla natura umana non nutre nostalgie dell’uno o
dell’altro tipo. Standosene all’ ‘oggetto’ essa apre il
significato di che cosa sia esser uomo e quali siano le
sue possibilità, quale sia l’umanità dell’uomo. Tenta di
rispondere alla domanda: che cosa fa dell’uomo un uomo?
Quanto manca alla bioetica è proprio questa riflessione
che - individuando nell’umano il “fondamentale” e lo
“storico” e percependo che le quasi illimitate
manifestazioni storiche dell’umano sono possibili solo
entro i limiti di campo stabiliti dal fondamentale - può
delineare i tratti comuni e universali dell’uomo, ossia
costanti antropologiche e inclinazioni umane basali che
fluiscono dalla natura umana e che stabiliscono il confine
fra ciò che è umano e quanto umano non è (4).
1.
Habermas: un approccio etico per stabilire il futuro della natura umana
Esula dai
miei scopi l’esposizione compiuta delle posizioni di
Habermas: ci concentreremo sui due casi, cui egli destina
adeguato spazio, costituiti dalla diagnosi di preimpianto
sull’embrione e dagli interventi di modificazione del
genoma. Essi aprono scenari nuovi la cui rilevanza morale
“oltrepassa ampiamente la sostanza delle tradizionali
questioni politiche” (p. 19), e richiede attenti e lenti
processi di rischiaramento normativo sottratti alle
pressioni degli interessi e delle preferenze. Questi
viceversa pesano per l’autore in un’eugenetica liberale
che “trascurando ogni differenza fra interventi
terapeutici e interventi migliorativi – rimette alle
preferenze individuali degli utenti del mercato il compito
di definire gli obiettivi degli interventi correttivi” (p.
22). Nel caso del test preimpianto sull’embrione l’autore
chiede se sia compatibile con la dignità della vita umana
l’essere generato con riserva, cioè giudicato degno di
vita e di sviluppo, oppure no, in base agli esiti di una
prova genetica. Nel caso della manipolazione genetica si
domanda se essa non tocchi la stessa identità di genere, e
non intacchi la distinzione fra ciò che è spontaneamente
cresciuto e ciò che è prodotto tecnicamente. Dalle due
questioni emergono altre fondamentali domande, ossia 1) se
l'insieme di questi processi non cambi la nostra
comprensione etica del genere; 2) se la conoscenza ex
post della programmazione genetica del proprio
patrimonio ereditario effettuata da altri non riduca gli
spazi creativi della propria autonomia individuale negando
al soggetto di considerarsi l’autore indiviso della
propria vita, e comprometta le relazioni idealmente
simmetriche fra persone e libere e uguali.
“Stiamo chiedendoci se possiamo giustificare la tutela di
predisposizioni genetiche integre, non manipolate, facendo
appello alla indisponibilità dei fondamenti biologici
della nostra identità personale. La tutela giuridica
potrebbe trovare espressione in una sorta di ‘diritto a un
patrimonio genetico non compromesso da interventi
artificiali’. Un diritto che è già stato proposto dal
Consiglio di Europa e che non pregiudicherebbe affatto la
liceità di una eugenetica negativa fondata in sede
terapeutica” (p. 29). Secondo l’autore l’ingegneria
genetica potrebbe “modificare la nostra autocomprensione
di ‘esseri di genere’, nel senso che essa potrebbe
intaccare, assieme alle moderne concezioni del diritto e
della morale, anche i non aggirabili fondamenti normativi
dell’integrazione sociale” (p. 29). Conseguentemente egli
fa appello all’indisponibilità dei fondamenti biologici
della nostra identità personale. Perciò la
strumentalizzazione della vita embrionale - quale emerge
nell’idea che il nuovo concepito è generato con riserva e
ammesso alla vita dopo un test genetico – “mette a rischio
quella autocomprensione etica del genere che è
discriminante per poter decidere, anche rispetto al
futuro, se noi vogliamo continuare a intenderci come
esseri che agiscono e giudicano in termini morali” (p.
71). Col riferimento ‘alle moderne concezioni del diritto
e della morale’ fanno ingresso due grandi domande: quella
sull’idoneità del solo diritto positivo a valere come
metodo di regolazione sociale, e quella se esso sia in
grado di esercitare un governo efficace della tecnica e
della volontà di potenza che vi si può manifestare. Tali
questioni sono in Il futuro della natura umana
appena accennate; il loro obiettivo rilievo induce a
tentarne una prima elaborazione, come faremo nell’Annesso.
In genere un grave problema soggiacente è se sia lecito
cambiare il mix finora vigente di naturale e di
volontario, spostando il confine fra caso e decisione; e
di rischiare nel test preimpianto, “la
strumentalizzazione di una vita umana – generata con
riserva – rispetto alle preferenze e agli orientamenti di
valore nutriti da terzi” (p. 33). Ciò violerebbe per
Habermas l’obbligo reciproco che gli uomini come membri di
una comunità morale si danno vicendevolmente, obbligandosi
l’un l’altro e accettando una simmetria di relazioni. In
altre parole gli esseri umani non sono individualizzati
solo dalle sequenze del DNA ma pure dal processo di
socializzazione: “Solo nella sfera pubblica di una
comunità linguistica, l’essere di natura si costituisce
come individuo e come persona dotata di ragione” (p. 37).
La
critica del liberalismo eugenetico da parte di Habermas
non si indirizza alla valenza terapeutica delle
biotecnologie, ma a quella programmatoria e decisoria di
interventi ‘migliorativi’. Il perno dell’argomentazione
risiede nel fatto che l’intervento migliorativo rischia di
alterare quell’uguaglianza casuale della nascita cui tutti
i cittadini devono l’inizio del loro esclusivo destino di
socializzazione. Mantenendo giuridicamente indisponibile
la casualità della nascita, i cittadini si garantiscono
uguaglianza di accesso alla comunità ideale dei soggetti
morali e alla comunità reale dei cittadini.
La
peculiarità del discorso habermasiano risiede nell’assunto
che su piano morale - nonostante i vantaggi che le
biotecnologie arrecano - non ci sono sufficienti motivi
per pagare il prezzo alto che esse esigono. Egli ritiene
che la grande spinta per un uso disinvolto della tecnica
in ogni campo della vita, non esclusi i fondamenti
biologico-genetici della specie umana, stia sollevando e
debba sollevare una reazione riflessiva che si confronti
con le nuove tecniche e individui nuclei umani
indisponibili all’oggettivazione tecnologica. Egli chiede:
“possiamo considerare l’autotrasformazione genetica della
specie come un mezzo per accrescere l’autonomia
individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione
normativa di persone che conducono la loro vita portandosi
mutuo ed ugual rispetto?” (p. 31). In Habermas assume
speciale rilievo un’etica del genere che assume come
primari i temi dell’uguaglianza e della reciprocità.
Il
problema dell’uguaglianza umana verrà infatti reso assai
più acuto dalle pratiche prenatali tanto di prevenzione
della nascita di un bambino tarato, quanto di eugenetica
in cui si procede a selezionare e ‘migliorare’ l’esito (il
bambino). In effetti con la diagnosi pre-impianto
sull’embrione, alcuni singoli si arrogano il diritto, che
loro non compete, di stabilire che cosa è degno di vivere
e che cosa no. Inoltre “Se si accetta come normale la
generazione e l’impiego di embrioni ai fini della ricerca
medica, si trasforma anche la percezione culturale della
vita umana prenatale, con il risultato di rendere sempre
meno affilato il sensorio morale che stabilisce i limiti
entro cui far valere il calcolo ‘costi-benefici’. Oggi noi
avvertiamo come oscena questa prassi di reificazione. Ci
chiediamo anzi se vorremmo davvero vivere in una società
in cui il rispetto narcisistico per le preferenze
personali venga affermato al prezzo di un’insensibilità
verso i fondamenti normativi e naturali della vita” (p.
23). Il fatto è che l’alterazione, sia pure migliorativa,
del genoma, e la programmazione eugenetica introducono
nuove forme di disuguaglianza fra gli uomini.
