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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 2 - Gennaio 2007 
     
 

Cambiare la natura umana? Biotecnologie e questione antropologica٭

di Vittorio Possenti*

  

 

“Naturam expelles furca,

tamen usque recurret” (Orazio)

 

“L’uomo, non il superuomo,

sia il fine” (H. Jonas)

 

  

La questione antropologica

 

Sull’idea di natura umana, piatto ghiotto per il filosofo, s’addensano innumerevoli dibattiti, resi ancor più delicati dall’interrogativo su che cosa essa significhi e se sia possibile cambiare la natura umana.  Intervenendo sull’uomo in maniera influente ma per molti aspetti ancora ignota quanto agli esiti e alle conseguenze, le biotecnologie postulano un’adeguata conoscenza di chi sia l’uomo e di che cosa egli abbia soprattutto bisogno.  Ma  proprio questo essenziale elemento è divenuto problematico, anzi particolarmente arduo da inquadrare. La più alta e complessa controversia, da gran tempo in corso  e che accende gli animi ovunque, è appunto la controversia sull’ humanum.  Sembra che quanto più le scienze cercano di stringere da presso la conoscenza dell’uomo, tanto più questa si divincoli e sfugga alla presa dei saperi scientifico-analitici, lasciando dietro di sé interrogativi e tensioni. Il crocevia dove scienza-tecnica e persona si incontrano è divenuto un incrocio problematico, nel quale le scienze cercano di trasmettere una nuova comprensione dell’umano.

La sfida si era già dispiegata dinanzi all’occhio  scrutatore  di Pascal.  “Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne lo studio, che gli altri con l’ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo. Sbagliavo: son meno ancora di quelli che studiano le matematiche” (1). Sembrerebbe che la situazione contemporanea falsifichi l’assunto pascaliano, tante sono oggi le discipline e le scienze che si occupano dell’uomo. Ad una considerazione un poco più attenta risulta però che, a fronte di una grande varietà di saperi che si rivolgono ad aspetti dell’uomo – in particolare al corpo – si trova un grande vuoto quando si cerchi una considerazione interale dell’uomo. Nell’epoca dell’essor delle scienze umane di ogni tipo diventa ancor più vero dire che questi è un essere sconosciuto che deve sempre e nuovamente venire riscoperto come ai tempi di Pascal. Questi propone l’impegnativa domanda antropologica  pochi anni dopo l’infausta separazione cartesiana fra pensiero/mente e corpo/estensione, secondo cui l’io risiede nel pensiero e il corpo – affidato alla contingenza e all’inessenziale – è pronto per essere attribuito alla regia della scienza e a entrare nell’area del dominio tecnico. Il presupposto di non poche utilizzazioni recenti delle scoperte genetiche e biologiche può venire individuato con sicurezza nel dualismo cartesiano, molto comodo e altrettanto improbabile, e verso la cui riproposizione occorre mantenere un’alta vigilanza intellettuale. La semplicistica divisione dei compiti fra scienza e filosofia – alla scienza la res extensa e alla filosofia il pensiero – è diventata un ostacolo al sapere, in specie a quello vertente sulla vita che si rifiuta nella maniera più totale a essere ridotta a mera estensione.

 Intanto un nuovo naturalismo è in cammino. Dal lato degli orientamenti della cultura occorre infatti considerare che la koiné naturalistica sta sostituendo nella cultura la koiné ermeneutica, rimasta in auge alquanto a lungo. Di questa tendenza è segno grande il tentativo di pervenire ad un’integrale naturalizzazione della mente/anima come parte di un processo indirizzato all’integrale naturalizzazione dell’uomo: l’uomo dunque risolto nella vita della physis, nel suo divenire evolutivo e cieco. Sembra crescente la persuasione che la concezione scientifica del mondo porterà necessariamente ad un paradigma antropologico apertamente naturalistico. Il  progetto che fa da sfondo a varie espressioni della scienza e della filosofia attuale consiste nel riportare  tutto l’uomo a res naturalis vitalis, cancellando in lui  la res cogitans come fenomeno irriducibile al biologico. L’anima come ‘spettro nella macchina’ sarebbe solo il cattivo frutto nato da un dogma, la res cogitans cartesiana. In realtà non vi sarebbe alcuno ‘spettro nella macchina’ da cercare, nessuna anima come entità a sé da studiare, perché la psiche e i fatti psichici si riconducono soltanto a fisica. In questa linea viene a conclusione contraddittoria – grandiosa eterogenesi dei fini – l’aspirazione di Nietzsche a preparare l’avvento dell’oltreuomo (Ubermensch): quell’aspirazione non si è minimamente realizzata e ha dato invece l’avvio al suo contrario, alla diminuzione  dell’uomo, alla produzione del sottouomo. Non dobbiamo sottovalutare il rischio che un esteso naturalismo antropologico conduca infine a un deciso nichilismo sull’uomo: l’uomo ridotto, l’uomo come “null’altro che”, infine l’uomo come prodotto casuale dell’evoluzione quale ultima parola dell’evoluzionismo nichilistico. Intanto si può sostenere che il naturalismo evoluzionistico rifiuta l’idea di essenza/natura come qualcosa di stabile e di ‘eterno’, spingendo così la filosofia a recuperare questo concetto.

 

Larga parte della discussione morale e antropologica contemporanea scaturisce dagli sviluppi incalzanti delle scienze della vita e delle neuroscienze: stiamo assistendo ad una vera rivoluzione che concerne le sorgenti della vita e che potremmo chiamare rivoluzione del genoma e del DNA. Essa rimette in discussione le nozioni di identità (chi siamo come uomini? Chi sono io?), di rispetto della persona, di responsabilità verso se stessi e gli altri, che costituiscono la base della civiltà. Negli ultimi lustri si è imposta all’attenzione la ‘questione antropologica’, ormai prepotentemente affiancatasi alle classiche grandi questioni pubbliche che prendono da tempo il nome di ‘questione istituzionale democratica’ e ‘questione sociale’, le quali hanno dato almeno in Occidente il tono a due secoli di storia.

Rispetto a queste problematiche la questione antropologica presenta caratteri più radicali ed appare destinata a diventare sempre più pervasiva. L’uomo è messo in questione tanto nella sua base biologica e corporea quanto nella coscienza che forma di se stesso. E ciò non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché le nuove tecnologie incidono sul soggetto, lo trasformano, tendono ad operare un mutamento nel modo di intendere nozioni centrali dell’esperienza di ognuno: essere generato oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare la salute, invecchiare, ecc. Se è vero che la più gelosa questione sollevata dalle bioscienze è quella antropologica, il nome finora universalmente impiegato di bioetica per denominare la riflessione sui temi di cui sopra, appare inappropriato perché tende a velare che buona parte degli interrogativi detti bioetici sono in realtà problemi non di morale ma di antropologia (e spesso anche di ontologia).

Ora tanto le scienze della vita che trovano un punto di elezione nella genetica e nella biologia molecolare, quanto le neuroscienze sono nuclei meritevoli di particolare attenzione per i problemi antropologici  che sgorgano dai due ambiti. Nel primo caso è in gioco la possibilità di pervenire, manipolando il genoma umano, ad una nuova forma dell’umano (l’espressione è volutamente indeterminata perché  siamo alle prese con reali dubbi sulle possibilità e gli esiti delle manipolazioni genetiche), nell’altro emergono i problemi del funzionamento del cervello, dell’intelligenza artificiale, del rapporto fra mente e cervello (identità, differenza?) e quello non meno cruciale dell’anima e della psiche. Se in questo scritto ci dedicheremo  al primo aspetto ciò è dovuto al fatto che mentre il dibattito sulle neuroscienze è da tempo avviato, quello sulla natura umana e la genetica appare più decisivo e forse meno avanzato.

 L’indirizzo generale metodico sarà di comprendere quanto sta accadendo, evitando l’atteggiamento della paura come quello dell’entusiasmo: neque lugere, neque ridere sed intelligere. Per comprendere occorre aggiungere che il discorso sulle biotecnologie chiama in causa i saperi, in specie la filosofia. Quanto più avanza la scienza, tanto più indispensabile diventa la filosofia,  oggi in specie una filosofia che si allontani dallo spensierato orientamento antiessenzialistico che predomina, sul quale osserva Jonas: “L’antiessenzialismo della teoria dominante che conosce solo i risultati de facto della casualità evoluzionistica e non conosce alcuna essenza valida, che li possa sanzionare, affida il nostro essere a una libertà senza norme” (2). Il rifiuto apriorico delle essenze, equiparate a un suono (flatus vocis) senz’altro significato, è atteggiamento diffuso che sconfina col nichilismo. Abbiamo perciò estremo bisogno di un rinnovato sapere sulla natura dell’uomo  e sul suo posto nell’universo.

 Dopo aver scelto il  titolo della mia relazione, mi sono reso conto che col riferimento alla natura umana esso richiama quello di due notevoli saggi recenti di J. Habermas e di F. Fukuyama. Il titolo del primo suona: Il futuro della natura umana e l’altro L’uomo al di là dell’uomo (Rizzoli, Milano 2003). L’evento  conferma che nelle tecnologie della vita è in gioco il significato stesso di uomo e di natura umana, qualcosa che concerne l’autocomprensione del genere. Gli esiti collegati non potranno non esercitare un profondo e per ora poco prevedibile influsso sulla politica: è possibile che le conseguenze dell’impiego delle biotecnologie siano ben superiori a quelle accadute col crollo del muro di Berlino.

