Home About International University Project Conferences Courses Lectures Projects Publications Readings Contribute Contact      

home \ associazione thomas international \ questioni di bioetica \ gennaio 2007 \ notizia: esiste davvero un'alternativa tra "pro-choice" e "pro-life"? Sulla lettera ...

Home

Redazione

Presentazione

Numero in corso

Archivio

Informazioni bibliografiche

Rassegna stampa

Contatti

Link utili

 

ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 2 - Gennaio 2007 
     
 

Notizie

Esiste davvero un’alternativa tra “pro-choice” e “pro-life”?
Sulla lettera indirizzata al Ministro della Salute da Maurizio Mori, Carlo Flamigni et al.

 

 

Il 20 dicembre 2006 l’Unità ha pubblicato una lettera indirizzata al Ministro della Salute Livia Turco, firmata da venti personaggi del mondo accademico e scientifico tra i quali Carlo Flamigni, Maurizio Mori e Demetrio Neri. Nella lettera si chiede al Ministro di bloccare «immediatamente» il progetto della Clinica milanese Mangiagalli di dare spazio, «vicino alla segreteria nella quale si programmano le interruzioni di gravidanza», a un consultorio del “Movimento per la vita” (Mpv). Secondo i firmatari della lettera la presenza di volontari “pro-life” sarebbe lesiva del diritto alla libertà di scelta della donna che decide di abortire, rappresentando «un palese attacco» alla legge 194/1978. Come è noto infatti, la legge italiana consente la pratica dell’aborto nei primi novanta giorni di gravidanza, una volta che sia stata accertata la gravità dei motivi che spingono la donna a richiederlo.  

L’intento dei firmatari, come si può vedere, rientra in quella più ampia linea difensiva che alcuni ambienti politici e intellettuali hanno adottato di fronte a ogni tentativo di discutere la legge 194 e, più precisamente, di fronte alla proposta dell’ex Ministro della Salute Francesco Storace che nel dicembre del 2005 incaricò la Commissione Affari Sociali della Camera di avviare un’indagine conoscitiva sull’applicazione della legge, con particolare riferimento ai consultori. Il sospetto allora avanzato, infatti, era che i consultori fossero divenuti dei meri distributori automatici di certificati per abortire (visto anche il grande numero di aborti in Italia, in media 130.000 l’anno), contraddicendo l’obiettivo preventivo della legge, che è quello di aiutare la donna «a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza» (art. 5). Di tale obiettivo dovrebbero farsi carico proprio i consultori, i quali «possono avvalersi [...] della collaborazione [...] di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita» (art. 2 comma d). Un aiuto che, sempre secondo la legge, si esprime cercando insieme alla «donna» e al «padre del concepito, ove la donna lo consenta», «le possibili soluzioni dei problemi», per esempio mettendo la donna in condizione «di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre [...] [e] offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto» (art. 5).

         Come si può vedere, nonostante tutte le riserve che si possono esprimere su una normativa che autorizza la soppressione del nascituro, la legge prevede testualmente che i consultori, coadiuvati anche da volontari, abbiano «il compito» (art. 5) di «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2 comma d). Ma se è così, allora la presenza di volontari del Mpv presso gli Ospedali dove si pratica l’aborto è pienamente conforme a una corretta applicazione della legge. Stupisce, pertanto, che secondo i firmatari della lettera accettare la presenza di volontari del Mpv negli Ospedali significhi «accettare in silenzio una riforma strisciante della legge 194» o, addirittura, equivalga a un «tentativo di delegittimare la legge, svuotandola del suo significato sociale e negando gli stessi principi che l’hanno ispirata». Ci si potrebbe domandare di quale legge si sta parlando. Certamente non della legge 194, che, non a caso, non viene mai citata testualmente nella lettera. E in effetti, se la legge venisse citata, coloro che tentano di «delegittimarla, svuotandola del suo significato sociale e negando i principi che l’hanno ispirata» risulterebbero proprio coloro che vogliono impedire alle «associazioni del volontariato» e dunque anche al Mpv, di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2 comma d).

