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Alle spalle del dibattito
bioetico
di Giuseppe
Savagnone*
Nella vita pubblica
del nostro Paese, le questioni della bioetica sono diventate,
in questi ultimi anni, le più scottanti. In uno scenario
politico che non conosce più da tempo, ormai,
prese di posizioni ideologiche estreme, è intorno ai
problemi etici posti dalla medicina che si registrano
le polemiche più accese, gli scontri più virulenti,
le divisioni di campo più radicali.
In questo contesto,
è comprensibile che la violenza delle singole battaglie
faccia perdere di vista ai contendenti, dall’una e dall’altra
parte, alcuni problemi di fondo, che pure ne condizionano
profondamente lo svolgimento e su cui, perciò, non sarebbe
inutile fermare la nostra attenzione. È ad essi che
dedichiamo, senza alcuna pretesa di completezza, questo
contributo.
1. Il ruolo della
ragione nella morale
Non sempre – anzi quasi
mai! – si sottolinea che già il fatto stesso di discutere
a livello pubblico, e dunque con argomenti che pretendono
di essere razionalmente convincenti, di questioni come
la liceità dell’aborto, della fecondazione assistita,
dell’eutanasia, costituisce una importante novità rispetto
alla convinzione, fermamente sostenuta dal neopositivismo
e dominante fino a pochi decenni fa nella
cultura occidentale, che il solo uso corretto della
ragione fosse quello della scienza e che esso non potesse
riguardare la sfera etica e politica.
Secondo Alfred J. Ayer,
la cui posizione può essere considerata emblematica
di questa linea di pensiero, «gli enunciati esprimenti
puri e semplici giudizi morali non dicono nulla. Sono
mere espressioni di sentimento e come tali non cadono
sotto la categoria del vero e del falso. Sono inverificabili
per la stessa ragione che rende inverificabile un grido
di dolore o una parola di comando». Il punto, secondo l’A., è che, quando «dico
“Rubar denaro è male”, produco un enunciato che non
ha nessun contenuto fattuale – cioè non esprime nessuna
proposizione che possa esser vera o falsa. È come se
avessi scritto: “Rubar denaro!!!” – dove i caratteri
grafici dei punti esclamativi, per convenzione, mostrano
che il sentimento espresso è una speciale sorta di disapprovazione
morale. È chiaro che qui non si dice nulla che possa
essere vero o falso. Altri potrebbe non trovarsi d’accordo
con me circa la malvagità del furto, nel senso che gli
sarebbe lecito non provare per il furto dei sentimenti
come i miei, e potrebbe litigare con me a proposito
della mia sensibilità morale. Ma, parlando con rigore,
costui non può contraddirmi. Infatti dicendo che un
tipo di azione è giusto o ingiusto (…) esprimo semplicemente
certi sentimenti morali. E chi si prende la pena di
contraddirmi sta semplicemente esprimendo i propri sentimenti
morali. Cosicché evidentemente non ha senso chiedere
quale dei due abbia ragione». Insomma, «in tutti i casi
in cui comunemente si direbbe che viene compiuto un
giudizio etico, la funzione della parola di specifico
rilievo etico è puramente “emotiva”».
In questa direzione,
anche se su basi assai diverse, andava anche la convinzione
del fondatore della moderna sociologia, Max Weber, circa
«l’impossibilità di presentare “scientificamente” un
atteggiamento pratico», stabilendo criteri razionali
per la sua valutazione, visto che «tra i diversi
valori che presiedono all’ordinamento del mondo il contrasto
è inconciliabile», come lo era quello tra le divinità
dell’antico pantheon. Per lui il «conflitto fra gli
dèi che presiedono ai singoli ordinamenti e valori»
è irrisolvibile razionalmente e bisogna rassegnarsi
ad ammettere una volta per tutte che «su questi dèi
e sulle loro lotte domina il destino, non certo la “scienza”». Quanto a quest’ultima, essa deve restare
rigorosamente avalutativa, perché «ogni qualvolta l’uomo
di scienza mette innanzi il proprio giudizio di valore,
cessa la perfetta intelligenza del fatto».