Negli approcci di Habermas e Fukuyama, nati in contesti culturali diversi e avendo alle spalle prospettive filosofiche  e antropologiche forse lontane, la domanda centrale suona all’incirca: il concetto di natura umana che si ritiene rilevante tollera o meno che l’uomo sia costruibile e dunque manipolabile entro confini volta a volta determinati? Tale questione ne introduce un’altra che non sempre emerge in maniera diretta ma che influisce sull’intero dibattito: è possibile cambiare la natura umana? Desidero attirare l’attenzione sul fatto che essa di per sé solleva una questione di possibilità ontologica, non di liceità morale. La domanda, se è imposta dalle applicazioni biotecnologiche all’ambito delicato e antropologicamente geloso dell’embrione, della fecondazione extracorporea, dell’intervento sul genoma umano, genera problemi di alta complessità per il cui schiarimento sembra impossibile non ricorrere alla riflessione sull’uomo e al concetto di natura umana. Nell’ ‘800 si era ancora persuasi di ciò e di conseguenza il filosofo morale responsabile componeva trattati di antropologia in ausilio della scienza morale e della politica. Con  l’ingresso del nichilismo speculativo, di cui costituisce  una manifestazione l’essor del pensiero debole, non si ritengono più possibili risposte filosofiche solide ai temi della vita buona, della natura umana, di un’etica sostantiva e non soltanto  procedurale e formale. Un ‘debolista’ di classe quale è J. Habermas cerca da almeno vent’anni di promuovere questa prospettiva che implica una diversa autocomprensione dell’uomo e della filosofia: “Oggi, superata la metafisica, la filosofia non crede più in risposte vincolanti sulle questioni della condotta di vita, personale e collettiva che sia”. La filosofia “si limita a indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti. Certo tutto questo può sembrare deludente. Ma che obiezioni potremmo mai sollevare contro questa astensione ben giustificata?” (3).

Dinanzi a questa corriva rinuncia - cui curiosamente contravviene Habermas stesso che di fatto nelle pagine successive difende posizioni sostantive - si fa più chiaro che le questioni sollevate dalle biotecnologie richiedono di porre nuovamente la domanda sulla natura umana, senza risparmiarci alcune necessarie spese intellettuali. La riflessione scientifica e filosofica esita a farlo: anzi sussistono al presente obiezioni così forti contro tale concetto che potrebbe forse convenire chiudere il dossier e allontanarci in silenzio. E’ perciò ancor più significativo che  Habermas e Fukuyama lo richiamino in servizio, il primo già nel titolo: ma con quali modalità? Qui le vie tendono a divergere; per rendercene conto è opportuno ripercorrerle in modo succinto. Successivamente svolgeremo qualche spunto sulla natura umana, adottando una riflessione ontologica sull’uomo, non un cammino di antropologia filosofica.

I due approcci risultano notevolmente diversi. La riflessione ontologica è più sobria, incisiva, capace di stabilire i limiti – molto vasti – entro cui si muove la complessità dell’uomo, mentre l’antropologia filosofica è disciplina dallo statuto alquanto incerto e ondivago. Socrate e i suoi molti successori erano interessati all’uomo, non all’antropologia filosofica, ambito novecentesco  che può esibire caratteri variabili  dal conservatorismo al progressismo, e che è spesso connesso a filosofie della storia altrettanto diversificate. Di gran lunga precedente all’antropologia filosofica, la riflessione ontologica sulla natura umana non nutre nostalgie dell’uno o dell’altro tipo. Standosene all’ ‘oggetto’ essa apre il significato di che cosa sia esser uomo e quali siano le sue possibilità, quale sia l’umanità dell’uomo. Tenta di rispondere alla domanda: che cosa fa dell’uomo un uomo? Quanto manca alla bioetica è proprio questa riflessione che - individuando nell’umano il “fondamentale” e lo “storico” e percependo che le quasi illimitate manifestazioni storiche dell’umano sono possibili solo entro i limiti di campo stabiliti dal fondamentale - può delineare i tratti comuni e universali dell’uomo, ossia costanti antropologiche e inclinazioni umane basali che fluiscono dalla natura umana e che stabiliscono il confine fra ciò che è umano e quanto umano non è (4).

 

 

1.      Habermas: un approccio etico per stabilire il futuro della natura umana

 

Esula dai miei scopi l’esposizione compiuta delle posizioni di Habermas: ci concentreremo sui due casi, cui egli destina adeguato spazio, costituiti dalla diagnosi di preimpianto sull’embrione e dagli interventi di modificazione del genoma. Essi aprono scenari nuovi la cui rilevanza morale “oltrepassa ampiamente la sostanza delle tradizionali questioni politiche” (p. 19), e richiede attenti e lenti processi di rischiaramento normativo sottratti alle pressioni degli interessi e delle preferenze. Questi viceversa pesano per l’autore in un’eugenetica liberale che “trascurando ogni differenza fra interventi terapeutici e interventi migliorativi – rimette alle preferenze individuali degli utenti del mercato il compito di definire gli obiettivi degli interventi correttivi” (p. 22). Nel caso del test preimpianto sull’embrione l’autore chiede se sia compatibile con la dignità della vita umana l’essere generato con riserva, cioè giudicato degno di vita e di sviluppo, oppure no, in base agli esiti di una prova genetica. Nel caso della manipolazione genetica si domanda se essa non tocchi la stessa identità di genere, e non intacchi la distinzione fra ciò che è spontaneamente cresciuto e ciò che è prodotto tecnicamente. Dalle due questioni emergono altre fondamentali domande, ossia 1) se l'insieme di questi processi non cambi la nostra comprensione etica del genere; 2) se la conoscenza ex post della programmazione genetica del proprio patrimonio ereditario effettuata da altri non riduca gli spazi creativi della propria autonomia individuale negando al soggetto di considerarsi l’autore indiviso della propria vita, e comprometta le relazioni idealmente simmetriche fra persone e libere e uguali.

 “Stiamo chiedendoci se possiamo giustificare la tutela di predisposizioni genetiche integre, non manipolate, facendo appello alla indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità personale. La tutela giuridica potrebbe trovare espressione in una sorta di ‘diritto a un patrimonio genetico non compromesso da interventi artificiali’. Un diritto che è già stato proposto dal Consiglio di Europa e che non pregiudicherebbe affatto la liceità di una eugenetica negativa fondata in sede terapeutica” (p. 29). Secondo l’autore l’ingegneria genetica potrebbe “modificare la nostra autocomprensione di ‘esseri di genere’, nel senso che essa potrebbe intaccare, assieme alle moderne concezioni del diritto e della morale, anche i non aggirabili fondamenti normativi dell’integrazione sociale” (p. 29). Conseguentemente egli fa appello all’indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità personale. Perciò la strumentalizzazione della vita embrionale - quale emerge nell’idea che il nuovo concepito è generato con riserva e ammesso alla vita dopo un test genetico – “mette a rischio quella autocomprensione etica del genere che è discriminante per poter decidere, anche rispetto al futuro, se noi vogliamo continuare a intenderci come esseri che agiscono e giudicano in termini morali” (p. 71). Col riferimento ‘alle moderne concezioni del diritto e della morale’ fanno ingresso due grandi domande: quella sull’idoneità del solo diritto positivo a valere come metodo di regolazione sociale, e quella se esso sia in grado di esercitare un governo efficace della tecnica e della volontà di potenza che vi si può manifestare. Tali questioni sono in Il futuro della natura umana appena accennate; il loro obiettivo rilievo induce a tentarne una prima elaborazione, come faremo nell’Annesso.

 In genere  un grave problema soggiacente è se sia lecito cambiare il mix finora vigente di naturale e di volontario, spostando il confine fra caso e decisione; e di rischiare  nel test preimpianto, “la strumentalizzazione di una vita umana – generata con riserva – rispetto alle preferenze e agli orientamenti di valore nutriti da terzi” (p. 33). Ciò violerebbe per Habermas l’obbligo reciproco che gli uomini come membri di una comunità morale si danno vicendevolmente, obbligandosi l’un l’altro e accettando una simmetria di relazioni. In altre parole gli esseri umani non sono individualizzati solo dalle sequenze del DNA ma pure dal processo di socializzazione: “Solo nella sfera pubblica di una comunità linguistica, l’essere di natura si costituisce come individuo e come persona dotata di ragione” (p. 37).

La critica del liberalismo eugenetico da parte di Habermas non si indirizza alla valenza terapeutica delle biotecnologie, ma a quella programmatoria e decisoria di interventi ‘migliorativi’. Il perno dell’argomentazione risiede nel fatto che l’intervento migliorativo rischia di alterare quell’uguaglianza casuale della nascita cui tutti i cittadini devono l’inizio del loro esclusivo destino di socializzazione. Mantenendo giuridicamente indisponibile la casualità della nascita, i cittadini si garantiscono uguaglianza di accesso alla comunità ideale dei soggetti morali e alla comunità reale dei cittadini.