         Il sospetto che i sottoscrittori della lettera non stiano difendendo la normativa realmente esistente ma stiano proiettando su di essa una loro peculiare e fittizia idea di legge 194, è confermato non appena viene considerato l’aspetto preventivo contenuto nell’intero art. 2. Nella lettera, infatti, leggiamo che «La politica di prevenzione dell’aborto prevista dalla legge non tiene in alcun conto i vantaggi che potrebbero derivare da una corretta diffusione delle conoscenze relative alla contraccezione». Si tratta di un vero e proprio lapsus freudiano, che tradisce il riconoscimento implicito che l’azione dei volontari del Mpv è pienamente conforme al concetto di prevenzione di una legge che, riguardando la «tutela sociale della maternità» e dunque le donne che sono già in gravidanza, non può che intendere la prevenzione dell’aborto come prosecuzione della gravidanza e non come contraccezione. Se si pensa, poi, che tutto ciò è pienamente coerente con il principio affermato nell’art. 1, secondo cui «Lo Stato [...] tutela la vita umana dal suo inizio», allora si comprende perché i firmatari abbiano spostato il tiro sul problema della contraccezione, finendo però per assumere una posizione curiosa, che consiste nel voler difendere una legge che non esiste dai presunti «intollerabili attacchi» di coloro che, invece, applicano correttamente quella che esiste.    

         Purtroppo le deformazioni riguardano non soltanto la legge ma anche il Mpv, i cui intenti e i cui metodi operativi vengono presentati in modo altamente caricaturale. Vogliamo credere che ciò sia dovuto non a malafede ma a cattive informazioni, a fraintendimenti o a indebite generalizzazioni, benché purtroppo, anche in questo caso, non vengano citate testualmente dichiarazioni o documenti ufficiali dell’associazione fondata da Carlo Casini. Si potrebbe obiettare che una lettera di sensibilizzazione indirizzata a un Ministro della Salute non è chiamata a citare fonti. E tuttavia, quando si definiscono gli intenti e le azioni del proprio avversario politico come «illegittimi e lesivi della dignità delle persone» bisogna dimostrare che è veramente così, e non ci si può limitare a mere insinuazioni, come quando nella lettera leggiamo: «sembra accertato (sic!)» che i volontari del Mpv sarebbero disposti a «“fare di tutto”, pur di evitare un aborto», addirittura «attuando anche comportamenti ai limiti della legge e che violano ogni elementare principio di “privacy”». Comportamenti che sarebbero resi ancora più gravi dal fatto che «Le donne che si rivolgono ai consultori hanno prevalentemente deciso di interrompere la gravidanza dopo analisi razionali, consapevoli e sofferte delle loro condizioni: altro è informarle – con discrezione e compassione – circa eventuali scelte alternative, altro è esercitare pressioni improprie e di discutibile legittimità, oltretutto esercitate da parte di persone estranee al mondo sanitario e la cui stessa presenza in un ambiente ospedaliero appare come assolutamente impropria».

         Come si può vedere, chi ha sottoscritto la lettera sarebbe d’accordo nell’informare le donne che si presentano in ospedale «con discrezione e compassione circa eventuali scelte alternative». Ora, però, questo è proprio quello che fanno i volontari del Mpv, il cui intervento, anche se si tratta «di persone estranee al mondo sanitario», è coerentemente previsto dalla stessa legge proprio perché l’aborto non è solo un problema «sanitario». Sembra invece che per i firmatari della lettera la stessa presenza dei volontari del Mpv equivalga a una forma di «pressione impropria e di discutibile legittimità». È davvero così? Per scoprirlo può essere utile chiedere un’opinione non tanto ai volontari del Mpv, ma alle donne che li hanno incontrati. Come dimostra la mole di testimonianze documentate dai CAV (Centri di Aiuto alla Vita) quasi nessuna delle donne che in seguito a un colloquio con i volontari del Mpv hanno deciso di non abortire si sono pentite della loro scelta (cfr. “Sì alla vita”, 5/maggio 2006, pp. 18-23). Se si ritiene che la fonte di queste statistiche sia di parte, si può andare a chiedere a medici che hanno praticato aborti per venticinque anni come Rossana Cirillo (ora obiettore di coscienza all’Ospedale Villa Scassi di Genova) che ammette: «non ho mai conosciuto mamme pentite di non aver abortito, invece ne ho visto di tormentate dopo l’aborto» (“Sì alla vita”, 1/gennaio 2006, p. 9), o come Giorgio Pardi, il primo medico a eseguire un aborto legale in Italia, proprio alla Mangiagalli di Milano, il quale afferma, senza mezzi termini, che «chi interrompe una gravidanza deve essere ben conscio di procurarsi una ferita che lascia cicatrici profonde» (“Tempi”, 5 ottobre 2006). Se affermazioni come queste vengono da medici che tuttora praticano l’aborto (Pardi è uno di questi) e non da fanatici militanti “pro-life”, forse bisognerà cominciare a sospettare che l’aborto non è una passeggiata, e che il tentativo di aiutare una donna a evitarlo è un servizio reso non solo al nascituro ma anche a sua madre.    