Conseguentemente l’autore suggerisce l’indisponibilità dei
fondamenti genetici della nostra esistenza corporea (p.
25), per cui sono possibili interventi ‘negativi’ di tipo
terapeutico e non interventi ‘positivi’ di manipolazione e
alterazione.
Ciò
presuppone una condizione naturale del genoma, e un
recupero almeno parziale del concetto di natura umana, che
l’autore opera differenziando in senso nettamente
antistoricistico e antidebolistico natura (umana) e
cultura, la prima universale e la seconda invece situata:
“Non si tratta dunque della cultura che è in ogni luogo
diversa, bensì dell’immagine che le diverse culture si
fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo
identico a sé sul piano della universalità antropologica”
(p. 41). E’ notevole che l’assunto habermasiano vada in
direzione opposta alle posizioni che intendono l’idea di
natura come irrimediabilmente culturale e situata. La
preservazione del genoma umano adombrata nelle posizioni
suddette può essere considerata come un’istanza normativa
di rispetto dell’essenza umana: essa introduce un dubbio
fondato sulla possibilità di rispettare la dignità umana
se accettiamo di manipolare le sue basi genetiche e
biologiche.
2.
Fukuyama: il tentativo ‘neoaristotelico’ di ristabilire il
concetto di natura umana
In Our Posthuman Future (trad. it.
L’uomo oltre l’uomo, cui ci riferiremo) Fukuyama elabora la sua prospettiva sulle biotecnologie,
imperniandola attorno al concetto di natura umana che
assume importanza reggente. Negli intenti dell’autore
l’argomentazione vuole seguire il modello aristotelico
di dissertazione in merito alle questioni di natura
e di politica (p. 21). Muovendosi in senso contrario
all’antiessenzialismo prevalente, l’autore non
rifiuta i concetti di natura umana e di diritto naturale:
“La natura umana esiste, è un concetto pregnante e ci
ha fornito un elemento di continuità nella nostra evoluzione
come specie. Insieme alla religione, rappresenta ciò
che definisce i nostri valori fondanti. La natura umana
attribuisce la forma e stabilisce i confini dei tipi
possibili di regime politico, quindi una tecnologia
abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo può
dar luogo a conseguenze perniciose per la democrazia
liberale e per la stessa natura della politica… Sebbene
vi fossero forti divergenze fra chi cercava di definirla
[la natura umana], nessuno contestò mai la sua importanza
come fondamento dei diritti e della giustizia. Sostenitori
del concetto di diritto naturale furono i padri fondatori
degli Stati Uniti…Negli ultimi cento o duecento anni,
però, tra gli intellettuali e gli accademici di filosofia
questo concetto è caduto in disgrazia” (p. 14 e p. 22).
Oltre Fukuyama allude al “pregiudizio contemporaneo
contro il concetto di natura umana” (p. 23), e alla
possibilità che le biotecnologie ce la facciano perdere:
“Ma in che cosa consiste questa essenza umana che potremmo
rischiare di perdere? Per un fedele potrebbe essere
un dono divino, la scintilla con cui nascono tutti gli
esseri umani. Da un punto di vista laico, invece, si
potrebbe trattare di qualcosa che appartiene alla natura,
cioè le sue caratteristiche tipiche condivise da tutti
gli esseri umani in quanto tali. In fin dei conti questa
è la posta in gioco nella rivoluzione biotecnologica”
(p. 140), e con essa la stessa base del senso morale
umano.
La scelta
metodica di non poter emarginare l’idea di natura umana
merita una sottolineatura, anche in rapporto alla scelta
diversa praticata sino a pochi anni fa dalla filosofia
politica di un Rawls, di un Dworkin fondata su un
approccio procedurale e contrattualistico. Esso, forse
idoneo per i bisogni di un pensiero volto a problemi
politici usuali, si manifesta in seria difficoltà
nell’affrontare i dilemmi proposti dalle biotecnologie,
che richiedono un ri-aggancio all’idea di natura e un
allontanamento dalla prospettiva kantiana. Questa, in cui
complessivamente si manifesta un rapporto disturbato con
la natura, procedendo a separare natura e libertà, assume
che l’etica opera realmente solo quando volontà e libertà
si esprimono separatamente dalle inclinazioni della natura
(umana).
L’elaborazione filosofica dell’idea di natura umana non si
spinge peraltro molto in là nelle pagine di Fukuyama, per
cui il richiamo ad Aristotele appare forse
sovradeterminato. Non vi è infatti ricorso all’analisi
ilemorfica e alla categoria essenziale di forma,
necessaria per stabilire il concetto di natura/essenza: la
teoria darwiniana che nessuna specie è portatrice di
un’essenza particolare significa appunto cancellare le
forme specifiche. “La definizione di ‘natura umana’ cui
farò riferimento in queste pagine è la seguente: la natura
è la somma delle caratteristiche e dei comportamenti
tipici della specie umana, originati da fattori genetici
piuttosto che ambientali” (p. 177s). In questo approccio
orientato al gene e che con la tipicità chiama in causa la
statistica, l’idea di natura umana in Fukuyama pare
ricondursi ad una sommatoria di fattori certo notevoli ma
che nella loro molteplicità e dispersione non sembrano in
grado di designare l’essenza/natura, richiamando invece
sue manifestazioni operative di vario genere. Impiegando
la concettualità aristotelica, la determinazione di
Fukuyama sembra includere tanto proprietà essenziali come
il linguaggio, la razionalità, il senso morale, quanto
proprietà accidentali come la statura, il peso, il colore
della pelle, la maggiore o minore loquacità.
Un’elaborazione più approfondita dell’idea di natura
(umana) dovrebbe a mio parere richiamare in servizio le
prospettive di Aristotele e di Tommaso, riprese dalle
rispettive tradizioni, almeno secondo due direttrici: a)
l’assunto secondo cui la natura è un invariante che
stabilisce i caratteri essenziali del genere umano,
include un elevato grado di universalità e difende un
carattere cui come uomini siamo legati, ossia che tutti
partecipiamo a qualcosa di comune, di invariante, di
metaculturale; b) l’idea di natura (e di vita) come
principio immanente di autocostruzione e di automovimento
(5). La seconda accezione sembra applicarsi validamente
alle attuali scoperte genetiche dove il genoma appare come
un codice interno di autocostruzione e di ‘programmazione’
dell’individuo, qualcosa che concerne il lato della
‘forma’ e che potrebbe favorire il superamento del
paradigma deterministico. In effetti la struttura genetica
dell’uomo rappresenta non una forma che ci determina in un
solo modo (determinatio ad unum), ma una forma che
schiude un campo di possibilità, un ventaglio di linee
aperte, e che verrà orientato e ulteriormente determinato
dalla libera attività del soggetto. Non dunque un soggetto
ricondotto al determinismo genetico di chi sostiene che
noi siamo i nostri geni, gradino estremo di un processo
riduzionistico che dapprima riduce l’uomo a corpo, e
successivamente il corpo al genoma.