Ancora una volta, dunque,
era in primo piano la separazione tra una razionalità,
propria del sapere scientifico, deputata ad accertare
i fatti, e un mondo di valori soggettivi, sottratti
ad ogni valutazione di tipo razionale. In questa logica,
diventava impossibile pensare di poter affrontare un
dibattito pubblico sui problemi etici. La loro naturale
collocazione, dato il carattere inevitabilmente emotivo
e soggettivo delle possibili soluzioni, restava quella
della sensibilità personale, rigorosamente confinata
nell’ambito privato.
L’imporsi, sullo scenario
della vita associata, di interrogativi riguardanti l’etica
biomedica e di fronte ai quali è indispensabile una
presa di posizione da parte dell’intera comunità civile,
ha sconvolto questo quadro teorico. A questo livello,
infatti, il discorso non può rimanere affidato agli
individui e ai loro variegati registri emozionali.
Qui si esige, nel prendere una risoluzione, la considerazione
di argomenti che possano essere almeno compresi
e conseguentemente criticati o condivisi da tutti i
cittadini. Si potrà vedere respinta la pretesa che il
proprio punto di vista sia più valido di quello altrui,
ma ciò sarà possibile precisamente perché lo si
sarà argomentato con delle ragioni suscettibili di essere
valutate criticamente da altri. Un sentimento non è
suscettibile di tale valutazione.
Anche se non molti ne
sembrano consapevoli, siamo dunque davanti a una discussione
che rappresenta, già in se stessa, una svolta culturale,
a nostro avviso ampiamente positiva. L’irrazionalismo,
in tutte le sue forme, costituisce sempre una minaccia
per le persone e per le società. Ciò è vero a maggior
ragione oggi, in un momento storico in cui fondamentalismi
di varia matrice – non c’è solo quello islamico, che
pure rappresenta la più vistosa manifestazione del fenomeno
- incombono sul corretto svolgimento del dialogo tra
soggetti culturali diversi.
2. Il rapporto
tra fede e ragione
Proprio alla luce di
queste considerazioni, appare più grave che spesso si
insinuino in questo dibattito, mascherati da ragioni,
atteggiamenti che ben poco hanno a che fare con esse.
Si ha un esempio evidente di questo fenomeno nella dicotomia,
frequentemente invocata, tra una bioetica laica e una
cattolica. Chi ne è sostenitore normalmente si esprime
come se dalla parte della prima stessero la razionalità,
l’onesto riconoscimento di esigenze oggettive, il rispetto
delle persone e dell’interesse comune, la seconda,
invece, fosse l’espressione di scelte di fede rispettabili,
ma non certo vincolanti per tutti i cittadini, il portato
di una mentalità oscurantista e retrograda, il
baluardo degli interessi della Chiesa e della sua volontà
di imporre la propria egemonia sullo Stato e sulla società
civile. Strettamente connessa a questa rappresentazione
del problema sta la vigorosa rivendicazione della laicità
delle istituzioni repubblicane e il rifiuto – opposto
con commovente fermezza – di ogni prevaricazione delle
coscienze ad opera del sempre rinascente clericalismo.
A monte di questa visione
– ampiamente diffusa in questi anni, in Italia,
dai grandi quotidiani “laici” – sta spesso la
scarsa considerazione tributata alle argomentazioni
portate in sede pubblica dai cattolici, a priori svalutate
come prive di un fondamento razionale per il fatto stesso
di essere sostenute da credenti. Non è difficile trovare
degli esempi eclatanti di un simile atteggiamento.
Qui ne citiamo solo qualcuno. «Si crea spesso», scrive
un eminente studioso, Gian Enrico Rusconi, «l’equivoco
per cui gli esponenti della religione-di-Chiesa dichiarano
di voler difendere posizioni secondo “ragione” puramente
umana e laica, mentre in realtà la forza del loro
argomentare poggia (in modo non detto) su postulati
religiosi o di dottrina teologica o metafisica,
che sono di fatto sottratti alla discussione pubblica
corrente e alla presunta incompetenza dei laici»
.
Sulla stessa lunghezza
d’onda altri due autori che, con specifico riferimento
alla tematica giuridica, non esitano ad affermare: «Un
giurista cattolico non dirà o ammetterà mai, nella discussione,
che la sua decisione dipende dalla sua fede, bensì
si appellerà alla natura o, anche, alla
realtà delle cose». E ancora: «La soluzione religiosa,
per quanto (all’apparenza) possa essere argomentata
con prove razionali, è sempre dedotta da un principio
fideistico».