 La peculiarità del discorso habermasiano risiede nell’assunto che su piano morale - nonostante i vantaggi che le biotecnologie arrecano - non ci sono sufficienti motivi per pagare il prezzo alto che esse esigono. Egli ritiene che la grande spinta per un uso disinvolto della tecnica in ogni campo della vita, non esclusi i fondamenti biologico-genetici della specie umana, stia sollevando e debba sollevare una reazione riflessiva che si confronti con le nuove tecniche e individui nuclei umani indisponibili all’oggettivazione tecnologica. Egli chiede: “possiamo considerare l’autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l’autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed ugual rispetto?” (p. 31). In Habermas assume speciale rilievo un’etica del genere che assume come primari i temi dell’uguaglianza e della reciprocità.

Il problema dell’uguaglianza umana verrà infatti reso assai più acuto dalle pratiche prenatali tanto di prevenzione della nascita di un bambino tarato, quanto di eugenetica in cui si procede a selezionare e ‘migliorare’ l’esito (il bambino). In effetti con la diagnosi  pre-impianto sull’embrione, alcuni singoli si arrogano il diritto, che loro non compete, di stabilire che cosa è degno di vivere e che cosa no. Inoltre “Se si accetta come normale la generazione e l’impiego di embrioni ai fini della ricerca medica, si trasforma anche la percezione culturale della vita umana prenatale, con il risultato di rendere sempre meno affilato il sensorio morale che stabilisce i limiti entro cui far valere il calcolo ‘costi-benefici’. Oggi noi avvertiamo come oscena questa prassi di reificazione. Ci chiediamo anzi se vorremmo davvero vivere in una società in cui il rispetto narcisistico per le preferenze personali venga affermato al prezzo di un’insensibilità verso i fondamenti normativi e naturali della vita” (p. 23). Il fatto è che l’alterazione, sia pure migliorativa, del genoma, e la programmazione eugenetica introducono nuove forme di disuguaglianza fra gli uomini. Conseguentemente l’autore suggerisce l’indisponibilità dei fondamenti genetici della nostra esistenza corporea (p. 25), per cui sono possibili interventi ‘negativi’ di tipo terapeutico e non interventi ‘positivi’ di manipolazione e alterazione.

Ciò presuppone una condizione naturale del genoma, e un recupero almeno parziale del concetto di natura umana, che l’autore opera differenziando in senso nettamente antistoricistico e antidebolistico natura (umana) e cultura, la prima universale e la seconda invece situata: “Non si tratta dunque della cultura che è in ogni luogo diversa, bensì dell’immagine che le diverse culture si fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano della universalità antropologica” (p. 41). E’ notevole che l’assunto habermasiano vada in direzione opposta alle posizioni che intendono l’idea di natura come irrimediabilmente culturale e situata. La preservazione del genoma umano adombrata nelle posizioni suddette può essere considerata come un’istanza normativa di rispetto dell’essenza umana: essa introduce un dubbio fondato sulla possibilità di rispettare la dignità umana se accettiamo di manipolare le sue basi genetiche e biologiche.

 

 

2. Fukuyama: il tentativo ‘neoaristotelico’ di ristabilire il concetto di natura umana

 

In Our Posthuman Future (trad. it. L’uomo oltre l’uomo, cui ci riferiremo) Fukuyama elabora la sua prospettiva sulle biotecnologie, imperniandola attorno al concetto di natura umana che assume importanza reggente. Negli intenti dell’autore l’argomentazione vuole seguire il modello aristotelico di dissertazione in merito alle questioni di natura e di politica (p. 21). Muovendosi in senso contrario all’antiessenzialismo prevalente, l’autore  non rifiuta i concetti di natura umana e di diritto naturale: “La natura umana esiste, è un concetto pregnante e ci ha fornito un elemento di continuità nella nostra evoluzione come specie. Insieme alla religione, rappresenta ciò che definisce i nostri valori fondanti. La natura umana attribuisce la forma e stabilisce i confini dei tipi possibili di regime politico, quindi una tecnologia abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo può dar luogo a conseguenze perniciose per la democrazia liberale e per la stessa natura della politica… Sebbene vi fossero forti divergenze fra chi cercava di definirla [la natura umana], nessuno contestò mai la sua importanza come fondamento dei diritti e della giustizia. Sostenitori del concetto di diritto naturale furono i padri fondatori degli Stati Uniti…Negli ultimi cento o duecento anni, però, tra gli intellettuali e gli accademici di filosofia questo concetto è caduto in disgrazia” (p. 14 e p. 22). Oltre Fukuyama allude al “pregiudizio contemporaneo contro il concetto di natura umana” (p. 23), e alla possibilità che le biotecnologie ce la facciano perdere: “Ma in che cosa consiste questa essenza umana che potremmo rischiare di perdere? Per un fedele potrebbe essere un dono divino, la scintilla con cui nascono tutti gli esseri umani. Da un punto di vista laico, invece, si potrebbe trattare di qualcosa che appartiene alla natura, cioè le sue caratteristiche tipiche condivise da tutti gli esseri umani in quanto tali. In fin dei conti questa è la posta in gioco nella rivoluzione biotecnologica” (p. 140), e con essa la stessa base del senso morale umano.

La scelta metodica di non poter emarginare l’idea di natura umana merita una sottolineatura, anche in rapporto alla scelta diversa praticata sino a pochi anni fa dalla filosofia politica di un Rawls, di un Dworkin fondata su un approccio procedurale e contrattualistico. Esso, forse idoneo per i bisogni di un pensiero volto a  problemi politici usuali, si manifesta in seria difficoltà nell’affrontare i dilemmi proposti dalle biotecnologie, che richiedono un ri-aggancio all’idea di natura e un allontanamento dalla prospettiva kantiana. Questa, in cui complessivamente si manifesta un rapporto disturbato con la natura, procedendo a separare natura e libertà, assume che l’etica opera realmente solo quando volontà e libertà si esprimono separatamente dalle inclinazioni della natura (umana).

L’elaborazione filosofica dell’idea di natura umana non si spinge peraltro molto in là nelle pagine di Fukuyama, per cui il richiamo ad Aristotele appare forse sovradeterminato. Non vi è infatti ricorso all’analisi ilemorfica e alla categoria essenziale di forma, necessaria per stabilire il concetto di natura/essenza: la teoria darwiniana che nessuna specie è portatrice di un’essenza particolare significa appunto cancellare le forme specifiche.  “La definizione di ‘natura umana’ cui farò riferimento in queste pagine è la seguente: la natura è la somma delle caratteristiche e dei comportamenti tipici della specie umana, originati da fattori genetici piuttosto che ambientali” (p. 177s). In questo approccio orientato al gene e che con la tipicità chiama in causa la statistica,  l’idea di natura umana  in Fukuyama pare ricondursi ad una sommatoria di fattori certo notevoli ma che nella loro molteplicità e dispersione non sembrano in grado di designare l’essenza/natura, richiamando invece sue manifestazioni operative di vario genere. Impiegando la concettualità aristotelica, la determinazione di Fukuyama sembra includere tanto proprietà  essenziali come il linguaggio, la razionalità, il senso morale, quanto proprietà accidentali come la statura, il peso, il colore della pelle, la maggiore o minore loquacità.

Un’elaborazione più approfondita dell’idea di natura (umana) dovrebbe a mio parere richiamare in servizio le prospettive di Aristotele e di Tommaso, riprese dalle rispettive tradizioni, almeno secondo due direttrici: a) l’assunto secondo cui la natura è un invariante che stabilisce i caratteri essenziali del genere umano, include un elevato grado di universalità e difende un carattere cui come uomini siamo legati, ossia che tutti partecipiamo a qualcosa di comune, di invariante, di metaculturale; b) l’idea di natura (e di vita) come principio immanente di autocostruzione e di automovimento (5). La seconda accezione sembra applicarsi validamente alle attuali scoperte genetiche dove il genoma appare come un codice interno di autocostruzione e di ‘programmazione’ dell’individuo, qualcosa che concerne il lato della ‘forma’ e che potrebbe favorire il superamento del paradigma deterministico. In effetti la struttura genetica dell’uomo rappresenta non una forma che ci determina in un solo modo (determinatio ad unum), ma una forma che schiude un campo di possibilità, un ventaglio di linee aperte, e che verrà orientato e ulteriormente determinato dalla libera attività del soggetto. Non dunque un soggetto ricondotto al determinismo genetico di chi sostiene che noi siamo i nostri geni, gradino estremo di un processo riduzionistico che dapprima riduce l’uomo a corpo, e successivamente il corpo al genoma.