Un
concetto di natura umana non-ontologico e
non-universalistico ma di tipo esclusivamente storico e
culturale è esposto al serio svantaggio di non essere
universalizzabile, di poter lasciare nelle mani dei
potenti di turno lo stabilire chi appartiene alla natura
umana e chi no. Nella presupposta riduzione
storico-culturale dell’idea di natura umana si individua
un limite maggiore del “Manifesto di bioetica laica”
pubblicato nel 1996: “Al contrario di coloro che
divinizzano la natura, dichiarandola qualcosa di sacro e
di intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel che
è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle
decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea
di natura… i criteri per determinare ciò che è lecito
e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da
una pretesa distinzione tra ciò che è naturale e ciò che
naturale non sarebbe” (Il sole-24 ore, giugno 1996,
p. 27). Al di là dell’uso equivoco del termine ‘natura’,
che non ci si cura di definire se sia quella fisica o
qualcosa che assomiglia all’essenza, nel testo al concetto
di natura si sottrae ogni oggettività e normatività,
sostenendo che essa sia totalmente culturale, dipendente
soltanto dalle scelte e dai valori degli uomini. Il
problema del rapporto fra natura e cultura è dunque
segato alla radice. Poiché la natura umana è in ipotesi un
costrutto culturale e storico, non esisterà nulla di
naturale e nulla di innaturale, ma tutto sarà
convenzionale e storico: siamo dinanzi ad una forma
esplicita di “nichilismo delle essenze”. Nell’intento di
dissolvere le essenze si manifesta infatti un volto
fondamentale del nichilismo. Tale nichilismo delle essenze
si può anche chiamare un ‘antinaturalismo’ oppure un ‘denaturalismo’,
intendendo appunto con ciò la posizione filosofica che
ritiene nullo e privo di senso il concetto di
natura/essenza, come accade nelle posizioni
nominalistiche, empiristiche (Hume), dualistiche secondo
il dualismo Sein-Sollen (Kelsen). Difficilmente
potrà essere recuperata la nozione autentica di essenza
senza oltrepassare la razionalità pragmatica, strumentale
e debolistica che oggi viceversa prevale.
Osservo
inoltre che nella posizione dipinta sono contenute le
premesse per abolire la differenza fra malattia, salute,
terapia (su ciò più avanti).
3. La natura umana e l’impossibilità di cambiarla
Sotto questo titolo affrontiamo una questione filosofica
decisiva, il che significa moltiplicarne le difficoltà
se si considera che l’orientamento delle scuole filosofiche
contemporanee si unifica nella diffusa propensione scettica.
La riflessione sulla natura umana non sfugge a tale
temperie, di cui anzi sembra soffrire in modo particolare
in quanto produce difficoltà teoretiche, che bloccano
l’argomentazione razionale e finiscono per addossare
le decisioni sulle biotecnologie alla scienza, alla
politica, al diritto. E’ nelle biotecnologie problema
scottante, sotteso ad ogni discussione su di esse ma
spesso alluso solo di sbieco, se sia possibile
cambiare la natura umana. La modernità può essere letta
in vari suoi aspetti come un tentativo di cambiare o
andare contro inclinazioni fondamentali della natura
umana: nel comunismo mediante l’abolizione della proprietà
privata e nel tentativo di far prevalere la solidarietà
di classe contro quella del gruppo familiare, nelle
biotecnologie con l’intento di pervenire all’oltreuomo
trasformando la natura umana.
A questo crocevia si materializza l’interrogativo sulla
trasformabilità dell’uomo, in merito al quale una risposta
può essere trovata solo se le domande giuste sono state
formulate. Ora sembra che perfino la domanda sia diventata
difficile nel senso che l’idea di natura umana, che
ha forti radici nel senso comune e che è poi elaborata
filosoficamente, è diventata qualcosa di estraneo su
cui l’accordo è raro e il disaccordo frequente: in larga
parte della cultura scientifica e filosofica paiono
mancare i presupposti minimi per poter impostare con
speranza di successo l’argomento. D’altra parte la diffidenza
contemporanea verso il concetto di natura umana non
ha ragione di esistere, una volta che si è determinata
la natura umana in modo adeguato tramite una determinazione
essenziale capace di ospitare una grande varietà di
comportamenti. L’uomo pratica il mestiere di cercatore
e cacciatore delle essenze molto più frequentemente
di quanto si pensi e – più curiosamente ancora
– continuerà a praticarlo contro ogni invito scettico
di smettere un tentativo considerato inutile, superato,
sterile. Non verrà mai il tempo in cui non chiederemo
più “che cosa è l’uomo?”
Una volta afferrata l’idea di essenza, si percepisce
che le essenze sono immutabili, ‘eterne’, non soggette
alla presa della volontà di potenza e di trasformazione.
Se l’uomo è un essere dotato di logos (ragione
e linguaggio), se è un animal rationale,
intuiamo agevolmente che sino a quando ci sarà l’uomo,
egli avrà queste qualità essenziali; e che è del tutto
impossibile trasformare l’uomo togliendogli tanto la
ragione quanto il linguaggio. Che le essenze siano eterne
e immutabili significa esattamente questa impossibilità,
la quale rilancia però la domanda su che cosa
nel soggetto umano è aperto alla trasformazione biotecnologia
(6).
All’indagine si aprono tre cammini. 1) Possiamo mutare
un gran numero di elementi ‘accidentali’, ossia elementi
che fanno parte dell’uomo, ma non ne stabiliscono l’essenza,
quali sono la statura, il grado di intelligenza, il
colore degli occhi, il sesso, la magrezza o la grossezza,
la velocità dei movimenti, ecc.. Dio mi guardi dal sostenere
che accidentale significhi secondario e ininfluente!
Un uomo privo di molte malattie di origine genetica
e dotato di memoria acuta e di gradevole aspetto si
trova avvantaggiato rispetto ad un altro senza tali
proprietà. Molte qualità dunque che definiamo col linguaggio
preciso della filosofia come accidentali, rivestono
per noi e per gli altri massimo rilievo, ma il loro
mutamento non provoca un cambiamento di natura, non
produce una trasformazione sostanziale, cioè un cambiamento
da un ente-sostanza a un altro ente-sostanza appartenente
ad un diverso genere. Sostenere l’immutabilità
delle nature non significa minimamente negare il mutamento,
la trasformazione e il loro impatto sulla nostra vita,
ma neanche significa accogliere l’idea che mutamenti
di quantità a un certo momento si ribaltino in mutamenti
di qualità, ossia di essenza.
2) Un’altra importante linea di argomentazione concerne
il livello morale, dove l’intervento delle biotecnologie
sull’uomo può generare una diversa sensibilità morale,
non nel senso di mutare oggettivamente la linea che
divide bene e male, ma di cambiarne la percezione che
ne abbiamo, variando la nostra attenzione etica. Trasformazioni
accidentali dell’uomo possono alterare il senso morale
fondamentale che portiamo in noi, ossia accentuare,
indebolire o colorare diversamente le inclinazioni basali
inscritte in noi e che sono alla base della moralità.
Ciò può accadere rinforzando alcune inclinazioni (ad
es. l’inclinazione a persistere nell’esistenza con l’allungamento
della vita) e indebolendone altre come l’inclinazione
a conoscere la verità. Oltre al problema di acquisire
conoscenza della eventuale relazione causale fra geni
e inclinazioni, si pone quello di mantenere desto il
moral sense, evitando che differenze indotte
biotecnologicamente snaturino il senso di uguaglianza,
di rispetto dell’altro, di desiderio di conoscenza,
di sentimenti di giustizia, di pietas per il
debole, che sono propri dell’uomo; in certo modo quella
che Habermas chiama l’autocomprensione etica del genere.
3) Con trattamenti del genoma è possibile influire sulle
relazioni umane e quelle sociali, modificando le differenze
fra individui e cambiando la percezione che il soggetto
ha di se stesso come singolo e nel rapporto con gli
altri. Il fatto è che risulta possibile impiegare in
modo ancipite le tecnologie genetiche, per aumentare
le differenze oppure per diminuirle, per una politica
razzista e antiegualitaria alla Nietzsche oppure per
una politica egualitaria giacobina. Nel primo caso col
ricorso all’eugenetica potenziante arriveremo finalmente
a dare concretezza alla profezia nicciana dell’Ubermensch,
finora sempre smentita, nella versione del superuomo
genetico? E con l’altro arriveremo agli schiavi felici
tutti uguali? L’influsso politico e sociale delle
biotecnologie apre un campo immenso e per ora
poco battuto, che si affianca a quello altrettanto delicato
delle conseguenze morali delle trasformazioni biotecnologiche.
Pur senza assumere che i soli mutamenti del soggetto
siano dovuti alla linea genetica, nelle trasformazioni
genetiche vi saranno geni la cui manipolazione condurrà
a trasformazioni accidentali lievi dell’uomo;
e altri geni la cui manipolazione produrrà trasformazioni
accidentali profonde dell’uomo: pensiamo ipoteticamente
a manipolazioni che incidano sulla forza della mente
e le abilità cognitive, oppure sull’inclinazione sessuale.