In un contesto del genere cosa può significare affermare, come fanno i firmatari della lettera, che la presenza del Mpv «nei luoghi ove si decidono e si programmano le interruzioni di gravidanza rappresenta una inaccettabile violazione dei diritti delle donne ad una autonomia decisionale»? Forse queste parole dimostrano, ancora una volta, che l’aborto è un problema che non riguarda quasi mai coloro che ne parlano. Questi ultimi, infatti, spesso costruiscono eleganti teorie sul principio di autodeterminazione della donna, creando una situazione tendenzialmente artificiale, che non corrisponde all’esperienza effettiva di una madre che si reca in ospedale per abortire. Il concetto di “libertà della donna” che i firmatari della lettera brandiscono contro i volontari del Mpv, infatti, esclude a priori la possibilità che una donna che ha già deciso di abortire possa cambiare liberamente idea, e impone che la decisione di abortire sia irreversibile. In altri termini, l’ideologia della “libertà della donna” limita drasticamente l’effettiva libertà della donna, visto che prevede solo la decisione di abortire come espressione di autentica libertà, escludendo a priori che si possa decidere liberamente di non abortire. Come se una scelta per essere libera dovesse essere necessariamente irreversibile e non potesse essere modificata da una scelta contraria, altrettanto libera. Come se solo chi decide di abortire fosse immune da condizionamenti e messaggi subliminali, laddove chi decide di non abortire sarebbe sempre vittima di un plagio più o meno palese. Dalla lettera indirizzata al Ministro Turco traspare così un vero e proprio terrore all’idea che una donna possa entrare in un consultorio in cui si trova qualcuno che non è disposto a confermare in modo indifferenziato qualsiasi decisione essa abbia preso. Evidentemente i firmatari della lettera non hanno un’idea molto alta della donna, se pensano che essa possa prendere decisioni autonome solo dopo aver incontrato un consultorio di compiacenti sostenitori della sua scelta di abortire. Fa riflettere il fatto che proprio i difensori dell’autonomia decisionale della donna pensino che la donna sia così priva di senso critico e di autonomia, da ritenerla incapace di mantenere libera una scelta in un contesto che non sia automaticamente disposto ad assecondarla.

Come si accennava, spesso la dialettica delle diverse posizioni filosofiche e la logica degli schieramenti politici rischiano di costruire una realtà artificiale, parallela a quella che uomini e donne vivono quotidianamente. Così, quando nella lettera leggiamo che «l’autonomia delle persone non può essere violata in nome del principio della sacralità della vita», si ha la sensazione che i firmatari della lettera stiano difendendo una posizione filosofica e non la donna che si reca in ospedale per abortire, magari perché il marito o il compagno l’ha indotta a farlo. Se l’aborto è davvero un dramma, insomma, qui si rischia seriamente di murare la donna nella sua solitudine sotto la falsa maschera del suo diritto di scelta. Tanto più quanto, a ben vedere, offrire alla donna, con rispetto, un’alternativa, significa darle un’occasione per accrescere la sua libertà. In caso contrario, qualora la scelta della donna venisse presa come un dogma, si rischierebbe di ratificare una decisione dettata dal bisogno e dalle difficoltà, una decisione che, se si avesse la libertà di farlo, magari non si prenderebbe. Ci sembra francamente eccessivo, oltre che astratto, credere che offrire un’alternativa a una donna che è indotta ad abortire sia una violazione della sua libertà o, addirittura, un atto lesivo della sua dignità di persona.