Un concetto di natura umana non-ontologico e non-universalistico ma di tipo esclusivamente storico e culturale è esposto al serio svantaggio di non essere universalizzabile, di poter lasciare nelle mani dei potenti di turno lo stabilire chi appartiene alla natura umana e chi no. Nella presupposta riduzione storico-culturale dell’idea di natura umana si individua un limite maggiore del “Manifesto di bioetica laica” pubblicato nel 1996: “Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno  che il confine fra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura… i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che è naturale e ciò che naturale non sarebbe” (Il sole-24 ore, giugno 1996, p. 27). Al di là dell’uso equivoco del termine ‘natura’, che non ci si cura di definire se sia quella fisica o qualcosa che assomiglia all’essenza, nel testo al concetto di natura si sottrae ogni oggettività e normatività, sostenendo che essa sia totalmente culturale, dipendente soltanto dalle scelte e dai valori degli uomini. Il problema del  rapporto fra natura e cultura è dunque segato alla radice. Poiché la natura umana è in ipotesi un costrutto culturale e storico, non esisterà nulla di naturale e nulla di innaturale, ma tutto sarà convenzionale e storico: siamo dinanzi ad una forma esplicita di “nichilismo delle essenze”. Nell’intento di dissolvere le essenze si manifesta infatti un volto fondamentale del nichilismo. Tale nichilismo delle essenze si può anche chiamare un ‘antinaturalismo’ oppure un ‘denaturalismo’, intendendo appunto con ciò la posizione filosofica che ritiene nullo e privo di  senso il concetto di natura/essenza, come accade nelle posizioni nominalistiche, empiristiche (Hume), dualistiche secondo il dualismo Sein-Sollen (Kelsen). Difficilmente potrà essere recuperata la nozione autentica di essenza senza oltrepassare la razionalità pragmatica, strumentale e debolistica che oggi viceversa prevale.

Osservo inoltre che nella posizione  dipinta sono contenute le premesse per abolire la differenza fra malattia, salute, terapia (su ciò più avanti).

 

 

3. La natura umana e l’impossibilità di cambiarla

 

Sotto questo titolo affrontiamo una questione filosofica decisiva, il che significa moltiplicarne le difficoltà se si considera che l’orientamento delle scuole filosofiche contemporanee si unifica nella diffusa propensione scettica. La riflessione sulla natura umana non sfugge a tale temperie, di cui anzi sembra soffrire in modo particolare in quanto produce difficoltà teoretiche, che bloccano l’argomentazione razionale e finiscono per addossare le decisioni sulle biotecnologie alla scienza, alla politica, al diritto. E’ nelle biotecnologie problema scottante, sotteso ad ogni discussione su di esse ma spesso alluso solo di sbieco,  se sia possibile cambiare la natura umana. La modernità può essere letta in vari suoi aspetti come un tentativo di cambiare o andare contro inclinazioni fondamentali della natura umana: nel comunismo mediante l’abolizione della proprietà privata e nel tentativo di far prevalere la solidarietà di classe contro quella del gruppo familiare, nelle biotecnologie con l’intento di pervenire all’oltreuomo trasformando la natura umana.

A questo crocevia si materializza l’interrogativo sulla trasformabilità dell’uomo, in merito al quale una risposta può essere trovata solo se le domande giuste sono state formulate. Ora sembra che perfino la domanda sia diventata difficile nel senso che l’idea di natura umana, che ha forti radici nel senso comune e che è poi elaborata filosoficamente, è diventata qualcosa di estraneo su cui l’accordo è raro e il disaccordo frequente: in larga parte della cultura scientifica e filosofica paiono mancare i presupposti minimi per poter impostare con speranza di successo l’argomento. D’altra parte la diffidenza contemporanea verso il concetto di natura umana non ha ragione di esistere, una volta che si è determinata la natura umana in modo adeguato tramite una determinazione essenziale capace di ospitare una grande varietà di comportamenti. L’uomo pratica il mestiere di cercatore e cacciatore delle essenze molto più frequentemente di quanto si pensi e  – più curiosamente ancora – continuerà a praticarlo contro ogni invito scettico di smettere un tentativo considerato inutile, superato, sterile. Non verrà mai il tempo in cui non chiederemo più “che cosa è l’uomo?”

Una volta afferrata l’idea di essenza, si percepisce che le essenze sono immutabili, ‘eterne’, non soggette alla presa della volontà di potenza e di trasformazione. Se l’uomo è un essere dotato di logos (ragione e  linguaggio), se è un animal rationale, intuiamo agevolmente che sino a quando ci sarà l’uomo, egli avrà queste qualità essenziali; e che è del tutto impossibile trasformare l’uomo togliendogli tanto la ragione quanto il linguaggio. Che le essenze siano eterne e immutabili significa esattamente questa impossibilità, la quale  rilancia però la domanda su che cosa  nel soggetto umano è aperto alla trasformazione biotecnologia (6).

All’indagine si aprono tre cammini. 1) Possiamo mutare un gran numero di elementi ‘accidentali’, ossia elementi che fanno parte dell’uomo, ma non ne stabiliscono l’essenza, quali sono la statura, il grado di intelligenza, il colore degli occhi, il sesso, la magrezza o la grossezza, la velocità dei movimenti, ecc.. Dio mi guardi dal sostenere che accidentale significhi secondario e ininfluente!  Un uomo privo di molte malattie di origine genetica e dotato di memoria acuta e di gradevole aspetto si trova avvantaggiato rispetto ad un altro senza tali proprietà. Molte qualità dunque che definiamo col linguaggio preciso della filosofia come accidentali, rivestono per noi e per gli altri massimo rilievo, ma il loro mutamento non provoca un cambiamento di natura, non produce una trasformazione sostanziale, cioè un cambiamento da un ente-sostanza a un altro ente-sostanza appartenente ad un diverso genere. Sostenere l’immutabilità delle nature non significa minimamente negare il mutamento, la trasformazione e il loro impatto sulla nostra vita, ma neanche significa accogliere l’idea che mutamenti di quantità a un certo momento si ribaltino in mutamenti di qualità, ossia di essenza.

2) Un’altra importante linea di argomentazione concerne il livello morale, dove l’intervento delle biotecnologie sull’uomo può generare una diversa sensibilità morale, non nel senso di mutare oggettivamente la linea che divide bene e male, ma di cambiarne la percezione che ne abbiamo, variando la nostra attenzione etica. Trasformazioni accidentali dell’uomo possono alterare il senso morale fondamentale che portiamo in noi, ossia  accentuare, indebolire o colorare diversamente le inclinazioni basali inscritte in noi e che sono alla base della moralità. Ciò può accadere rinforzando alcune inclinazioni (ad es. l’inclinazione a persistere nell’esistenza con l’allungamento della vita) e indebolendone altre come l’inclinazione a conoscere la verità. Oltre al problema di acquisire conoscenza della eventuale relazione causale fra geni e inclinazioni, si pone quello di mantenere desto il moral sense, evitando che differenze indotte biotecnologicamente snaturino il senso di uguaglianza, di rispetto dell’altro, di desiderio di conoscenza, di sentimenti di giustizia, di pietas per il debole, che sono propri dell’uomo; in certo modo quella che Habermas chiama l’autocomprensione etica del genere.

3) Con trattamenti del genoma è possibile influire sulle relazioni umane e quelle sociali, modificando le differenze fra individui e cambiando la percezione che il soggetto ha di se stesso come singolo e nel rapporto con gli altri. Il fatto è che risulta possibile impiegare in modo ancipite le tecnologie genetiche, per aumentare le differenze oppure per diminuirle, per una politica razzista e antiegualitaria alla Nietzsche oppure per una politica egualitaria giacobina. Nel primo caso col ricorso all’eugenetica potenziante arriveremo finalmente a dare concretezza alla profezia nicciana dell’Ubermensch, finora sempre smentita, nella versione del superuomo genetico? E con l’altro arriveremo agli schiavi felici tutti uguali? L’influsso politico e sociale delle biotecnologie apre un campo immenso  e per ora poco battuto, che si affianca a quello altrettanto delicato delle conseguenze morali delle trasformazioni biotecnologiche.

Pur senza assumere che i soli mutamenti del soggetto siano dovuti alla linea genetica, nelle trasformazioni genetiche vi saranno geni la cui manipolazione condurrà a trasformazioni accidentali  lievi dell’uomo; e altri geni la cui manipolazione produrrà trasformazioni accidentali profonde dell’uomo: pensiamo ipoteticamente a manipolazioni che incidano sulla forza della mente e le abilità cognitive, oppure sull’inclinazione sessuale. La plausibilità tecnica di queste prospettive rilancia il tema della loro liceità.

L’aver stabilito che non si può cambiare la natura umana potrebbe avere l’esito  paradossale del quietismo: non preoccupiamoci di come andranno le cose perché comunque avremo sempre a che fare con uomini, non potremo evadere dalla natura umana! Esito infausto in quanto se non possiamo cambiare l’essenza umana, diventa proprio allora acutissima la domanda sull’entità dell’intervento manipolativo ‘accidentale’ che è lecito praticare. Poiché esso è l’unico alla nostra portata, ci interpella più che mai. Ed è su questi aspetti che ferve la battaglia bioetica, nel confronto fra posizioni libertarie permissive, posizioni che pongono limiti ricorrendo alla leva di un’etica della responsabilità anche collettiva, posizioni ispirate da una morale utilitaristica in cui il fine giustifica i mezzi, posizioni ontologiche che individuano nuclei indisponibili i quali non possano essere assoggettati al criterio dell’utile e della convenienza terapeutica per altri.