La plausibilità tecnica di queste prospettive rilancia
il tema della loro liceità.
L’aver stabilito che non si può cambiare la natura umana
potrebbe avere l’esito paradossale del quietismo:
non preoccupiamoci di come andranno le cose perché comunque
avremo sempre a che fare con uomini, non potremo evadere
dalla natura umana! Esito infausto in quanto se non
possiamo cambiare l’essenza umana, diventa proprio allora
acutissima la domanda sull’entità dell’intervento manipolativo
‘accidentale’ che è lecito praticare. Poiché esso è
l’unico alla nostra portata, ci interpella più che
mai. Ed è su questi aspetti che ferve la battaglia bioetica,
nel confronto fra posizioni libertarie permissive, posizioni
che pongono limiti ricorrendo alla leva di un’etica
della responsabilità anche collettiva, posizioni ispirate
da una morale utilitaristica in cui il fine giustifica
i mezzi, posizioni ontologiche che individuano nuclei
indisponibili i quali non possano essere assoggettati
al criterio dell’utile e della convenienza terapeutica
per altri.
Uno dei maggiori rischi dell’eugenetica liberale è la
richiesta di allentare i controlli in favore dell’autonomia
individuale, che spesso conduce al piano inclinato del
‘fai da te’, in cui potrebbe affermarsi l’idea che ogni
trasformazione accidentale è lecita perché non muta
la natura umana. In realtà molti altri fattori
possono intervenire nella valutazione etica, legati
al rapporto con gli altri e ai valori fondamentali che
devono essere rispettati. Una trasformazione accidentale
innocente sembra quella concernente l’aumento di statura.
Eppure non può essere concessa senza beneficio di inventario
perché soggetti differenziati in statura molto al di
là delle normali differenze naturali possono dar origine
a pericolose discriminazioni. Il gruppo di coloro che
sono altissimi per manipolazione può sviluppare sentimenti
di superiorità e di dominio verso gli altri e viceversa
questi ultimi sentimenti di soggezione e al limite di
sudditanza verso gli alti. Affermare ‘io sono mio e
faccio di me quello che voglio’ è un’espressione antisociale
che le biotecnologie potrebbero rendere frequente.
Tiriamo
alcune somme del percorso intrapreso. L’essere umano è
profondamente plastico, dotato di caratteri soggetti a
mutamento: egli è una sorta di camaleonte della creazione.
Non è però pienamente indeterminato, un essere al quale
nulla sia proprio e specifico. Il fatto che egli sia tanto
plastico (ma non in-forme) deriva dalla sua natura che è
quella un essere materiale e spirituale, di una persona:
ed è ciò che assicura ad un tempo la sua plasticità e la
sua fondamentale invarianza di essenza.
Al di là
dell’impossibilità di cambiare l’essenza umana rimane la
possibilità di migliorare l’uomo, ossia certe sue qualità
tanto fisiche quanto culturali e spirituali. Si aprono qui
due strade che sommariamente chiamerei del miglioramento
culturale e del miglioramento genetico ed eugenetico: la
prima guarda verso l’umanesimo e si impernia
sull’educazione e la coltivazione dell’uomo, ed è strada
da sempre percorsa con esiti alterni ed oscillanti. La
seconda è relativamente nuova e non sappiamo ancora come
possa essere realizzata. Intravediamo la differenza fra
disponibilità non manipolante del genoma a fini
terapeutici e sua indisponibilità per operazioni di
selezione eugenetica. Supponendo, come più di una volta è
il caso, che esistano malattie genetiche (siano esse
monogeniche come la talassemia, ossia attribuibili
all’alterazione di un solo gene, o plurigeniche), non
sussistono motivi per negare interventi terapeutici sul
genoma, ossia interventi volti a restituire una normalità
fisiologica di funzionamento. Ben diverso è l’intervento
sul genoma a scopi eugenetici, fra cui quello di creare
una sottoclasse d’individui umani dotati di
caratteristiche genetiche e fisiche superiori a quelle di
altri. Dunque una manipolazione volta non a restituire una
normalità, ma a creare una differenza.
4.
Persona e unità dell’uomo
L’analisi
svolta ha chiamato in causa il concetto di natura umana,
lasciando però nello sfondo quello di persona e la
domanda sull’unità dell’uomo, su cui un richiamo
appare ora necessario, dal momento che le trattazioni
antropologiche e morali sulle biotecnologie sembrano
dimenticarli o comunque assumere come allant de soi
la completa separabilità fra corpo e anima. Questa
separabilità induce a trascurare l’indagine concernente i
riflessi della manipolazione corporea sulla vita della
psiche. In proposito una visione antropologica
ipersemplificata diventa un via libera etico ad
intervenire sull’uomo, ponendosi come un’autorizzazione al
dominio delle biotecnologie sulla dimensione corporea.
Chi è l’uomo e che cosa la persona? su questi temi la
storia della filosofia ha percorso un cammino di progresso
dai Greci a noi, in cui centrale è stato l’apporto della
riflessione biblico-cristiana. Infatti nella nota
definizione aristotelica che suona: homo est animal
rationale (Zoon logon echon), l’uomo è
definito mediante il genere prossimo e la differenza
specifica, in una maniera che non rende pienamente ragione
della sua originalità e non-assimilabilità ad elemento del
cosmo. Dopo l’avvento del cristianesimo incontriamo in
Boezio la prima decisiva determinazione della persona:
rationalis naturae individua substantia. Aristotele
definisce l’uomo mediante il riferimento alla sua
natura/essenza, Boezio la persona nella sua sostanzialità
spirituale, ossia nella sua identità metafisica
inoltrepassabile, come qualcosa di originale e di
irriducibile al cosmo. Tuttavia le due determinazioni si
collegano nel senso che la prima incammina verso la
seconda, poiché è proprio della natura umana
individuata in un singolo l’essere persona. Ogni
essere che è dotato di natura umana e appartiene per la
sua dotazione genetica al genere umano è per ciò stesso
persona (8).
Nonostante
le rielaborazioni, gli opportuni approfondimenti e le
critiche più o meno pertinenti cui è stata sottoposta,
la determinazione boeziana si pone come un punto di
svolta nella storia universale della filosofia e come
un riferimento imprescindibile: con essa il grandioso
tema della persona, introdotto per sempre nella cultura,
continuerà a dare i suoi frutti e a compiere il suo
percorso nella storia universale. Un cammino che è ancora
al suo inizio, se si pone mente alle aree di civiltà
ancora alquanto ristrette in cui è riconosciuto il ‘principio-persona’.
Numerosi spazi geoculturali solo recentemente cominciano
ad incontrarlo, sì che esso celebrerà la sua fecondità
quando sarà riconosciuto universalmente, oltre
il mondo storico in cui prese forma. Se vogliamo evitare
espressioni vuote, parlare di dignità della persona
significa che l’uomo ha valore, che non si riduce a
cosa. Ciò induce a cercare l’ “irréductible
dans l’homme, ossia ciò che è originariamente e
fondamentalmente umano, [di] ciò che costituisce l’originalità
piena dell’uomo nel mondo…Irréductible significa
anche tutto ciò che nell’uomo è invisibile, che è totalmente
interiore, e per cui ogni uomo è come il testimone
evidente di se stesso, della propria umanità
e della propria persona” (7). Le posizioni personaliste
affermano appunto che nell’uomo vi è qualcosa di irriducibile
alla natura cosmica: l’uomo non è un oggetto del mondo,
ma un ente dotato di autocomprensione ed esperienza
di sé come eventi spirituali. Il personalismo si colloca
agli antipodi del recente radicalismo antropologico,
che prima mette da parte l’idea di persona e poi quella
di natura/essenza umana, per approdare all’uomo come
prodotto del caso.