In realtà, dovrebbe
insospettire fin dall’inizio il fatto che a sostenere
la cosiddetta “bioetica cattolica” siano scienziati
di chiara fama, come il prof. Angelo Vescovi o il prof.
Bruno Dalla Piccola, un buon numero di filosofi e di
uomini di cultura, uomini e donne di ogni età e condizione
sociale. Tutti fanatici clericali? E come si spiega
che almeno su una questione, quella dell’aborto, un
“laico” universalmente stimato come Norberto Bobbio,
al tempo del referendum, abbia coraggiosamente manifestato
la propria opinione contraria alla legalizzazione, trovandosi
così a condividere, su questo, la posizione del
mondo cattolico?
Ci sembra più
corrispondente a questi dati di fatto - che qui assumiamo
solo come semplici indizi esterni, senza entrare nel
merito delle singole questioni - ipotizzare che il confronto
non sia tra la ragione degli uni e la fede cieca
degli altri, tra la ragionevole tolleranza dei “laici”
e il dogmatismo arrogante dei cattolici, bensì tra le
ragioni che da entrambe le parti vengono avanzate
a sostegno delle rispettive tesi. Il che significa che
non ci sono una bioetica laica e una cattolica, ma un
complesso di problemi a cui bisogna cercare di dare
risposte ragionevoli, quale che sia la propria posizione
religiosa o esistenziale.
La difficoltà avanzata
solitamente contro questa prospettiva è che, per un
pensatore credente, «la domanda presuppone la
risposta, e dunque la risposta, anticipata dogmaticamente,
annulla la domanda in quanto interrogativo autentico». Ma è veramente così? Davvero la ricerca
è possibile solo se non si hanno delle percezioni esistenziali
anteriori al lavoro della ragione? Davvero si deve ritenere
che solo una indagine asettica, esente da ogni
influsso extra-razionale, meriti rispetto?
In realtà, non è difficile
rendersi conto che, non solo il credente, ma ogni essere
umano, nel formarsi le proprie convinzioni, risente
dei molteplici apporti delle proprie esperienze e delle
certezze acquisite nel corso di esse. La filosofia della
scienza contemporanea è ormai arrivata alla conclusione
che le stesse ipotesi di lavoro dello scienziato sono
in larga misura frutto delle sue preferenze, dei suoi
interessi, delle sue convinzioni extra-scientifiche.
A questo punto, il fatto che sulle idee di una persona
abbia un legittimo influsso la sua visione di fede non
autorizza a concludere che la riflessione e gli argomenti
su cui essa li fonda non valgono nulla.
Ciò che la laicità richiede
ai credenti, quando si muovono sul terreno della cultura
o della vita civile e politica, non è di spogliarsi
delle proprie certezze religiose, bensì di verificare
la loro traducibilità in termini razionali e di
dimostrare la loro rilevanza per un’etica pubblica in
linea di principio condivisibile anche da chi queste
certezze non le abbia. Allo stesso modo, del resto,
dovranno comportarsi gli altri intellettuali e gli altri
cittadini nei confronti delle convinzioni maturate nelle
loro varie esperienze esistenziali.
Resta, ovviamente, il
diritto di sospettare che un preteso argomento
non sia veramente tale, ma mascheri una pre-comprensione
- di fede o, nel caso del non credente, di altra origine
- non dichiarata e non difendibile razionalmente. Ma
il solo modo intellettualmente onesto di verificare
questo sospetto è di criticare quell’argomento per ciò
che dice, non con una diffidenza preconcetta,
che lo svaluta prima di averlo effettivamente
esaminato. Siamo davanti alla differenza elementare
fra un giudizio critico e un pregiudizio, tanto più
irragionevole e inaccettabile se si manifesta unilateralmente
nei confronti del credente.
3. La funzione
della legge
Tra i problemi che stanno
alle spalle del dibattito bioetico e che ne condizionano
alla radice lo svolgimento non ci sono solo il modo
di intendere il rapporto tra la ragione e le scelte
morali, o tra la ragione e la fede, ma anche quello
del significato della legge. Un primo equivoco, a questo
proposito, riguarda il rapporto di quest’ultima con
quello che viene presentato come il “diritto” di singoli
o gruppi di vedere riconosciute le proprie istanze.