Uno dei maggiori rischi dell’eugenetica liberale è la richiesta di allentare i controlli in favore dell’autonomia individuale, che spesso conduce al piano inclinato del ‘fai da te’, in cui potrebbe affermarsi l’idea che ogni trasformazione accidentale è lecita perché non muta la natura umana.  In realtà molti altri fattori possono intervenire nella valutazione etica, legati al rapporto con gli altri e ai valori fondamentali che devono essere rispettati. Una trasformazione accidentale innocente sembra quella concernente l’aumento di statura. Eppure non può essere concessa senza beneficio di inventario perché soggetti differenziati in statura molto al di là delle normali differenze naturali possono dar origine a pericolose discriminazioni. Il gruppo di coloro che sono altissimi per manipolazione può sviluppare sentimenti di superiorità e di dominio verso gli altri e viceversa questi ultimi sentimenti di soggezione e al limite di sudditanza verso gli alti. Affermare ‘io sono mio e faccio di me quello che voglio’ è un’espressione antisociale che le biotecnologie potrebbero rendere frequente.

Tiriamo alcune somme del percorso intrapreso. L’essere umano è profondamente plastico, dotato di caratteri soggetti a mutamento: egli è una sorta di camaleonte della creazione. Non è però pienamente indeterminato, un essere al quale nulla sia proprio e specifico. Il fatto che egli sia tanto plastico (ma non in-forme) deriva dalla sua natura che è quella un essere materiale e spirituale, di una persona: ed è ciò che assicura ad un tempo la sua plasticità e la sua fondamentale invarianza di essenza.

Al di là dell’impossibilità di cambiare l’essenza umana rimane la possibilità di migliorare l’uomo, ossia certe sue qualità tanto fisiche quanto culturali e spirituali. Si aprono qui due strade che sommariamente chiamerei del miglioramento culturale e del miglioramento genetico ed eugenetico: la prima guarda verso l’umanesimo e si impernia sull’educazione e la coltivazione dell’uomo, ed è strada da sempre percorsa con esiti alterni ed oscillanti. La seconda è relativamente nuova e non sappiamo ancora come possa essere realizzata. Intravediamo la differenza fra disponibilità non manipolante del genoma a fini terapeutici e sua indisponibilità per operazioni di selezione eugenetica. Supponendo, come più di una volta è il caso, che esistano malattie genetiche (siano esse monogeniche come la talassemia, ossia attribuibili all’alterazione di un solo gene, o plurigeniche), non sussistono motivi per negare interventi terapeutici sul genoma, ossia interventi volti a restituire una normalità fisiologica di funzionamento. Ben diverso è l’intervento sul genoma a scopi eugenetici, fra cui quello di creare una sottoclasse d’individui umani dotati di caratteristiche genetiche e fisiche superiori a quelle di altri. Dunque una manipolazione volta non a restituire una normalità, ma a creare una differenza.

 

4. Persona e unità dell’uomo

 

L’analisi svolta ha chiamato in causa il concetto di natura umana, lasciando però  nello sfondo quello di persona e la domanda sull’unità dell’uomo, su cui un richiamo appare ora necessario, dal momento che le trattazioni antropologiche e morali sulle biotecnologie sembrano dimenticarli o comunque assumere come allant de soi la completa separabilità fra corpo e anima. Questa separabilità induce a trascurare l’indagine concernente i riflessi della manipolazione corporea sulla vita della psiche. In proposito una visione antropologica ipersemplificata diventa un via libera etico ad intervenire sull’uomo, ponendosi come un’autorizzazione al dominio delle biotecnologie sulla dimensione corporea.

 Chi è l’uomo  e che cosa la persona? su questi temi la storia della filosofia ha percorso un cammino di progresso dai Greci a noi, in cui centrale è stato l’apporto della riflessione biblico-cristiana. Infatti nella nota definizione aristotelica che suona: homo est animal rationale (Zoon logon echon),  l’uomo è definito mediante il genere prossimo e la differenza specifica, in una maniera che non rende pienamente ragione della sua originalità e non-assimilabilità ad elemento del cosmo. Dopo l’avvento del cristianesimo incontriamo in Boezio la prima decisiva determinazione della persona: rationalis naturae individua substantia. Aristotele definisce l’uomo mediante il riferimento alla sua natura/essenza, Boezio la persona nella sua sostanzialità spirituale, ossia nella sua identità metafisica  inoltrepassabile, come qualcosa di originale e di irriducibile al cosmo. Tuttavia le due determinazioni si collegano nel senso che la prima incammina verso la seconda, poiché è proprio della natura umana individuata in un singolo l’essere persona. Ogni essere che è dotato di natura umana e appartiene per la sua dotazione genetica al genere umano è per ciò stesso persona (8).

 Nonostante le rielaborazioni, gli opportuni approfondimenti e le critiche più o meno pertinenti cui è stata sottoposta, la determinazione boeziana si pone come un punto di svolta nella storia universale della filosofia e come un riferimento imprescindibile: con essa il grandioso tema della persona, introdotto per sempre nella cultura, continuerà a dare i suoi frutti e a compiere il suo percorso nella storia universale. Un cammino che è ancora al suo inizio, se si pone mente alle aree di civiltà ancora alquanto ristrette in cui è riconosciuto il ‘principio-persona’. Numerosi spazi geoculturali solo recentemente cominciano ad incontrarlo, sì che esso celebrerà la sua fecondità quando sarà riconosciuto universalmente, oltre  il mondo storico in cui prese forma. Se vogliamo evitare espressioni vuote, parlare di dignità della persona significa che l’uomo ha valore, che non si riduce a cosa. Ciò induce a cercare  l’ “irréductible dans l’homme, ossia ciò che è originariamente e fondamentalmente umano, [di] ciò che costituisce l’originalità piena dell’uomo nel mondo…Irréductible significa anche tutto ciò che nell’uomo è invisibile, che è totalmente interiore, e per cui ogni uomo è come il testimone evidente di se stesso, della propria umanità e della propria persona” (7). Le posizioni personaliste affermano appunto che nell’uomo vi è qualcosa di irriducibile alla natura cosmica: l’uomo non è un oggetto del mondo, ma un ente dotato di autocomprensione ed esperienza di sé come eventi spirituali. Il personalismo si colloca agli antipodi  del recente radicalismo antropologico, che prima mette da parte l’idea di persona e poi quella di natura/essenza umana, per approdare all’uomo come prodotto del caso.

 Una volta acquisito che la dignità di fine dell’individuo umano è salvaguardata  se questo è persona, ossia una totalità concreta, un tutto che non è subordinato alla specie, e non vale perciò solo come un transitorio punto di addensamento dei rapporti sociali, rimane aperta la domanda sulla ‘incisività antropologica’ delle biotecnologie dal punto di vista della retroazione sullo ‘psichico’ dell’intervento sul corporeo. Difficile questione, che non sembra poter ricevere risposta adeguata se non si prende in conto un’antropologia unitaria, in cui cioè l’uomo esiste come essere unitario, come un tutto, corpore et anima unus. Molto dubbio appare l’assunto secondo cui sarebbe possibile intervenire quasi illimitatamente sulla corporeità umana quasi che essa non facesse parte della persona e il corpo fosse un indifferente, qualcosa che può venire affidato senza problemi alla tecnica, e la  cui manipolazione risulterebbe senza effetti sulla persona.  Se questa è tale nell’unità dell’anima e del corpo, la considerazione antropologica dovrà prendere  le distanze dal dualismo cartesiano fra res extensa e res cogitans che spesso è il presupposto del modello di uomo che le biotecnologie presuppongono, quando non sia invece uno schietto monismo materialistico. Una corporeità separata dalla persona e analizzata in vitro non è più portatrice di senso e finisce nel meccanicismo. Analogamente deve dirsi per la complessa sfera della sessualità umana che rimane incompresa nel dualismo e nel monismo. Tali inconvenienti non sono facilmente aggirabili muovendosi solo sul piano di un’argomentazione morale, che intenda allontanare i rischi delle biotecnologie  ricorrendo all’etica del genere.

 

 

 5.  Sui concetti di malattia e di terapia

 

Le idee di essenza e di natura avanzate in questo saggio implicano una filosofia che si sottragga almeno in parte all’empirismo radicale che risolve differenze di qualità/essenze in mere differenze di quantità. Una filosofia del genere è oggi rara per l’antiessenzialismo indotto da generalizzazioni pseudoscientifiche dell’evoluzionismo che qui mostra una valenza nichilistica. Quando questa si esercita sulla natura umana, cerca velleitariamente di privarla di ogni necessità, di considerarla completamente trasformabile e in sé priva di un senso, che le dovrà essere attribuito dal soggetto. Un esito di questo processo è la attenuazione sino alla cancellazione delle differenze fra interventi terapeutici e interventi ‘manipolativi-migliorativi’, nell’intento di rimettere alle preferenze individuali dei soggetti, all’ingegnere genetico e alle regole del mercato il compito di gestire l’intero ambito della salute, della terapia, della selezione genetica. Coerentemente N. Agar ha scritto: “I liberali dubitano che il concetto di malattia possa servire a risolvere, in sede di teoria morale, i problemi posti dalla distinzione fra terapia e selezione genetica” (citato da Habermas, p. 22).  Su questo importante aspetto che chiama in causa un concetto reggente di ogni medicina, quello di malattia, ora ci soffermiamo nell’intento di trovare criteri per separare il momento terapeutico da quello ‘potenziante’.