Una volta acquisito che la dignità di fine dell’individuo
umano è salvaguardata se questo è persona, ossia una
totalità concreta, un tutto che non è subordinato alla
specie, e non vale perciò solo come un transitorio punto
di addensamento dei rapporti sociali, rimane aperta la
domanda sulla ‘incisività antropologica’ delle
biotecnologie dal punto di vista della retroazione sullo
‘psichico’ dell’intervento sul corporeo. Difficile
questione, che non sembra poter ricevere risposta adeguata
se non si prende in conto un’antropologia unitaria, in cui
cioè l’uomo esiste come essere unitario, come un tutto,
corpore et anima unus. Molto dubbio appare l’assunto
secondo cui sarebbe possibile intervenire quasi
illimitatamente sulla corporeità umana quasi che essa non
facesse parte della persona e il corpo fosse un
indifferente, qualcosa che può venire affidato senza
problemi alla tecnica, e la cui manipolazione
risulterebbe senza effetti sulla persona. Se questa è
tale nell’unità dell’anima e del corpo, la considerazione
antropologica dovrà prendere le distanze dal dualismo
cartesiano fra res extensa e res cogitans
che spesso è il presupposto del modello di uomo che le
biotecnologie presuppongono, quando non sia invece uno
schietto monismo materialistico. Una corporeità separata
dalla persona e analizzata in vitro non è più portatrice
di senso e finisce nel meccanicismo. Analogamente deve
dirsi per la complessa sfera della sessualità umana che
rimane incompresa nel dualismo e nel monismo. Tali
inconvenienti non sono facilmente aggirabili muovendosi
solo sul piano di un’argomentazione morale, che intenda
allontanare i rischi delle biotecnologie ricorrendo
all’etica del genere.
5. Sui concetti di malattia e di terapia
Le idee
di essenza e di natura avanzate in questo saggio implicano
una filosofia che si sottragga almeno in parte
all’empirismo radicale che risolve differenze di
qualità/essenze in mere differenze di quantità. Una
filosofia del genere è oggi rara per l’antiessenzialismo
indotto da generalizzazioni pseudoscientifiche
dell’evoluzionismo che qui mostra una valenza nichilistica.
Quando questa si esercita sulla natura umana, cerca
velleitariamente di privarla di ogni necessità, di
considerarla completamente trasformabile e in sé priva di
un senso, che le dovrà essere attribuito dal soggetto. Un
esito di questo processo è la attenuazione sino alla
cancellazione delle differenze fra interventi terapeutici
e interventi ‘manipolativi-migliorativi’, nell’intento di
rimettere alle preferenze individuali dei soggetti,
all’ingegnere genetico e alle regole del mercato il
compito di gestire l’intero ambito della salute, della
terapia, della selezione genetica. Coerentemente N. Agar
ha scritto: “I liberali dubitano che il concetto di
malattia possa servire a risolvere, in sede di teoria
morale, i problemi posti dalla distinzione fra terapia e
selezione genetica” (citato da Habermas, p. 22). Su
questo importante aspetto che chiama in causa un concetto
reggente di ogni medicina, quello di malattia, ora ci
soffermiamo nell’intento di trovare criteri per separare
il momento terapeutico da quello ‘potenziante’.
Le idee di malattia e terapia
necessariamente rinviano alla natura come
normalità di funzionamento, alla malattia come scostamento
da tale normalità, e alla terapia come ricostituzione
della normalità. La medicina come arte e scienza e l’idea
di terapia che le è immanente non possono venire esplicitate
senza fare riferimento all’idea di natura almeno come
normalità di funzionamento e correlato accertamento
anche statistico. In effetti l’idea di terapia è connessa,
dipendente e consecutiva a quella di malattia e quest’ultima
implica che vi sia una deviazione dallo stato
normale, cioè dalla condizione di salute, che
costituisce la “condizione naturale”. Ora, se il concetto
di natura smarrisce ogni rilevanza obiettiva almeno
fenomenologicamente accertabile, e diventa soltanto
il prodotto culturale storicamente variabile di scelte
e decisioni del singolo in cui si esprimono i
suoi desideri, impulsi, istinti, anche i concetti di
malattia e di terapia andrebbero abbandonati.
Se niente è di per sé naturale e normofunzionale, neppure
lo stato di salute lo è, e neppure la declinazione dal
naturale (ossia la malattia) ha senso: conseguentemente
cade il concetto di terapia. Più in generale viene compromesso
il concetto di medicina ippocratica, che è basata su
poche ma nodali nozioni che ne sostengono l’impalcatura:
il concetto di naturale quale normalità di funzionamento,
la malattia come deviazione da una condizione naturale
o normale, la terapia quale azione volta a ristabilire
la salute.
Ora l’eugenetica ‘negativa’ o terapeutica non può venire
giudicata sfavorevolmente a priori: non vi è nulla di
censurabile bensì di meritorio nel curare le malattie
genetiche, a condizione che lo scopo terapeutico non
proceda ad autoinvalidarsi mediante la violazione del
principio per cui l’essere umano non può mai diventare
mezzo per altro o altri. La gestione concreta dell’eugenetica
pone e porrà una miriade di delicati problemi che non
possono essere soltanto previsti a tavolino. Indubbiamente
occorrerà evitare una eugenetica che violi il principio
di uguaglianza naturale del genere, e che introduca
differenze antropologicamente rilevanti fra individui
e gruppi umani.
Nonostante
la diversità di linguaggio filosofico e di orizzonti
di riferimento, vi sono somiglianze fra le posizioni
di Habermas e quelle di Fukuyama, fra cui il significativo
mantenimento della differenza fra terapia genica ed
eugenetica: la prima a scopo curativo, l’altra volta
a interventi selezionanti, migliorativi e potenzianti.
Entrambi si esprimono criticamente sull’eugenetica liberale,
ossia su un impiego della genetica che conduca al superamento
della differenza fra terapia e potenziamento, o che
proceda a selezionare fra coloro cui si concede di continuare
lo sviluppo e coloro che vengono soppressi.
6.
Digressione sui rischi del “riduzionismo contenutistico”
Assumo come provato che le scienze, cercando leggi e
regolarità per singoli ambiti del cosmo, costruiscono
modelli semplificati, in cui cioè alcuni fattori non
vengono considerati per evitare un’ingovernabile complessità
del problema, e che pertanto risultano validi entro
certi limiti: si tratta del riduzionismo che chiamerò
metodologico, nel senso che alcuni fattori sono
‘ridotti’ ossia semplificati o tralasciati. Costruendo
legittimamente modelli di realtà in cui entrano un ristretto
numero di variabili, le scienze dovrebbero essere consapevoli
dei limiti del metodo che adottano. Quando ciò non accade,
spunta una seconda forma, pericolosa, di riduzionismo,
quella contenutistica che presenta due versioni.
Nella prima ciò che è stato tralasciato sul piano metodologico
volto a gestire la complessità, viene considerato ontologicamente
inesistente o irrilevante; nell’altra si cerca di riportare
altri livelli di realtà solo al livello empiricamente
accessibile alle singole scienze. Nel problema antropologico
il riduzionismo di secondo tipo significa che, scoperto
un nuovo campo di indagine e le relative verità e spiegazioni,
si cerca di riportare o ridurre ad esse senza residui
l’uomo. A titolo di esempio cito il riduzionismo genetico:
accadono importanti scoperte genetiche e puntualmente
si presenta il tentativo di spiegare tutto con i geni
(analogamente nel campo delle neuroscienze). Si può
però domandare: siamo solo l’insieme dei nostri geni?
O l’insieme delle nostre sinapsi?
Il riduzionismo contenutistico avanza l’idea secondo
cui “una realtà x è null’altro che…”; spesso la riduzione
è effettuata nel senso di riportare senza residui il
superiore all’inferiore, ad es. la mente al cervello
entro l’assunto apriorico che la realtà dell’uomo è
null’altro che materia organizzata in vari modi e in
vari modi manipolabile. In genere il limite di tale
riduzionismo è di considerare inesistente quanto è inconoscibile
mediante l’accertamento empirico, dimenticando l’imperfezione
dei modelli e il fatto che essi riguardano parametri
misurabili che non hanno presa su ciò che non è empirico.
