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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 2 - Gennaio 2007 
     
 

Alle spalle del dibattito bioetico

 di Giuseppe Savagnone*

 

 

Nella vita pubblica del nostro Paese, le questioni della bioetica sono diventate, in questi ultimi anni, le più scottanti. In uno scenario politico che non conosce più da tempo, ormai,  prese di posizioni ideologiche estreme, è intorno ai problemi etici posti dalla medicina  che si registrano le polemiche più accese, gli scontri più virulenti, le divisioni di campo più radicali.

In questo contesto, è comprensibile che la violenza delle singole battaglie faccia perdere di vista ai contendenti, dall’una e dall’altra parte, alcuni problemi di fondo, che pure ne condizionano profondamente lo svolgimento e su cui, perciò, non sarebbe inutile fermare la nostra attenzione. È ad essi che dedichiamo, senza alcuna pretesa di completezza, questo contributo.

 

 

1. Il ruolo della ragione nella morale

 

Non sempre – anzi quasi mai! – si sottolinea che già il fatto stesso di discutere a livello pubblico, e dunque con argomenti che pretendono di essere razionalmente convincenti, di questioni come la liceità dell’aborto, della fecondazione assistita, dell’eutanasia, costituisce una importante novità rispetto alla convinzione, fermamente sostenuta dal neopositivismo e dominante  fino a pochi decenni fa  nella cultura occidentale, che il solo uso corretto della ragione fosse quello della scienza e che esso non potesse riguardare la sfera etica e politica.

Secondo Alfred J. Ayer, la cui posizione può essere considerata emblematica di questa linea di pensiero, «gli enunciati esprimenti puri e semplici giudizi morali non dicono nulla. Sono mere espressioni di sentimento e come tali non cadono sotto la categoria del vero e del falso. Sono inverificabili per la stessa ragione che rende inverificabile un grido di dolore o una parola di comando» [1] . Il punto, secondo l’A., è che, quando «dico “Rubar denaro è male”, produco un enunciato che non ha nessun contenuto fattuale – cioè non esprime nessuna proposizione che possa esser vera o falsa. È come se avessi scritto: “Rubar denaro!!!” – dove i caratteri grafici dei punti esclamativi, per convenzione, mostrano che il sentimento espresso è una speciale sorta di disapprovazione morale. È chiaro che qui non si dice nulla che possa essere vero o falso. Altri potrebbe non trovarsi d’accordo con me circa la malvagità del furto, nel senso che gli sarebbe lecito non provare per il furto dei sentimenti come i miei, e potrebbe litigare con me a proposito della mia sensibilità morale. Ma, parlando con rigore, costui non può contraddirmi. Infatti dicendo che un tipo di azione è giusto o ingiusto (…) esprimo semplicemente certi sentimenti morali. E chi si prende la pena di contraddirmi sta semplicemente esprimendo i propri sentimenti morali. Cosicché evidentemente non ha senso chiedere quale dei due abbia ragione». Insomma, «in tutti i casi in cui comunemente si direbbe che viene compiuto un giudizio etico, la funzione della parola di specifico rilievo etico è puramente “emotiva”» [2] .

In questa direzione, anche se su basi assai diverse, andava anche la convinzione del fondatore della moderna sociologia, Max Weber, circa «l’impossibilità di presentare “scientificamente” un atteggiamento pratico», stabilendo criteri razionali per la sua valutazione, visto che «tra  i diversi valori che presiedono all’ordinamento del mondo il contrasto è inconciliabile», come lo era quello tra le divinità dell’antico pantheon. Per lui il «conflitto fra gli dèi che presiedono ai singoli ordinamenti e valori» è irrisolvibile razionalmente e bisogna rassegnarsi ad ammettere una volta per tutte che «su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la “scienza”» [3] . Quanto a quest’ultima, essa deve restare rigorosamente avalutativa, perché «ogni qualvolta l’uomo di scienza mette innanzi il proprio giudizio di valore, cessa la perfetta intelligenza del fatto» [4] .

Ancora una volta, dunque, era in primo piano la separazione tra una razionalità, propria del sapere scientifico, deputata ad accertare i fatti, e un mondo di valori soggettivi, sottratti ad ogni valutazione di tipo razionale. In questa logica, diventava impossibile pensare di poter affrontare un dibattito pubblico sui problemi etici. La loro naturale collocazione, dato il carattere inevitabilmente emotivo e soggettivo delle possibili soluzioni, restava quella della sensibilità personale, rigorosamente confinata nell’ambito privato.