 Le idee di malattia e terapia  necessariamente rinviano alla natura come normalità di funzionamento, alla malattia come scostamento da tale normalità, e alla terapia come ricostituzione della normalità. La medicina come arte e scienza e l’idea di terapia che le è immanente non possono venire esplicitate senza fare riferimento all’idea di natura almeno come normalità di funzionamento e correlato accertamento anche statistico. In effetti l’idea di terapia è connessa, dipendente e consecutiva a quella di malattia e quest’ultima implica che vi sia una deviazione dallo stato  normale, cioè dalla condizione di salute, che  costituisce la “condizione naturale”. Ora, se il concetto di natura smarrisce ogni rilevanza obiettiva almeno fenomenologicamente accertabile, e diventa soltanto il prodotto culturale storicamente variabile di scelte e decisioni  del singolo in cui si esprimono i suoi desideri, impulsi, istinti, anche i concetti di malattia e di terapia andrebbero abbandonati.

Se niente è di per sé naturale e normofunzionale, neppure lo stato di salute lo è, e neppure la declinazione dal naturale (ossia la malattia) ha senso: conseguentemente cade il concetto di terapia. Più in generale viene compromesso il concetto di medicina ippocratica, che è basata su poche ma nodali nozioni che ne sostengono l’impalcatura: il concetto di naturale quale normalità di funzionamento, la malattia come deviazione da una condizione naturale o normale, la terapia quale azione volta a ristabilire la salute.

  Ora l’eugenetica ‘negativa’ o terapeutica non può venire giudicata sfavorevolmente a priori: non vi è nulla di censurabile bensì di meritorio nel curare le malattie genetiche, a condizione che lo scopo terapeutico non proceda ad autoinvalidarsi mediante la violazione del principio per cui l’essere umano non può mai diventare  mezzo per altro o altri. La gestione concreta dell’eugenetica  pone e porrà una miriade di delicati problemi che non possono essere soltanto previsti a tavolino. Indubbiamente occorrerà evitare una eugenetica che violi il principio di uguaglianza naturale del genere, e che introduca differenze antropologicamente rilevanti fra individui e gruppi umani.

 Nonostante la diversità di linguaggio filosofico e di orizzonti di riferimento, vi sono  somiglianze fra le posizioni di Habermas e quelle di Fukuyama, fra cui il significativo  mantenimento della differenza fra terapia genica ed eugenetica: la prima a scopo curativo, l’altra volta a interventi selezionanti, migliorativi e potenzianti. Entrambi si esprimono criticamente sull’eugenetica liberale, ossia su un impiego della genetica che conduca al superamento della differenza fra terapia e potenziamento, o che proceda a selezionare fra coloro cui si concede di continuare lo sviluppo e coloro che vengono soppressi.

 

 

 6. Digressione sui rischi  del “riduzionismo contenutistico”

 

Assumo come provato che le scienze, cercando leggi e regolarità per singoli ambiti del cosmo, costruiscono modelli semplificati, in cui cioè alcuni fattori non vengono considerati per evitare un’ingovernabile complessità del problema, e che pertanto risultano validi entro certi limiti: si tratta del riduzionismo che chiamerò metodologico, nel senso che alcuni fattori sono ‘ridotti’ ossia semplificati o tralasciati. Costruendo legittimamente modelli di realtà in cui entrano un ristretto numero di variabili, le scienze dovrebbero essere consapevoli dei limiti del metodo che adottano. Quando ciò non accade, spunta una seconda forma, pericolosa, di riduzionismo, quella contenutistica che presenta due versioni. Nella prima ciò che è stato tralasciato sul piano metodologico volto a gestire la complessità, viene considerato ontologicamente inesistente o irrilevante; nell’altra si cerca di riportare altri livelli di realtà solo al livello empiricamente accessibile alle singole scienze. Nel problema antropologico il riduzionismo di secondo tipo significa che, scoperto un nuovo campo di indagine e le relative verità e spiegazioni, si cerca di riportare o ridurre ad esse senza residui l’uomo. A titolo di esempio cito il riduzionismo genetico: accadono importanti scoperte genetiche e puntualmente si presenta il tentativo di spiegare tutto con i geni (analogamente nel campo delle neuroscienze). Si può però domandare: siamo solo l’insieme dei nostri geni? O l’insieme delle nostre sinapsi?

Il riduzionismo contenutistico avanza l’idea secondo cui “una realtà x è null’altro che…”; spesso la riduzione è effettuata nel senso di riportare senza residui il superiore all’inferiore, ad es. la mente al cervello entro l’assunto apriorico che la realtà dell’uomo è null’altro che materia organizzata in vari modi e in vari modi manipolabile. In genere il limite di tale riduzionismo è di considerare inesistente quanto è inconoscibile mediante l’accertamento empirico, dimenticando l’imperfezione dei modelli e il fatto che essi riguardano parametri misurabili che non hanno presa su ciò che non è empirico.

Al riduzionismo contenutistico si può addebitare il difetto di non saper fronteggiare la sfida della complessità, l’illusione di aver risolto i problemi quando essi sono stati appena scalfiti. La riduzione della qualità a quantità, delle differenze di essenza a differenze di grado (intensamente praticata dalle scuole empiristiche), dell’intellettuale-spirituale al corporeo, del non-necessario e contingente al deterministico risultano  modalità frequenti di riduzionismo. Spesso tale approccio esamina un fattore per volta, ritenendo senza giustificati motivi che l’intero risulterà dalla somma dei vari fattori, senza considerare che l’interrelazione non la consente. I sensi umani presi uno ad uno probabilmente funzionano similmente a quelli di un cavallo, ma l’uomo non è un cavallo perché i suoi sensi operano in sinergia con l’intelligenza.

Ad un certo impiego dell’ingegneria genetica è immanente un conflitto preoccupante: da un lato si assegnano al tecnico o ai genitori grandi possibilità di scelta nei confronti del futuro nato, ma tali scelte tendono oggettivamente a ridurre per lui le contingenze e il ventaglio delle possibilità, di modo che si dà proporzione diretta fra mutamento delle caratteristiche individuali e riduzione dello spazio del possibile. Né sussistono elementi apriorici per stabilire che la sostituzione del casuale col pianificato sia la soluzione ottimale, in particolare a livello di genere. Una volta che si sia ammessa una qualche forma di autoplasmabilità dell’io, rimane come grande domanda l’invenzione di un giusto mezzo fra fissismo genetico e illimitata modificabilità genetica (8).

 

 

7. Epilogo

 

1) Due domande ci hanno accompagnato lungo il capitolo, la prima espressamente formulata, la seconda rimasta nello sfondo: possiamo cambiare la natura umana? Abbiamo il diritto di cambiarla? La risposta è negativa in entrambi i casi, e il no alla prima non deve far scomparire i motivi del no alla seconda: anche se fosse possibile cambiare la natura umana non sarebbe lecito farlo, per le inaccettabili discriminazioni che ciò comporterebbe. Naturalmente diversa è la questione quando si tratta di interventi terapeutici.

 

2) Secondo Paul Valéry “Atene è la scoperta dell’individuo, Roma la creazione del cittadino, Gerusalemme  la rivelazione della persona”. In vario modo le tre città storico-mondiali hanno favorito il rispetto della persona nella sua integrità, inviolabilità e “non-patrimonialità”, ossia nel suo carattere non-mercantile o commerciale. Le biotecnologie vanno ad incidere su una situazione spirituale dell’occidente in cui si confrontano due  modi estremi, entrambi riduzionistici, di concepire l’uomo. Quello per cui la natura umana è solo una costruzione sociale, di modo che P. Ehrlich sostiene che i cittadini delle democrazie hanno una natura umana diversa da quelli che vivono sotto una dittatura; e quello che all’inverso squalifica i fattori sociali-ambientali e punta sull’uomo espressione solo dei suoi geni.  La prima posizione, di taglio storicistico e attenta ai fattori ambientali, è stata a lungo forte e si è legata spesso a visioni politiche di sinistra. L’altra, una forma di naturalismo attento ai fattori genetico-ereditari e che può sfociare nel determinismo biologico, risulta oggi in ripresa e non sembra interessare un’area più di un’altra delle visioni politiche. Nell’oscillazione fra natura e cultura sembra prevalere il primo elemento. Il rapporto fra la quota che nell’uomo occorre riconoscere all’ambiente e quella proveniente dall’ereditarietà è comunque problema lungi dall’essere risolto. Va anche considerata la discrasia emergente fra due versioni di globalizzazione: quella tecnico-economica che omogeneizza procedendo a cancellare le differenze, e quella tecnico-genetica che ‘singolarizza’, rendendo più sensibili e profonde le diversità fra i soggetti.