Al riduzionismo contenutistico si può addebitare il
difetto di non saper fronteggiare la sfida della complessità,
l’illusione di aver risolto i problemi quando essi sono
stati appena scalfiti. La riduzione della qualità a
quantità, delle differenze di essenza a differenze di
grado (intensamente praticata dalle scuole empiristiche),
dell’intellettuale-spirituale al corporeo, del non-necessario
e contingente al deterministico risultano modalità
frequenti di riduzionismo. Spesso tale approccio esamina
un fattore per volta, ritenendo senza giustificati motivi
che l’intero risulterà dalla somma dei vari fattori,
senza considerare che l’interrelazione non la consente.
I sensi umani presi uno ad uno probabilmente funzionano
similmente a quelli di un cavallo, ma l’uomo non è un
cavallo perché i suoi sensi operano in sinergia con
l’intelligenza.
Ad un certo impiego dell’ingegneria genetica è immanente
un conflitto preoccupante: da un lato si assegnano al
tecnico o ai genitori grandi possibilità di scelta nei
confronti del futuro nato, ma tali scelte tendono oggettivamente
a ridurre per lui le contingenze e il ventaglio delle
possibilità, di modo che si dà proporzione diretta fra
mutamento delle caratteristiche individuali e riduzione
dello spazio del possibile. Né sussistono elementi apriorici
per stabilire che la sostituzione del casuale col pianificato
sia la soluzione ottimale, in particolare a livello
di genere. Una volta che si sia ammessa una qualche
forma di autoplasmabilità dell’io, rimane come grande
domanda l’invenzione di un giusto mezzo fra fissismo
genetico e illimitata modificabilità genetica (8).
7.
Epilogo
1) Due
domande ci hanno accompagnato lungo il capitolo, la prima
espressamente formulata, la seconda rimasta nello sfondo:
possiamo cambiare la natura umana? Abbiamo il diritto di
cambiarla? La risposta è negativa in entrambi i casi, e il
no alla prima non deve far scomparire i motivi del no alla
seconda: anche se fosse possibile cambiare la natura umana
non sarebbe lecito farlo, per le inaccettabili
discriminazioni che ciò comporterebbe. Naturalmente
diversa è la questione quando si tratta di interventi
terapeutici.
2)
Secondo Paul Valéry “Atene è la scoperta dell’individuo,
Roma la creazione del cittadino, Gerusalemme la
rivelazione della persona”. In vario modo le tre città
storico-mondiali hanno favorito il rispetto della persona
nella sua integrità, inviolabilità e “non-patrimonialità”,
ossia nel suo carattere non-mercantile o commerciale.
Le biotecnologie vanno ad incidere su una situazione
spirituale dell’occidente in cui si confrontano due
modi estremi, entrambi riduzionistici, di concepire
l’uomo. Quello per cui la natura umana è solo una costruzione
sociale, di modo che P. Ehrlich sostiene che i cittadini
delle democrazie hanno una natura umana diversa da quelli
che vivono sotto una dittatura; e quello che all’inverso
squalifica i fattori sociali-ambientali e punta sull’uomo
espressione solo dei suoi geni. La prima posizione,
di taglio storicistico e attenta ai fattori ambientali,
è stata a lungo forte e si è legata spesso a visioni
politiche di sinistra. L’altra, una forma di naturalismo
attento ai fattori genetico-ereditari e che può sfociare
nel determinismo biologico, risulta oggi in ripresa
e non sembra interessare un’area più di un’altra delle
visioni politiche. Nell’oscillazione fra natura e cultura
sembra prevalere il primo elemento. Il rapporto fra
la quota che nell’uomo occorre riconoscere all’ambiente
e quella proveniente dall’ereditarietà è comunque problema
lungi dall’essere risolto. Va anche considerata la discrasia
emergente fra due versioni di globalizzazione: quella
tecnico-economica che omogeneizza procedendo a cancellare
le differenze, e quella tecnico-genetica che ‘singolarizza’,
rendendo più sensibili e profonde le diversità fra i
soggetti.
3)
L’assunto secondo cui è impossibile mutare la natura
umana non deve paradossalmente indurre a disinteressarsi
delle biotecnologie (tanto non succederà niente
di importante…), ma a dedicare loro la più acuta attenzione.
Se infatti non possiamo diventare una specie che si
autocrea nel senso proprio e radicale del termine (sebbene
non manchino affatto fantasie di questo tipo), le biotecnologie
possono variare una grande quantità di fattori nell’individuo
e nei rapporti sociali, mutando il rapporto fra volontario
e naturale a favore del primo e ponendo nelle mani dell’uomo
un potere ancipite.
Da
una rinnovata meditazione antropologica può sorgere
il superamento della contrapposizione fondamentale che
ha afflitto il cammino della bioetica sin dalle origini,
ossia la polarità fra una bioetica di pura difesa da
ogni innovazione sulla scorta di principi tradizionali
e un’altra di mera giustificazione di ogni forma di
novità offerta dalla tecnologia. La prima diffidente
verso la scienza, la seconda pronta ad accogliere ogni
sua scoperta. La prima più presente in Europa in specie
nei Paesi latini e in Germania, l’altra prevalente nella
bioetica anglosassone e accolta in Europa dai fautori
dell’indirizzo liberale. Le due propensioni mostrano
limiti in quanto non pongono in maniera adeguata la
questione del bene umano, certo assai difficile in rapporto
alla diffusa situazione di scepsi del pensare filosofico,
già rilevata. La ricerca del bene umano e la sua parziale
attuazione si pone come il centro di ogni bioetica degna
di questo nome, nonostante i modi spesso conflittuali
sotto cui il bene umano è inteso.
4)
In un noto libro H. Rommen ha parlato dell’eterno ritorno
del diritto naturale (Die Ewige Wiederkehr des Naturrechts).
Forse le biotecnologie potranno stimolare un ‘eterno
ritorno’ della natura umana e dei suoi diritti fondamentali.
Un adeguato concetto di natura umana è a fondamento
dell’ordine politico e morale, forse in modo più diretto
che la religione la quale peraltro non marginalizza
la natura umana: piuttosto aiuta a conoscerla meglio,
a contribuire a che l’uomo si comporti secondo giustizia.
E’ di grande rilievo osservare che solo un ordine politico
fondato sulla natura umana e sui diritti naturali che
spettano all’uomo in virtù della sua natura, è giusto
e durevole: già Vico osservava che le cose portate a
forza fuori dal loro equilibrio naturale non vi stanno
né vi durano.
Annesso. Sul diritto positivo e il governo della tecnica
Il futuro della natura umana sotto l’incidenza delle
biotecnologie è da Habermas pensato secondo un’etica del
genere, che pena l’inefficacia dovrà presto generare esiti
normativi a livello giuridico e politico. In tale ambito
emergono domande sulla natura del diritto e sulla
tecnica, con il connesso tema se il pensiero
postmetafisico possa riuscire nell’impresa di governare la
tecnica quale espressione di volontà di potenza e mezzo
universale, ossia mezzo potente per ogni scopo.
Nella complessa costruzione habermasiana del mondo
dell’azione il diritto occupa un posto molto rilevante,
ampiamente trattato in varie opere e in specie in Fatti
e norme (Faktizität und Geltung). Derubricando
la ragion pratica a ragione comunicativa e procedurale,
gli scritti habermasiani fanno perno sul diritto positivo
che diventa polo di orientamento della vita civile.