Veramente l’ordinamento giuridico dovrebbe essere continuamente
modificato in funzione di simili richieste, ogni volta
che esse vengano avanzate?
A farne dubitare basterebbe
la considerazione che oggi spesso le aspirazioni vengano
automaticamente considerate dei bisogni, che i bisogni
diventino pretese, e che le pretese vengano presentate
come diritti.
Ora, l’esperienza più
comune della nostra società consumistica ci avverte
che non sempre un’aspirazione corrisponde a un reale
bisogno. La pubblicità ne fa nascere un’infinità che
sono solo la proiezione degli interessi del mercato
e che andrebbero con cura vagliate prima di considerarle
veramente radicate in esigenze effettive.
Non solo: anche un vero
bisogno non è di per sé il fondamento sicuro di una
pretesa. Ce ne sono di realissimi, il cui appagamento
però va subordinato a una gerarchia di esigenze della
comunità o della persona stessa e che perciò è necessario
accettare di mettere in secondo piano. In una famiglia
numerosa ci sono tanti bisogni autentici che devono
essere sacrificati per dare la priorità a quelli più
decisivi. Pestare i piedi e battere il pugno sul tavolo
per farli valere può essere segno di prepotenza, non
di buon senso o di solidarietà verso gli altri membri
della famiglia.
E se comunque questo
si fa – come troppe volte si fa nella nostra società
– ciò non cambia la pretesa in un diritto. Perché è
il riconoscimento della legittimità della pretesa stessa
da parte della comunità civile a darle questa superiore
dignità, e ciò può avvenire soltanto in presenza di
certe condizioni che la ragione, non il volume della
voce, garantisce.
Un altro equivoco, ricorrente
quando si tratta di questioni bioetiche, riguarda il
rapporto tra fatto e diritto. Si sente spesso dire che
la legge deve assolutamente tenere conto che certi fenomeni
sociali esistono, dando loro un riconoscimento sul piano
giuridico. Ma il compito delle leggi non è di appiattirsi
sull’esistente e di rispecchiarlo passivamente. Altrimenti
dovremmo legalizzare fenomeni deteriori del costume
sociale, che tutti invece siamo d’accordo nel continuare
a combattere fermamente, malgrado gli insuccessi finora
registrati. Si pensi all’evasione fiscale, al lavoro
nero dei minori, allo sfruttamento della prostituzione,
alla diffusione della pedofilia. Veramente si dovrebbe,
in questi casi, prendere atto dell’esistente e legittimarlo?
Magari con l’argomento che così si può sperare di attenuare,
almeno, i loro effetti devastanti…
Nessuna persona di buon
senso lo pretenderebbe, neppure in presenza di casi
particolarmente dolorosi che sembrerebbero richiedere
un trattamento particolare. Il fatto è che una legge
non è fatta solo per sanare delle situazioni problematiche.
Innanzi tutto essa è un segnale che orienta la società
verso il futuro. Stabilendo pubblicamente che certi
comportamenti non sono accettabili e altri sì, essa
assume una funzione orientativa, e dunque in un certo
senso pedagogica, per la coscienza collettiva di una
comunità. E in definitiva di questo sembrano consapevoli
coloro che hanno salutato leggi come quella sull’aborto
non solo e non tanto come una sanatoria di situazioni
dolorose, quanto, in primo luogo, come una conquista
di civiltà. Sia dunque permesso anche a chi dà di questa
e di altre simili misure legislative una valutazione
di segno opposto discuterne la validità sotto questo
profilo, e non sotto il ricatto emotivo dei “casi pietosi”.
4. La libertà
è un valore assoluto?
Un altro problema –
l’ultimo qui preso in esame - che spesso non viene
esplicitato, ma che condiziona in modo decisivo
il dibattito bioetico, è quello del significato da attribuire
alla libertà. Uno slogan ricorrente, quando si è trattato
dell’aborto e della fecondazione assistita, è stato
quello secondo cui bisogna rispettare la libertà della
donna. Ora, non è necessario essere contrari alla legalizzazione
dell’aborto per rendersi conto della debolezza di un
simile argomento. È proprio un fautore di tale
legalizzazione, Peter Singer, autorevole esponente
della cosiddetta “bioetica laica”, a osservare
che «questa può essere una buona politica, ma
certo è cattiva filosofia. Presentare il problema
dell’aborto come una questione di libertà di scelta
individuale (...) significa già di per sé presupporre
che il feto in realtà non conta nulla. Chiunque
pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita
degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema
dell’aborto a una questione di libertà di scelta,
più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione
di libertà di scelta da parte degli schiavisti»
.