 

3) L’assunto secondo cui è impossibile mutare la natura umana non deve paradossalmente indurre a disinteressarsi delle biotecnologie  (tanto non succederà niente di importante…), ma a dedicare loro la più acuta attenzione. Se infatti non possiamo diventare una specie che si autocrea nel senso proprio e radicale del termine (sebbene non manchino affatto fantasie di questo tipo), le biotecnologie possono variare una grande quantità di fattori nell’individuo e nei rapporti sociali, mutando il rapporto fra volontario e naturale a favore del primo e ponendo nelle mani dell’uomo un potere ancipite.

 Da una rinnovata meditazione antropologica  può sorgere il superamento della contrapposizione fondamentale che ha afflitto il cammino della bioetica sin dalle origini, ossia la polarità fra una bioetica di pura difesa da ogni innovazione sulla scorta di principi tradizionali e un’altra di mera giustificazione di ogni forma di novità offerta dalla tecnologia. La prima diffidente verso la scienza, la seconda pronta ad accogliere ogni sua scoperta. La prima più presente in Europa in specie nei Paesi latini e in Germania, l’altra prevalente nella bioetica anglosassone e accolta in Europa dai fautori dell’indirizzo liberale. Le due propensioni mostrano limiti in quanto non pongono in maniera adeguata la questione del bene umano, certo assai difficile in rapporto alla diffusa situazione di scepsi del pensare filosofico, già rilevata. La ricerca del bene umano e la sua parziale attuazione si pone come il centro di ogni bioetica degna di questo nome, nonostante i modi spesso conflittuali sotto cui il bene umano è inteso.

 

4) In un noto libro H. Rommen ha parlato dell’eterno ritorno del diritto naturale (Die Ewige Wiederkehr des Naturrechts). Forse le biotecnologie potranno stimolare un ‘eterno ritorno’ della natura umana e dei suoi diritti fondamentali. Un adeguato concetto di natura umana è a fondamento dell’ordine politico e morale, forse in modo più diretto che la religione la quale peraltro non marginalizza la natura umana: piuttosto aiuta a conoscerla meglio, a contribuire a che l’uomo si comporti secondo giustizia. E’ di grande rilievo osservare che solo un ordine politico fondato sulla natura umana e sui diritti naturali che spettano all’uomo in virtù della sua natura, è giusto e durevole: già Vico osservava che le cose portate a forza fuori dal loro equilibrio naturale non vi stanno né vi durano.

 

 

Annesso. Sul diritto positivo e il governo della tecnica

 

Il futuro della natura umana sotto l’incidenza delle biotecnologie è da Habermas pensato secondo un’etica del genere, che pena l’inefficacia dovrà presto generare esiti normativi a livello giuridico e politico.  In tale ambito emergono  domande sulla natura del diritto e sulla tecnica, con il connesso tema se il pensiero postmetafisico possa riuscire nell’impresa di governare la tecnica quale espressione di volontà di potenza e mezzo universale, ossia mezzo potente per ogni scopo.

 Nella complessa costruzione habermasiana del mondo dell’azione il diritto occupa un posto molto rilevante, ampiamente trattato in varie opere e in specie in Fatti e norme (Faktizität und Geltung). Derubricando la ragion pratica a ragione comunicativa e procedurale, gli scritti habermasiani fanno perno sul diritto positivo che diventa polo di orientamento della vita civile. Di conseguenza il problema della legittimità viene interamente risolto in quello della legalità democratica della produzione del diritto. Questo aspetto non è che un altro modo per espellere il diritto naturale e per considerare superata l’idea di ragion pratica, senza di cui muta l’architettura della filosofia pratica: “Con la teoria dell’agire comunicativo io ho scelto una via diversa: al posto della ragion pratica subentra  la ragione comunicativa. E non si tratta solo di un cambio di etichetta…la ragione comunicativa non è direttamente produttiva di norme di azione”. L’accantonamento dell’idea di ragion pratica, totale in Kelsen, viene ripreso in senso postmetafisico da Habermas. In tal modo la concezione proceduralistica del diritto risulta inconciliabile con “l’idea platonica di un diritto positivo attingente legittimità da un diritto superiore”, e perciò risulta impossibile gerarchizzare diritto naturale e diritto positivo. “Il diritto positivo non può più ricavare la sua legittimità da una superiore legge morale, ma soltanto dal procedimento di una formazione dell’opinione e della volontà presuntivamente razionale” (1).

In genere il motivo radicale per cui non si accoglie il diritto naturale è che non si ammette l’esistenza di una natura umana: il diritto naturale è valido in quanto esprime la natura/essenza dell’uomo in cui circola qualcosa di un Ordinamento superiore. Rimosso tale Ordinamento, in tempi rapidi tende a risultare vuota anche l’idea di natura umana: questa potrà essere accessibile ad una considerazione immanente, ma in maniera  progressivamente più ardua. Parimenti non sembra risolubile il problema della fondazione dei diritti dell’uomo. Questi si radicano a profondità variabile nel diritto naturale e da qui traggono la loro forza e permanenza. Se così non è, pare difficile evitare che Cesare o il potere politico, come li ha concessi, così li possa revocare o modificare a proprio piacimento.

In tale contesto può accadere  un cedimento al positivismo giuridico assoluto di un Kelsen. Consideriamo infatti. Se il diritto positivo è l’unico esistente ed esso non può che essere un diritto posto (positum), e posto da una volontà, diventa cruciale comprendere posto da chi, per quali scopi e con quali contenuti. Sappiamo  che per Kelsen  il diritto naturale è un bugia utile al più per il popolo, mentre il diritto positivo non ha nulla da spartire col giusto (dunque lo jus è totalmente differente dal justum, nonostante la palese affinità di radice che dichiara una sorgente comune). Ora il diritto positum che non si ispira ad un diritto sovrastante che lo misuri, è solo espressione di un’adeguata volontà ponente: là dove il diritto non è tradizione, è imposizione; un diritto che procede interamente dalla volontà, la quale dice: volo, ergo sum. In quanto espressione di volontà il diritto è arbitrario e costantemente revocabile come ogni prodotto del volere: il diritto esiste nella misura in cui la volontà lo pone, ma questa volontà potrà in futuro volere altro e perfino il contrario, secondo norme che si configurano essenzialmente come ‘editti revocabili’: oggi vigono i diritti umani, domani chissà. In effetti il diritto vale come impresa variabile secondo il divenire delle volontà, se non è pensato all’interno di un ordinamento immutabile, il che significa che non tutta la realtà si risolva in un universale divenire, senza causa e senza scopo.

In Kelsen si compie una ‘grande trasformazione’, quella che porta il diritto da espressione della ragion pratica a manifestazione del volere, a statuizione imperativa da parte della sovranità, dotata di adeguata volontà ponente e im-ponente, che sola crea il diritto e il torto, il giusto e l’ingiusto. In tal senso col normativismo kelseniano si configura l’ingresso del nichilismo nel dominio giuridico. Su questo aspetto Nietzsche si è espresso con esemplare chiarezza, rappresentando forse l’antefatto tanto di Weber quanto di Kelsen: “Ma l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo – è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo.. Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esiste ‘diritto’ e ‘torto’… Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso… Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale… sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla” (2).

Se il carattere più proprio del positivismo giuridico è che solo a partire dalla statuizione della legge positiva esistono giusto e ingiusto, Kelsen è stato un nicciano, mentre per Habermas si potrebbe parlare di un rischio di niccianesimo, che non potrà essere pienamente esorcizzato sin quando il diritto non verrà pensato non solo in via procedurale e democraticamente deliberativa, ma anche in maniera che non veda solo nel processo deliberativo e nella decisione del legislatore l’unica sua fonte. Habermas è d’altronde consapevole del paradosso implicito nel modo di validità della legge positiva: “If the function of law consists in stabilizing normatively generalized behavioral expectations, how can this function still be fulfilled by a law that can arbitrarily changed and whose validity is due solely to the decision of a political legislator?” (3).

Col riferimento ai complessi di  potenza  la sentenza di Nietzsche avvia a riflettere sulla tecnica e sul diritto, poiché l’ideologia dello scientismo tecnologico è penetrata in esso, conducendo a intenderlo come tecnica giuridica mirata ad uno scopo efficace. Il diritto riportato a mera procedura per ogni scopo è  appunto il diritto ridotto a tecnica, che ritiene di poter spazzar via gli ultimi residui del diritto naturale che ancora resistono. In tal modo il diritto si subordina alla Tecnica, che si candida alla guida del mondo, poiché ha compiuta coscienza di essere la forza massima a disposizione della volontà di potenza: un mezzo universale, un mezzo per ogni possibile scopo.

Acuta è perciò la domanda se, nonostante le migliori intenzioni, il pensiero postmetafisico sia in grado di controllare la tecnica: esso forse lo desidera e Il futuro della natura umana è un attestato in proposito, ma è in grado di operare ciò che desidera? Ci si può servire della tecnica o la tecnica si serve di noi? Si può addomesticare la volontà di potenza? Forse sì, ma a patto di prendere le mosse da una filosofia altra da quella postmetafisica. Questa sostiene che occorre porre un limite alla tecnica, ma  non sembra in grado di individuare come sia possibile porlo, dal momento che pare aver accolto l’idea di un divenire originario senza scopo né causa, in cui vi è solo trasformabilità e processualità (4).