L’imporsi, sullo scenario della vita associata, di interrogativi riguardanti l’etica biomedica e di fronte ai quali è indispensabile una presa di posizione da parte dell’intera comunità civile, ha sconvolto questo quadro teorico. A questo livello, infatti, il discorso non può rimanere affidato agli individui e ai  loro variegati registri emozionali. Qui si esige, nel prendere una risoluzione, la considerazione di argomenti che possano essere almeno compresi  e conseguentemente criticati o condivisi da tutti i cittadini. Si potrà vedere respinta la pretesa che il proprio punto di vista sia più valido di quello altrui, ma ciò sarà possibile precisamente perché  lo si sarà argomentato con delle ragioni suscettibili di essere valutate criticamente da altri. Un sentimento non è suscettibile di tale valutazione.

Anche se non molti ne sembrano consapevoli, siamo dunque davanti a una discussione che rappresenta, già in se stessa, una svolta culturale, a nostro avviso ampiamente positiva. L’irrazionalismo, in tutte le sue forme, costituisce sempre una minaccia per le persone e per le società. Ciò è vero a maggior ragione oggi, in un momento storico in cui fondamentalismi di varia matrice – non c’è solo quello islamico, che pure rappresenta la più vistosa manifestazione del fenomeno  - incombono sul corretto svolgimento del dialogo tra soggetti culturali diversi.

 

 

2. Il rapporto tra fede e ragione

 

Proprio alla luce di queste considerazioni, appare più grave che spesso si insinuino in questo dibattito, mascherati da ragioni, atteggiamenti che ben poco hanno a che fare con esse. Si ha un esempio evidente di questo fenomeno nella dicotomia, frequentemente invocata, tra una bioetica laica e una cattolica. Chi ne è sostenitore normalmente si esprime come se dalla parte della prima stessero la razionalità, l’onesto riconoscimento di esigenze oggettive, il rispetto delle persone e dell’interesse comune,  la seconda, invece, fosse l’espressione di scelte di fede rispettabili, ma non certo vincolanti per tutti i cittadini, il portato di  una mentalità oscurantista e retrograda, il baluardo degli interessi della Chiesa e della sua volontà di imporre la propria egemonia sullo Stato e sulla società civile. Strettamente connessa a questa rappresentazione del problema sta la vigorosa rivendicazione della laicità delle istituzioni repubblicane e il rifiuto – opposto con commovente fermezza – di ogni prevaricazione delle coscienze ad opera del sempre rinascente clericalismo.

A monte di questa visione – ampiamente diffusa in questi anni, in Italia,  dai grandi quotidiani “laici” – sta  spesso la scarsa considerazione tributata alle argomentazioni portate in sede pubblica dai cattolici, a priori svalutate come prive di un fondamento razionale per il fatto stesso di essere sostenute da credenti. Non è difficile trovare degli esempi eclatanti di un simile  atteggiamento. Qui ne citiamo solo qualcuno. «Si crea spesso», scrive un eminente studioso, Gian Enrico Rusconi,  «l’equivoco per cui gli esponenti della religione-di-Chiesa dichiarano di voler difendere posizioni secondo “ragione” puramente umana e laica,  mentre in realtà la forza del loro argomentare poggia (in modo non detto) su postulati religiosi o di dottrina teologica o metafisica,  che sono di fatto sottratti alla discussione pubblica corrente e alla presunta incompetenza dei laici» [5] .

Sulla stessa lunghezza d’onda altri due autori che, con specifico riferimento alla tematica giuridica, non esitano ad affermare: «Un giurista cattolico non dirà o ammetterà mai, nella discussione,  che la sua decisione dipende dalla sua fede,  bensì si appellerà alla natura o,  anche,  alla realtà delle cose». E ancora: «La soluzione religiosa,  per quanto (all’apparenza) possa essere argomentata con prove razionali,  è sempre dedotta da un principio fideistico» [6] .