La libertà individuale,
insomma, va sicuramente tenuta in considerazione, ma
essa non può essere considerata un valore assoluto.
Se non altro per il semplice motivo che di libertà
ce ne sono tante ed è dunque indispensabile ammettere
che ciascuna di esse deve fare i conti con le altre.
È il famoso principio secondo cui la libertà di ognuno
di noi finisce dove comincia quella dell’altro.
Vi è però una ragione
più profonda, che riguarda il concetto stesso di libertà.
Si è liberi in rapporto a dei beni che bisogna scegliere.
Se non si ammette che la libertà è misurata dal bene
a cui è rivolta, se la si pone come fine a se stessa
e dunque la si rende autoreferenziale, se ne vanifica
il significato più profondo e la si porta alla paralisi.
Sostenere che ogni scelta è valida per il solo fatto
che è libera significa rendere insignificante la scelta
stessa. Non vi sarebbe più alcun motivo, infatti, per
scegliere una cosa o l’altra. Tutte le decisioni si
equivarrebbero. Il soggetto si troverebbe nella paradossale
situazione dell’asino di Buridano, che muore di fame
perché, davanti a due balle di fieno perfettamente uguali,
non è in grado di andare verso l’una o verso l’altra.
In realtà, un comportamento
non è reso eticamente lecito dal fatto che lo abbiamo
scelto liberamente. Non è la libertà che rende buona
una opzione, ma la bontà di ciò che si è scelto.
E questa non è posta dalle preferenze del soggetto,
ma dev’essere valutata in rapporto al bene comune della
società, che non prescinde da quello delle persone,
anzi lo implica, ma non si riduce a ciò che esse soggettivamente
perseguono.
Su questo, del resto,
ogni persona ragionevole potrebbe convenire. Ne è un
evidente indizio il fatto che il rispetto della libertà
dell’individuo non viene mai tirata in ballo quando
si tratta di comportamenti anti-sociali o apertamente
criminosi. Nessuno invoca la libertà della donna per
rivendicare il suo diritto di fumare in un luogo chiuso
quaranta sigarette al giorno, meno che mai per giustificare
una sua eventuale evasione fiscale.
Si potrebbe obiettare
che nel campo bioetico la situazione è diversa, perché
si tratta di disporre del proprio corpo. Ma anche in
questo caso nessuno può sostenere che la libertà del
singolo diventi un assoluto. Se non altro perché la
società ha il diritto di valutare se gli effetti del
comportamento scelto si restringano veramente
alla sfera fisica strettamente individuale, o se coinvolgano,
direttamente o indirettamente, altre persone. È questo,
per esempio, che si discute nel caso dell’aborto. Anche
dove è in gioco la propria corporeità, dunque, il richiamo
alla libertà non può essere considerato a priori l’unico
elemento decisivo.
***
La nostra riflessione
si conclude qui. In realtà la rassegna delle tematiche
presupposte dal dibattito bioetico potrebbe continuare.
A noi basta averne additato lo spazio, abitualmente
reso semi-invisibile da una diffusa tendenza a fermarsi
alla superficie dei problemi. Abbiamo potuto solo
accennare ad alcune delle grandi questioni di fondo
che stanno dietro le infinite polemiche particolari
di cui sono piene le pagine dei giornali. Altri potranno
continuare, segnalandone altre non meno importanti.
In ogni caso questa ci sembra la via da battere per
evitare le trappole degli slogan e delle frasi fatte.
A nostro avviso sarebbe più serio, invece di logorarsi
in estenuanti scontri sulle conseguenze, cercare
di confrontarsi e di capirsi sui princìpi da cui si
parte. Non è detto che si riesca a superare le divergenze,
ma almeno diventerebbe più chiaro su che cosa
esse vertono. Quanto detto fin qui vorrebbe essere un
modesto contributo a questo sforzo di chiarezza.
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