La tecnica, compresa quella del positivismo giuridico assoluto che sfocia nel nichilismo, non è il nostro destino, piuttosto si pone come implicata in un pensiero filosofico  che non avverte più limiti o essenze da rispettare e che  sfocia in un aperto nichilismo delle essenze (vedi sopra), dove queste sono ritenute nominalisticamente un flatus vocis privo di sostanza. Affinché la tecnica deviata in mera volontà di potenza non sia l’unico esito, occorre fare perno su una filosofia diversa da quella che ritiene possibile e auspicabile un’illimitata trasformabilità dell’essere. Al momento la situazione non è tranquilla, poiché non pochi operano sconsideratamente per attribuire crescente libertà di movimento alla tecnica. Il pensiero debole è forse vittima dell’illusione di poterla prendere in mano e farla servire a scopi umani, nel momento stesso in cui si vuole come pensiero debole che assottiglia o congeda i concetti di verità, essenza, stabilità. La pretesa spesso formulata di governare la tecnica con l’etica appare postulatoria, poiché l’etica senza metafisica, l’etica da sola rischia di rassegnarsi all’idea che solo la scienza conosca e che dunque solo essa abbia diritto a guidare l’uomo. Qui il vecchio dogma positivistico procedente da Comte, tanto spesso riproposto in mille fogge, lascia l’uomo sguarnito dinanzi alla tecnica e alla sua volontà di potenza.

 

 

 

 

NOTE

 

* Professore Ordinario di Filosofia della Politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia

 

٭ Il presente contributo è tratto da V. Possenti, Il principio-persona, Armando, Roma 2006, pp. 149-171.

 

(1)    Pascal, Pensées, n. 176, ed. Serini, Mondadori, Milano  1970, p. 135.

(2) Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, p. 26. Appena dopo Jonas osserva che “una riflessione sull’ ‘immagine dell’uomo’ diverrà più imperiosa e pressante di qualsiasi altra riflessione sia mai stata richiesta alla ragione dei mortali” (p. 27).

 

(3) Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002, p. 5 e p. 7  La traduzione italiana del titolo del lavoro habermasiano non risulta corretta. Il titolo originale Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?  è stato reso Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, mutando indebitamente l’eugenetica in genetica. Ciò che Habermas intende sottoporre a critica è l’eugenetica che dipende dalle scelte, dalle preferenze e dai gusti dei soggetti adulti, non la genetica come metodo scientifico di conoscenza del genoma umano.

 

(4) In rapporto alle biotecnologie G. E. Rusconi coglie efficacemente la nuova centralità dell’idea di natura umana, sebbene si arresti  alla rilevazione del problema antropologico, esprimendo un sostanziale scetticismo sulla possibilità di comprendere che cosa sia natura umana: non qualcosa di invariante, ma “soggetta a ridefinizione continua” (Il Mulino, n. 4/2002, p. 67). A mio avviso si può individuare nella renitenza a riflettere sull’idea di natura umana per tenersi indenni dal cammino ontologico, un limite notevole della bioetica italiana cosiddetta ‘laica’ che definisce come ‘religiosa’ la riflessione razionale e ontologica sull’uomo, sebbene natura umana e diritto naturale non siano concetti religiosi. Influisce in tale approccio la precomprensione postmetafisica, la quale rischia di consegnare la riflessione antropologica alle scienze e di attribuire alla filosofia solo l’etica.

 

(5) Per Tommaso “essentia vel natura comprehendit in se illa tantum quae cadunt in definitione speciei” (S. Th., I, q. 3, a. 3). Sulla natura come principio immanente di automovimento cfr. Fisica, l. II, 192 b 20s. La profonda modernità di questo modo di intendere la natura (e la vita) è evidenziata nel mio studio “Nature, life and teleology”, The Review of Metaphysics, September 2002, pp. 37-60, ora anche in V. Possenti, Essere e libertà, Rubbettino, Soveria 2004.

 I concetti di essenza e di natura sono fra loro molto vicini. L’essenza di qualcosa (che risponde alla domanda: che cos’è questo qualcosa?) si esprime nella definizione che chiarisce che cosa quel qualcosa sia, mentre l’idea di natura richiama il campo delle operazioni. Per l’Aquinate il termine natura “videtur significare essentiam rei secundum quod habet ordinem ad propriam operationem rei, cum nulla res propria operatione destituatur” (De ente et essentia n. 3). 

 In La casa di psiche (U. Galimberti, Feltrinelli, Milano 2005), nella sezione dal titolo “la concezione giudaico-cristiana della natura come terra da dominare” (p. 376s), si osserva che con la creazione Dio ha completamente rimesso la natura alle mani dell’uomo, che ne dispone a piacimento: “così concepita la natura non è più, come pensavano i Greci, espressione dell’ordine immutabile della necessità, ma dominio di una volontà…”.  In realtà la Bibbia concepisce diversamente tale tema: della terra che Dio ha donato all’uomo non si può fare qualsiasi cosa, perché anche nella natura come cosmo e ancor più nell’uomo esiste una dimensione del necessario che non può essere valicata. Dio, ponendo nelle mani dell’uomo il creato, non lo ha invitato a disfarlo e a sventrarlo, né ha pensato ad un dominio tirannico della volontà umana sulle cose, ma ad un dominio politico e mite. L’antropocentrismo duramente aggressivo verso l’uomo e il cosmo è  moderno, laico e spesso ateo, non biblico. E l’assolutezza della volontà, che può mutarsi facilmente in volontà di potenza, risulta un portato del cartesianismo, della sorprendente ‘teologia’ cartesiana secondo cui l’infinita volontà divina, pienamente separata dalla sua sapienza e ragione, avrebbe potuto creare monti senza valli e cerchi quadrati. L’equazione, cara a E. Severino, secondo cui il Dio cristiano è un nichilista tecnico poiché pretende di creare dal nulla, e il cristianesimo un’espressione di nichilismo, è un’arguzia che impressiona solo chi vuol farsi impressionare.

 

 

 (6) In base a questi argomenti si percepisce l’impossibilità di alterare in modo graduale l’essenza umana, come pare sostenere Fukuyama (p. 296), che peraltro in proposito oscilla osservando che fra gli scienziati e i ricercatori è abbastanza diffusa la persuasione che noi forse non riusciremo mai a modificare la natura umana (p. 235). In ogni caso l’alterazione dell’essenza non è un processo ma un atto istantaneo nel quale si produce una nuova sostanza (e una nuova essenza). Si apre in proposito un’affascinante ricerca sullo schieramento dei nostri geni, e sull’individuazione di quelli più decisivi, nel senso che la loro alterazione provoca trasformazioni più incisive.

Giovanni Fornero ha osservato puntualmente che “l’antropologia postcartesiana, insistendo sul primato dell’agire sull’essere, ha finito per negare l’esistenza di una ‘natura’ umana precostituita e per concepire l’individuo come un ente creatore della propria entità, tramite un processo di autodeterminazione che coincide con il farsi stesso dell’uomo, il quale, secondo un’efficace definizione di Ortega y Gasset, “è un gerundio e non un participio: un faciendum e non un factum””, G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 53.

 

(7)  K. Wojtyla, Perché l’uomo, Leonardo, Milano 1995, p. 47 e p. 52. Sull’idea di persona cfr. gli studi: V. Possenti, Pensare la persona, dispense del corso di Storia della filosofia morale, Cafoscarina, Venezia 2001; Id., “Filosofia della persona e personalismo metafisico,  Una filosofia per la transizione, Massimo, Milano 1984, pp. 80-105;  Id., “Noi che non sappiamo affatto che cosa sia la persona umana…”, Filosofia oggi, gennaio-marzo 2004, pp. 3-28.

 

(8) Nell’esame dell’ingegneria genetica appare opportuno differenziare i due casi costituiti dall’intervento sul genoma altrui o sul proprio ovviamente da parte dell’adulto (prospettiva oggi lontana, ma chissà domani…). Si tratta di due situazioni diverse, perché nella prima si pone il problema dell’azione giusta verso l’altro (justitia est ad alterum: hanno diritto i genitori, l’ingegnere genetico di modificare il genoma dell’embrione?), nella seconda verso se stessi: è possibile fare a se stessi tutto ciò che si vuole? Io sono mio e basta? Ciò significherebbe che non esistono doveri verso se stessi.

 

 

 

Note dell’Annesso

 

(1) J. Habermas, Fatti e norme, Guerini, Milano 1996, pp. 11s, 532, 541. Sulla questione del diritto naturale cfr. anche il mio Le società liberali al bivio, Marietti, Genova 1991, pp. 52-73. Non sostengo che nelle pagine di Habermas circoli un copioso  nichilismo giuridico, ma che non pare vi siano gli anticorpi per difendersene.

 

(2) Genealogia della morale, II Dissertazione, n. 11, p. 65s, Adelphi, Milano 1988.

 

(3) Law and Morality, in S. M. McMurrin (ed.), The Tanner Lectures on Human Values, VIII, Cambridge U. P., 1988, p. 253.

 

(4) Sul pensiero postmetafisico di Habermas cfr. il cap. VII (“Nove tesi sul pensiero postmetafisico: J. Habermas”)  di Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, cit.

 
     
     
 
 
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