Da questo punto di vista l’alternativa tra “pro-choice” e “pro-life” è una falsa alternativa, frutto più di esigenze di schieramento politico che di una descrizione del vissuto di donne e di medici che hanno a che fare con la realtà dell’aborto. La presenza di volontari “pro-life” negli ospedali dove si praticano aborti implica invece il realistico riconoscimento che una madre che decide di abortire è una donna per cui non c’è alternativa e che dunque deve essere aiutata. E come ha notato acutamente il filosofo Robert Spaemann, il primo aiuto consiste nel non lasciare una donna nell’insopportabile situazione di dover decidere se il proprio bambino deve continuare a vivere o non deve vivere più. Perché è questa la percezione sofferta che la donna ha mentre si reca in ospedale, come è dimostrato dal fatto che, come ogni medico sa, le donne vogliono essere informate il meno possibile sul loro aborto, limitandosi a eseguire e a dimenticare rapidamente la cosa, a differenza di altre operazioni chirurgiche per le quali si desidera invece essere informati il più possibile. Sappiamo tutti, e non solo i medici, che ogni donna ha una chiara coscienza che nell’aborto accade qualcosa a cui non si può di buon grado guardare apertamente. E in effetti fare dell’uomo il signore della vita e della morte significa chiedergli troppo. Per questo il primo atto di rispetto nei confronti di una donna non consiste nel ratificare la sua decisione di abortire, magari perché si tratta di una decisione «sofferta e consapevole», ma nel tentativo di liberare la donna da ciò che rende sofferta questa decisione, e cioè da tutte quelle condizioni che la costringono a dover prendere in considerazione l’eliminazione del suo bambino come una possibile alternativa. Rispettare la dignità di una donna incinta può significare soltanto considerarla come «qualcuno per cui questa alternativa non è assolutamente in questione» (R. Spaemann).  

A tutti coloro che impostano il problema in questo modo viene spesso obiettato, come gli stessi firmatari della lettera fanno riferendosi ai volontari del Mpv, di farsi giudici di «tribunali impropri», creando un clima di colpevolizzazione che ferirebbe la coscienza delle donne che hanno deciso di abortire. Anche qui, purtroppo, siamo in presenza di uno slogan ideologico che non tiene conto del vissuto effettivo di una donna che ricorre all’aborto. Una donna può non voler ascoltare i consigli di coloro che le offrono un’alternativa all’aborto o, dopo averli ascoltati, può decidere diversamente. Ma se essa, dopo tutto questo, si sente in colpa quando abortisce, ciò non avviene a causa di chi ha cercato di convincerla a non abortite ma, più semplicemente, per la natura stessa del gesto che ha compiuto. Il senso di colpa di una donna che abortisce deriva dal fatto che l’aborto è un gesto innaturale per una madre e profondamente ingiusto nei confronti del bambino che ella porta in grembo. Non ci sembra corretto, da questo punto di vista, scaricare proprio su chi voleva evitare questo senso di colpa la responsabilità di averlo provocato.

Se le cose stanno così, allora incoraggiare una donna a proseguire una gravidanza non significa, come scrivono invece i firmatari a conclusione della loro lettera, dimenticare che le donne sono «cittadine a pieno titolo, persone razionali e sensibili, capaci di decidere e di assumere la responsabilità delle proprie decisioni anche nelle condizioni di maggiore complessità». Qui non è in gioco il fatto, ovvio, che le donne siano responsabili, ma il contenuto drammatico di questa responsabilità, che le donne stesse si risparmierebbero volentieri di esercitare, se solo qualcuno le aiutasse.

 

 

Luciano Sesta

 
     
     
 
 
Confezionando