Di conseguenza il problema della legittimità viene interamente
risolto in quello della legalità democratica della produzione
del diritto. Questo aspetto non è che un altro modo
per espellere il diritto naturale e per considerare
superata l’idea di ragion pratica, senza di cui
muta l’architettura della filosofia pratica: “Con la
teoria dell’agire comunicativo io ho scelto una via
diversa: al posto della ragion pratica subentra
la ragione comunicativa. E non si tratta solo di un
cambio di etichetta…la ragione comunicativa non è direttamente
produttiva di norme di azione”. L’accantonamento dell’idea
di ragion pratica, totale in Kelsen, viene ripreso in
senso postmetafisico da Habermas. In tal modo la concezione
proceduralistica del diritto risulta inconciliabile
con “l’idea platonica di un diritto positivo attingente
legittimità da un diritto superiore”, e perciò risulta
impossibile gerarchizzare diritto naturale e diritto
positivo. “Il diritto positivo non può più ricavare
la sua legittimità da una superiore legge morale, ma
soltanto dal procedimento di una formazione dell’opinione
e della volontà presuntivamente razionale” (1).
In
genere il motivo radicale per cui non si accoglie il
diritto naturale è che non si ammette l’esistenza di
una natura umana: il diritto naturale è valido in quanto
esprime la natura/essenza dell’uomo in cui circola qualcosa
di un Ordinamento superiore. Rimosso tale Ordinamento,
in tempi rapidi tende a risultare vuota anche l’idea
di natura umana: questa potrà essere accessibile ad
una considerazione immanente, ma in maniera progressivamente
più ardua. Parimenti non sembra risolubile il problema
della fondazione dei diritti dell’uomo. Questi si radicano
a profondità variabile nel diritto naturale e da qui
traggono la loro forza e permanenza. Se così non è,
pare difficile evitare che Cesare o il potere politico,
come li ha concessi, così li possa revocare o modificare
a proprio piacimento.
In tale contesto può accadere un cedimento al positivismo
giuridico assoluto di un Kelsen. Consideriamo infatti. Se
il diritto positivo è l’unico esistente ed esso non può
che essere un diritto posto (positum), e posto da
una volontà, diventa cruciale comprendere posto da chi,
per quali scopi e con quali contenuti. Sappiamo che per
Kelsen il diritto naturale è un bugia utile al più per il
popolo, mentre il diritto positivo non ha nulla da
spartire col giusto (dunque lo jus è totalmente
differente dal justum, nonostante la palese
affinità di radice che dichiara una sorgente comune). Ora
il diritto positum che non si ispira ad un diritto
sovrastante che lo misuri, è solo espressione di
un’adeguata volontà ponente: là dove il diritto non è
tradizione, è imposizione; un diritto che procede
interamente dalla volontà, la quale dice: volo, ergo
sum. In quanto espressione di volontà il diritto è
arbitrario e costantemente revocabile come ogni prodotto
del volere: il diritto esiste nella misura in cui la
volontà lo pone, ma questa volontà potrà in futuro volere
altro e perfino il contrario, secondo norme che si
configurano essenzialmente come ‘editti revocabili’: oggi
vigono i diritti umani, domani chissà. In effetti il
diritto vale come impresa variabile secondo il divenire
delle volontà, se non è pensato all’interno di un
ordinamento immutabile, il che significa che non tutta la
realtà si risolva in un universale divenire, senza causa e
senza scopo.
In Kelsen
si compie una ‘grande trasformazione’, quella che porta il
diritto da espressione della ragion pratica a
manifestazione del volere, a statuizione imperativa da
parte della sovranità, dotata di adeguata volontà ponente
e im-ponente, che sola crea il diritto e il torto, il
giusto e l’ingiusto. In tal senso col normativismo
kelseniano si configura l’ingresso del nichilismo nel
dominio giuridico. Su questo aspetto Nietzsche si è
espresso con esemplare chiarezza, rappresentando forse
l’antefatto tanto di Weber quanto di Kelsen: “Ma
l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e
attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e
pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo
abbastanza forte per questo – è la statuizione della
legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve
in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo
e di quel che invece deve valere come proibito e
illegittimo.. Conformemente a ciò, solo a partire dalla
statuizione della legge esiste ‘diritto’ e ‘torto’…
Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di
ogni senso… Un ordinamento giuridico pensato come sovrano
e generale, non come strumento nella lotta di complessi di
potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in
generale… sarebbe un principio ostile alla vita, un
ordinamento disgregatore dell’uomo, un attentato
all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via
traversa verso il nulla” (2).
Se il
carattere più proprio del positivismo giuridico è che solo
a partire dalla statuizione della legge positiva esistono
giusto e ingiusto, Kelsen è stato un nicciano, mentre per
Habermas si potrebbe parlare di un rischio di niccianesimo,
che non potrà essere pienamente esorcizzato sin quando il
diritto non verrà pensato non solo in via procedurale e
democraticamente deliberativa, ma anche in maniera che non
veda solo nel processo deliberativo e nella decisione del
legislatore l’unica sua fonte.
Habermas è d’altronde consapevole del paradosso implicito
nel modo di validità della legge positiva: “If the
function of law consists in stabilizing normatively
generalized behavioral expectations, how can this function
still be fulfilled by a law that can arbitrarily changed
and whose validity is due solely to the decision of a
political legislator?”
(3).
Col riferimento ai complessi di potenza la sentenza di
Nietzsche avvia a riflettere sulla tecnica e sul diritto,
poiché l’ideologia dello scientismo tecnologico è
penetrata in esso, conducendo a intenderlo come tecnica
giuridica mirata ad uno scopo efficace. Il diritto
riportato a mera procedura per ogni scopo è appunto il
diritto ridotto a tecnica, che ritiene di poter spazzar
via gli ultimi residui del diritto naturale che ancora
resistono. In tal modo il diritto si subordina alla
Tecnica, che si candida alla guida del mondo, poiché ha
compiuta coscienza di essere la forza massima a
disposizione della volontà di potenza: un mezzo
universale, un mezzo per ogni possibile scopo.
Acuta è perciò la domanda se, nonostante le migliori
intenzioni, il pensiero postmetafisico sia in grado di
controllare la tecnica: esso forse lo desidera e Il
futuro della natura umana è un attestato in proposito,
ma è in grado di operare ciò che desidera? Ci si può
servire della tecnica o la tecnica si serve di noi? Si può
addomesticare la volontà di potenza? Forse sì, ma a patto
di prendere le mosse da una filosofia altra da quella
postmetafisica. Questa sostiene che occorre porre un
limite alla tecnica, ma non sembra in grado di
individuare come sia possibile porlo, dal momento che pare
aver accolto l’idea di un divenire originario senza scopo
né causa, in cui vi è solo trasformabilità e processualità
(4).
La tecnica, compresa quella del positivismo giuridico
assoluto che sfocia nel nichilismo, non è il nostro
destino, piuttosto si pone come implicata in un pensiero
filosofico che non avverte più limiti o essenze da
rispettare e che sfocia in un aperto nichilismo delle
essenze (vedi sopra), dove queste sono ritenute
nominalisticamente un flatus vocis privo di
sostanza. Affinché la tecnica deviata in mera volontà di
potenza non sia l’unico esito, occorre fare perno su una
filosofia diversa da quella che ritiene possibile e
auspicabile un’illimitata trasformabilità dell’essere. Al
momento la situazione non è tranquilla, poiché non pochi
operano sconsideratamente per attribuire crescente libertà
di movimento alla tecnica. Il pensiero debole è forse
vittima dell’illusione di poterla prendere in mano e farla
servire a scopi umani, nel momento stesso in cui si vuole
come pensiero debole che assottiglia o congeda i concetti
di verità, essenza, stabilità. La pretesa spesso formulata
di governare la tecnica con l’etica appare postulatoria,
poiché l’etica senza metafisica, l’etica da sola rischia
di rassegnarsi all’idea che solo la scienza conosca e che
dunque solo essa abbia diritto a guidare l’uomo. Qui il
vecchio dogma positivistico procedente da Comte, tanto
spesso riproposto in mille fogge, lascia l’uomo sguarnito
dinanzi alla tecnica e alla sua volontà di potenza.
NOTE
*
Professore Ordinario di Filosofia della Politica
all’Università Ca’ Foscari di Venezia
٭
Il
presente contributo è tratto da V. Possenti, Il
principio-persona, Armando, Roma 2006, pp. 149-171.