In realtà, dovrebbe insospettire fin dall’inizio il fatto che a sostenere la cosiddetta “bioetica cattolica” siano scienziati di chiara fama, come il prof. Angelo Vescovi o il prof. Bruno Dalla Piccola, un buon numero di filosofi e di uomini di cultura, uomini e donne di ogni età e condizione sociale. Tutti fanatici clericali? E come si spiega che almeno su una questione, quella dell’aborto, un “laico” universalmente stimato come Norberto Bobbio, al tempo del referendum, abbia coraggiosamente manifestato la propria opinione contraria alla legalizzazione, trovandosi così a condividere, su questo,  la posizione del mondo cattolico?

 Ci sembra più corrispondente a questi dati di fatto - che qui assumiamo solo come semplici indizi esterni, senza entrare nel merito delle singole questioni - ipotizzare che il confronto non sia tra la ragione degli uni e la fede cieca degli altri, tra la ragionevole tolleranza dei “laici” e il dogmatismo arrogante dei cattolici, bensì tra le ragioni che da entrambe le parti vengono avanzate a sostegno delle rispettive tesi. Il che significa che non ci sono una bioetica laica e una cattolica, ma un complesso di problemi a cui bisogna cercare di dare risposte ragionevoli, quale che sia la propria posizione  religiosa o esistenziale.

La difficoltà avanzata solitamente contro questa prospettiva è che, per un pensatore credente, «la domanda presuppone la risposta, e dunque la risposta, anticipata dogmaticamente, annulla la domanda in quanto interrogativo autentico» [7] . Ma è veramente così? Davvero la ricerca è possibile solo se non si hanno delle percezioni esistenziali anteriori al lavoro della ragione? Davvero si deve ritenere che solo una indagine asettica,  esente da ogni influsso extra-razionale, meriti rispetto?

In realtà, non è difficile rendersi conto che, non solo il credente, ma ogni essere umano, nel formarsi le proprie  convinzioni, risente dei molteplici apporti delle proprie esperienze e delle certezze acquisite nel corso di esse. La filosofia della scienza contemporanea è ormai arrivata alla conclusione che le stesse ipotesi di lavoro dello scienziato sono in larga misura frutto delle sue preferenze, dei suoi interessi, delle sue convinzioni extra-scientifiche. A questo punto, il fatto che sulle idee di una persona abbia un legittimo influsso la sua visione di fede non autorizza a concludere che la riflessione e gli argomenti su cui essa li fonda non valgono nulla.

Ciò che la laicità richiede ai credenti, quando si muovono sul terreno della cultura o della vita civile e politica, non è di spogliarsi  delle proprie certezze religiose,  bensì di verificare la loro traducibilità in termini razionali e di  dimostrare la loro rilevanza per un’etica pubblica in linea di principio condivisibile anche da chi queste certezze non le abbia. Allo stesso modo, del resto, dovranno comportarsi gli altri intellettuali e gli altri cittadini nei confronti delle convinzioni maturate nelle loro varie esperienze esistenziali.

Resta, ovviamente, il diritto di  sospettare che un preteso argomento non sia veramente tale, ma mascheri una pre-comprensione - di fede o, nel caso del non credente, di altra origine - non dichiarata e non difendibile razionalmente. Ma il solo modo intellettualmente onesto di verificare questo sospetto è di criticare quell’argomento per ciò che dice, non  con una diffidenza preconcetta, che lo svaluta  prima di averlo effettivamente esaminato. Siamo davanti alla differenza elementare fra un giudizio critico e un pregiudizio, tanto più irragionevole e inaccettabile se si manifesta unilateralmente nei confronti del credente.

 

3. La funzione della legge

 

Tra i problemi che stanno alle spalle del dibattito bioetico e che ne condizionano alla radice lo svolgimento non ci sono solo il modo di intendere il rapporto tra la ragione e le scelte morali, o tra la ragione e la fede, ma anche quello del significato della legge. Un primo equivoco, a questo proposito, riguarda il rapporto di quest’ultima con quello che viene presentato come il “diritto” di singoli o  gruppi di vedere riconosciute le proprie istanze. Veramente l’ordinamento giuridico dovrebbe essere continuamente modificato in funzione di simili richieste, ogni volta che esse vengano avanzate?

A farne dubitare basterebbe la considerazione che oggi spesso le aspirazioni vengano automaticamente considerate dei bisogni, che i bisogni diventino pretese, e che le pretese vengano presentate come diritti.