(1)
Pascal, Pensées, n. 176, ed. Serini, Mondadori,
Milano 1970, p. 135.
(2)
Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, p.
26. Appena dopo Jonas osserva che “una riflessione sull’
‘immagine dell’uomo’ diverrà più imperiosa e pressante di
qualsiasi altra riflessione sia mai stata richiesta alla
ragione dei mortali” (p. 27).
(3) Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino
2002, p. 5 e p. 7 La traduzione italiana del titolo del
lavoro habermasiano non risulta corretta.
Il titolo originale Die Zukunft der menschlichen Natur.
Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik? è
stato reso Il futuro della natura umana. I rischi di
una genetica liberale, mutando indebitamente l’eugenetica
in genetica. Ciò che Habermas intende sottoporre a
critica è l’eugenetica che dipende dalle scelte, dalle
preferenze e dai gusti dei soggetti adulti, non la
genetica come metodo scientifico di conoscenza del genoma
umano.
(4) In rapporto alle biotecnologie G. E. Rusconi coglie
efficacemente la nuova centralità dell’idea di natura
umana, sebbene si arresti alla rilevazione del problema
antropologico, esprimendo un sostanziale scetticismo sulla
possibilità di comprendere che cosa sia natura umana: non
qualcosa di invariante, ma “soggetta a ridefinizione
continua” (Il Mulino, n. 4/2002, p. 67). A mio
avviso si può individuare nella renitenza a riflettere
sull’idea di natura umana per tenersi indenni dal cammino
ontologico, un limite notevole della bioetica italiana
cosiddetta ‘laica’ che definisce come ‘religiosa’ la
riflessione razionale e ontologica sull’uomo, sebbene
natura umana e diritto naturale non siano concetti
religiosi. Influisce in tale approccio la precomprensione
postmetafisica, la quale rischia di consegnare la
riflessione antropologica alle scienze e di attribuire
alla filosofia solo l’etica.
(5) Per Tommaso “essentia vel natura comprehendit in se illa
tantum quae cadunt in definitione speciei” (S. Th.,
I, q.
3, a. 3).
Sulla natura come principio immanente di automovimento cfr.
Fisica, l. II, 192 b 20s. La profonda modernità di
questo modo di intendere la natura (e la vita) è
evidenziata nel mio studio “Nature, life and teleology”,
The Review of Metaphysics, September 2002, pp. 37-60,
ora anche in V. Possenti, Essere e libertà,
Rubbettino, Soveria 2004.
I concetti di essenza e di natura sono fra loro molto
vicini. L’essenza di qualcosa (che risponde alla domanda:
che cos’è questo qualcosa?) si esprime nella definizione
che chiarisce che cosa quel qualcosa sia, mentre l’idea di
natura richiama il campo delle operazioni. Per l’Aquinate
il termine natura “videtur significare essentiam rei
secundum quod habet ordinem ad propriam operationem rei,
cum nulla res propria operatione destituatur” (De ente
et essentia n. 3).
In La casa di psiche (U. Galimberti, Feltrinelli,
Milano 2005), nella sezione dal titolo “la concezione
giudaico-cristiana della natura come terra da dominare”
(p. 376s), si osserva che con la creazione Dio ha
completamente rimesso la natura alle mani dell’uomo, che
ne dispone a piacimento: “così concepita la natura non è
più, come pensavano i Greci, espressione dell’ordine
immutabile della necessità, ma dominio di una volontà…”.
In realtà la Bibbia concepisce diversamente tale tema:
della terra che Dio ha donato all’uomo non si può fare
qualsiasi cosa, perché anche nella natura come cosmo e
ancor più nell’uomo esiste una dimensione del necessario
che non può essere valicata. Dio, ponendo nelle mani
dell’uomo il creato, non lo ha invitato a disfarlo e a
sventrarlo, né ha pensato ad un dominio tirannico
della volontà umana sulle cose, ma ad un dominio
politico e mite. L’antropocentrismo duramente
aggressivo verso l’uomo e il cosmo è moderno, laico e
spesso ateo, non biblico. E l’assolutezza della volontà,
che può mutarsi facilmente in volontà di potenza, risulta
un portato del cartesianismo, della sorprendente
‘teologia’ cartesiana secondo cui l’infinita volontà
divina, pienamente separata dalla sua sapienza e ragione,
avrebbe potuto creare monti senza valli e cerchi quadrati.
L’equazione, cara a E. Severino, secondo cui il Dio
cristiano è un nichilista tecnico poiché pretende di
creare dal nulla, e il cristianesimo un’espressione di
nichilismo, è un’arguzia che impressiona solo chi vuol
farsi impressionare.
(6)
In base a questi argomenti si percepisce l’impossibilità
di alterare in modo graduale l’essenza umana,
come pare sostenere Fukuyama (p. 296), che peraltro
in proposito oscilla osservando che fra gli scienziati
e i ricercatori è abbastanza diffusa la persuasione
che noi forse non riusciremo mai a modificare la natura
umana (p. 235). In ogni caso l’alterazione dell’essenza
non è un processo ma un atto istantaneo nel quale si
produce una nuova sostanza (e una nuova essenza). Si
apre in proposito un’affascinante ricerca sullo schieramento
dei nostri geni, e sull’individuazione di quelli più
decisivi, nel senso che la loro alterazione provoca
trasformazioni più incisive.
Giovanni
Fornero ha osservato puntualmente che “l’antropologia
postcartesiana, insistendo sul primato dell’agire
sull’essere, ha finito per negare l’esistenza di una
‘natura’ umana precostituita e per concepire l’individuo
come un ente creatore della propria entità, tramite un
processo di autodeterminazione che coincide con il farsi
stesso dell’uomo, il quale, secondo un’efficace
definizione di Ortega y Gasset, “è un gerundio e non un
participio: un faciendum e non un factum””,
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Il
Saggiatore, Milano 2005, p. 53.
(7)
K. Wojtyla, Perché l’uomo, Leonardo, Milano 1995,
p. 47 e p. 52. Sull’idea di persona cfr. gli studi:
V. Possenti, Pensare la persona, dispense del
corso di Storia della filosofia morale, Cafoscarina,
Venezia 2001; Id., “Filosofia
della persona e personalismo metafisico, Una
filosofia per la transizione, Massimo, Milano 1984,
pp. 80-105; Id., “Noi che non sappiamo affatto
che cosa sia la persona umana…”, Filosofia oggi,
gennaio-marzo 2004, pp. 3-28.
(8)
Nell’esame dell’ingegneria genetica appare opportuno
differenziare i due casi costituiti dall’intervento
sul genoma altrui o sul proprio ovviamente da parte
dell’adulto (prospettiva oggi lontana, ma chissà domani…).
Si tratta di due situazioni diverse, perché nella prima
si pone il problema dell’azione giusta verso l’altro
(justitia est ad alterum: hanno diritto i genitori,
l’ingegnere genetico di modificare il genoma dell’embrione?),
nella seconda verso se stessi: è possibile fare a se
stessi tutto ciò che si vuole? Io sono mio e basta?
Ciò significherebbe che non esistono doveri verso se
stessi.
Note
dell’Annesso
(1) J. Habermas, Fatti e norme, Guerini, Milano 1996,
pp. 11s, 532, 541. Sulla questione del diritto naturale
cfr. anche il mio Le società liberali al bivio,
Marietti, Genova 1991, pp. 52-73. Non sostengo che nelle
pagine di Habermas circoli un copioso nichilismo
giuridico, ma che non pare vi siano gli anticorpi per
difendersene.
(2) Genealogia della morale, II Dissertazione, n. 11,
p. 65s, Adelphi, Milano 1988.
(3) Law and Morality, in S. M. McMurrin (ed.),
The Tanner Lectures on Human Values, VIII, Cambridge
U. P., 1988, p. 253.
(4) Sul pensiero postmetafisico di Habermas cfr. il cap. VII
(“Nove tesi sul pensiero postmetafisico: J. Habermas”) di
Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, cit. |
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