Ora, l’esperienza più comune della nostra società consumistica ci avverte che non sempre un’aspirazione corrisponde a un reale bisogno. La pubblicità ne fa nascere un’infinità che sono solo  la proiezione degli interessi del mercato e che andrebbero con cura vagliate prima di considerarle veramente radicate in esigenze effettive.

Non solo: anche un vero bisogno non è di per sé il fondamento sicuro di una pretesa. Ce ne sono di realissimi, il cui appagamento però va subordinato a una gerarchia di esigenze della comunità o della persona stessa e che perciò è necessario accettare di mettere in secondo piano. In una famiglia numerosa ci sono tanti bisogni autentici che devono essere sacrificati per dare la priorità a quelli più decisivi. Pestare i piedi e battere il pugno sul tavolo per farli valere può essere segno di prepotenza, non di buon senso o di solidarietà verso gli altri membri della famiglia.

E se comunque questo si fa – come troppe volte si fa nella nostra società – ciò non cambia la pretesa in un diritto. Perché è il riconoscimento della legittimità della pretesa stessa da parte della comunità civile a darle questa superiore dignità, e ciò può avvenire soltanto in presenza di certe condizioni che la ragione, non il volume della voce, garantisce.

Un altro equivoco, ricorrente quando si tratta di questioni bioetiche, riguarda il rapporto tra fatto e diritto. Si sente spesso dire che la legge deve assolutamente tenere conto che certi fenomeni sociali esistono, dando loro un riconoscimento sul piano giuridico. Ma il compito delle leggi non è di appiattirsi sull’esistente e di rispecchiarlo passivamente. Altrimenti dovremmo legalizzare fenomeni deteriori del costume sociale, che tutti invece siamo d’accordo nel continuare a combattere fermamente, malgrado gli insuccessi finora registrati. Si pensi all’evasione fiscale, al lavoro nero dei minori, allo sfruttamento della prostituzione, alla diffusione della pedofilia. Veramente si dovrebbe, in questi casi, prendere atto dell’esistente e legittimarlo? Magari con l’argomento che così si può sperare di attenuare, almeno, i loro effetti devastanti…

Nessuna persona di buon senso lo pretenderebbe, neppure in presenza di casi particolarmente dolorosi che sembrerebbero richiedere un trattamento particolare. Il fatto è che una legge non è fatta solo per sanare delle situazioni problematiche. Innanzi tutto essa è un segnale che orienta la società verso il futuro. Stabilendo pubblicamente che certi comportamenti non sono accettabili e altri sì, essa assume una funzione orientativa, e dunque in un certo senso pedagogica, per la coscienza collettiva di una comunità. E in definitiva di questo sembrano consapevoli coloro che hanno salutato leggi come quella sull’aborto non solo e non tanto come una sanatoria di situazioni dolorose, quanto, in primo luogo, come una conquista di civiltà. Sia dunque permesso anche a chi dà di questa e di altre simili misure legislative una valutazione di segno opposto discuterne la validità sotto questo profilo, e non sotto il ricatto emotivo dei “casi pietosi”.

 

 

4. La libertà è un valore assoluto?

 

Un altro problema – l’ultimo qui preso in esame  - che spesso non viene esplicitato, ma che condiziona  in modo decisivo il dibattito bioetico, è quello del significato da attribuire alla libertà. Uno slogan ricorrente, quando si è trattato dell’aborto e della fecondazione assistita, è stato quello secondo cui bisogna rispettare la libertà della donna. Ora, non è necessario essere contrari alla legalizzazione dell’aborto per rendersi conto della debolezza di un simile argomento.  È proprio un fautore di tale legalizzazione, Peter Singer,  autorevole esponente della cosiddetta “bioetica laica”,  a osservare che «questa può essere una buona politica,  ma certo è cattiva filosofia.  Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (...) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla.  Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta,  più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti» [8] .

La libertà individuale, insomma, va sicuramente tenuta in considerazione, ma essa non può essere considerata un valore assoluto. Se non altro per il semplice motivo che  di libertà ce ne sono tante ed è dunque indispensabile ammettere che ciascuna di esse deve fare i conti con le altre. È il famoso principio secondo cui la libertà di ognuno di noi finisce dove comincia quella dell’altro.

Vi è però una ragione più profonda, che riguarda il concetto stesso di libertà. Si è liberi in rapporto a dei beni che bisogna scegliere. Se non si ammette che la libertà è misurata dal bene a cui è rivolta, se la si pone come fine a se stessa e dunque la si rende autoreferenziale, se ne vanifica il significato più profondo e la si porta alla paralisi. Sostenere che ogni scelta è valida per il solo fatto che è libera significa rendere insignificante la scelta stessa. Non vi sarebbe più alcun motivo, infatti, per scegliere una cosa o l’altra. Tutte le decisioni si equivarrebbero. Il soggetto si troverebbe nella paradossale situazione dell’asino di Buridano, che muore di fame perché, davanti a due balle di fieno perfettamente uguali, non è in grado di andare verso l’una o verso l’altra.

In realtà, un comportamento non è reso eticamente lecito dal fatto che lo abbiamo scelto liberamente. Non è la libertà che rende buona una opzione, ma la bontà di ciò che si è scelto.  E questa non è posta dalle preferenze del soggetto, ma dev’essere valutata in rapporto al bene comune della società, che non prescinde da quello delle persone, anzi lo implica, ma non si riduce a ciò che esse soggettivamente perseguono.

Su questo, del resto, ogni persona ragionevole potrebbe convenire. Ne è un evidente indizio il fatto che il rispetto della libertà dell’individuo non viene mai tirata in ballo quando si tratta di comportamenti anti-sociali o apertamente criminosi. Nessuno invoca la libertà della donna per rivendicare il suo diritto di fumare in un luogo chiuso quaranta sigarette al giorno, meno che mai per giustificare una sua eventuale evasione fiscale.

Si potrebbe obiettare che nel campo bioetico la situazione è diversa, perché si tratta di disporre del proprio corpo. Ma anche in questo caso nessuno può sostenere che la libertà del singolo diventi un assoluto. Se non altro perché la società ha il diritto di valutare se gli effetti del comportamento scelto si restringano veramente  alla sfera fisica strettamente individuale, o se coinvolgano, direttamente o indirettamente, altre persone. È questo, per esempio, che si discute nel caso dell’aborto. Anche dove è in gioco la propria corporeità, dunque, il richiamo alla libertà non può essere considerato a priori l’unico elemento decisivo.

 

 

***

 

 

La nostra riflessione si conclude qui. In realtà la rassegna delle tematiche presupposte dal dibattito bioetico potrebbe continuare. A noi basta averne additato lo spazio, abitualmente reso semi-invisibile da una diffusa tendenza a fermarsi alla superficie dei problemi. Abbiamo potuto solo  accennare ad alcune delle grandi questioni di fondo che stanno dietro le infinite polemiche particolari di cui sono piene le pagine dei giornali. Altri potranno continuare, segnalandone altre non meno importanti. In ogni caso questa ci sembra la via da battere per evitare le trappole degli slogan e delle frasi fatte. A nostro avviso sarebbe più serio, invece di logorarsi in estenuanti scontri sulle conseguenze,  cercare di confrontarsi e di capirsi sui princìpi da cui si parte. Non è detto che si riesca a superare le divergenze, ma almeno diventerebbe più chiaro su che cosa  esse vertono. Quanto detto fin qui vorrebbe essere un modesto contributo a questo sforzo di chiarezza.

 


 


* Docente di Storia e di Filosofia nei Licei statali, già membro del Comitato Nazionale di Bioetica

 

[1] A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, ed. it. a cura di di G. De Toni, Feltrinelli, Milano 1975 (ma l’opera originale è del 1935), p.139.

[2] Ibidem, pp.136-137 e 138.

[3] M. Weber, La scienza come professione, in M.Weber, Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. A.Giolitti, intr. D. Cantimori, Einaudi, Torino 1980 (ma il testo è del 1918), p.31-32.

[4] Ibidem, p.30.

[5] G. E. Rusconi, Laicità ed etica pubblica,  in G.  Boniolo,  Laicità. Una geografia delle nostre  radici,  Einaudi,  Torino 2006, p. 48.

[6] M. Bertolissi e U. Vincenti,  Laicità e diritto,  in G.  Boniolo,  op.  cit.,  pp. 82-83.

[7] P.  Flores d’Arcais, Aut fides aut ratio, in “Micromega” 5/98, p. 191.

[8] P. Singer,  Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più [1994], tr. it.  di S. Rini,  Il Saggiatore,  Milano 1996, p. 97.

 
 
     
     
 
 
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