La proposta
di legge sulle unioni di fatto
Brevi
considerazioni giuridiche
di
Francesco Ferrara*
Il tema della
regolamentazione delle unioni di fatto – eterosessuali
ed omosessuali – costituisce attualmente una questione
molto dibattuta nel panorama politico italiano, ed il
governo, come è noto, ha messo in agenda la valutazione
di un intervento legislativo.
Da quanto si apprende
dalla stampa nazionale e dai dibattiti televisivi, la
questione sembra che venga impostata in termini di
sostanziale contrapposizione tra diverse culture: in
particolare quella cattolica e quella c.d. laica.
Questa impostazione del
problema, tuttavia, rischia di falsare i reali termini
della questione, fornendo un’immagine distorta della
realtà. Il messaggio che viene frequentemente diffuso è
quello che identifica tout court il matrimonio
con un sacramento della Chiesa Cattolica, dimenticando
che il matrimonio è, anche, un istituto regolato dal
diritto civile. Non appare, a tal proposito, superfluo
ricordare che il nostro ordinamento giuridico contempla
essenzialmente due tipi di forme di celebrazione del
matrimonio: quello c.d. Concordatario e quello civile.
Il primo consente ai cattolici di celebrare il
matrimonio dinanzi al sacerdote, e qualora trascritto,
produce effetti civili. L’altro, quello c.d. Civile,
invece, viene celebrato innanzi al Sindaco o ad un suo
delegato, e nessuna professione di fede viene richiesta
agli sposi.
Alla luce di quanto
esposto, pertanto, è da ritenersi che la riflessione sul
tema matrimonio ed unioni di fatto vada condotta in modo
diverso. Una possibile via da percorrere potrebbe essere
quella di analizzare il tema della regolarizzazione
delle unioni di fatto tentando di ragionare in termini
diversi da quelli di un conflitto culturale: laici
contro cattolici conservatori.
Per comodità espositiva
appare più opportuno analizzare, dapprima, il profilo
delle unioni di fatto eterosessuali, per poi passare a
riflettere su quelle omosessuali. La prospettiva dalla
quale si muove è quella di indagare sulla “ratio”
della normazione giuridica del “fatto” matrimoniale da
parte di un ordinamento giuridico civile. In altri
termini occorre chiedersi: perché uno Stato si preoccupa
di intromettersi con le sue leggi nella vita di due
persone che vogliono vivere insieme e dar vita ad una
famiglia? Anticipando i risultati cui si è pervenuti in
questa breve riflessione sembra che la chiave di lettura
dell’intervento giuridico statale sia da rintracciare
nella esigenza di certezza dei rapporti giuridici. Il
quadro normativo sembra confermare questa affermazione.
Il codice civile
(articoli 79 e seguenti) disciplina il matrimonio.
Tuttavia, non c’è una definizione di matrimonio ma alla
celebrazione civile del matrimonio o alla trascrizione
di quello religioso (rectius: concordatario)
vengono ricollegate delle conseguenze nel rapporto tra i
coniugi, nei confronti dei figli e dei terzi (regime
patrimoniale dei coniugi).
Vediamo più da vicino
alcune conseguenze giuridiche collegate alla
ufficializzazione del rapporto tra due persone di sesso
diverso.
a) nel rapporto con i
figli: la Costituzione Italiana impone l’obbligo dei
genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche
se nati fuori del matrimonio, tuttavia il legislatore
non può ignorare la differenza di situazioni: nel caso
di figlio nato durante il matrimonio c’è una presunzione
di paternità (art. 231 codice civile), quando il figlio
nasce fuori del matrimonio occorre un atto di
riconoscimento da parte del padre. Non mi sembra che sia
una discriminazione dal sapore arcaico e conservatore,
ma una naturale conseguenza del fatto che il matrimonio
è stato trascritto.
b) in caso di morte di
uno dei due coniugi, la Corte Costituzionale ha negato
al partner convivente l’assimilazione al coniuge ai fini
della c.d. successione legittima all’eredità. A
differenza del coniuge, il convivente non ha diritto ad
ereditare automaticamente il patrimonio del defunto.
Anche qui non c’è una volontà di discriminazione ma sono
le ragioni di certezza del diritto successorio che
impongono che la categoria dei soggetti cui deve
necessariamente spettare una parte del patrimonio del
defunto sia individuata con sicurezza a priori.
c) nei rapporti con la
giustizia penale – ad esempio – il fatto che vi sia un
matrimonio trascritto costituisce presupposto per
l’applicazione di una norma: quella che esclude la
punibilità del coniuge non separato che abbia sottratto
denaro all’altro coniuge (art. 649 codice penale). Più
semplicemente: se la moglie prende 100 euro dal
portafoglio del marito, a sua insaputa, questi non potrà
denunciarla per furto. Per ben due volte la Corte
Costituzionale (nel 1998 con la sentenza n. 299 e nel
2000 con la sentenza n. 352) ha rifiutato di dichiarare
la norma illegittima, perché nelle ipotesi di
convivenza, si legge nella sentenza, l’affectio è
revocabile in qualsiasi momento. In entrambi i casi era
stato chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare la
illegittimità dell’art. 649 del codice penale nella
parte in cui non estende l’ipotesi di non punibilità
anche ai conviventi. Più in particolare si trattava di
fattispecie di furto operate dal coniuge divorziato in
un caso, e da un fratello nei confronti della sorella,
in un’altra fattispecie.
d) un ultimo esempio –
ma se ne potrebbero fare altri – è dato dal testo unico
sull’autocertificazione (d.p.r. n.445/2000). L’art. 4,
comma secondo, prende in considerazione l’ipotesi in cui
chi deve rendere una dichiarazione si trovi in una
situazione di impedimento temporaneo, in questi casi la
dichiarazione può essere sostituita dal coniuge o da
altro parente. Soggetti tra i quali vi sia un rapporto
certo.
Da questa breve disamina
emergono delle differenze di trattamento giuridico tra
le coppie sposate e quelle conviventi. La logica della
convivenza non è forse quella di non imprimere il crisma
della certezza giuridica ad un rapporto tra due persone?
Ciò premesso, appare quantomeno arduo comprendere le
ragioni di questa campagna
c.d. laica a favore di chi non vuole sposarsi.
L’obiezione frequente
che la registrazione delle coppie conviventi serva ad
eliminare le differenze non appare, invero, persuasiva.
Si vuole imporre la certezza giuridica a chi sceglie di
vivere nell’assenza di regole giuridiche.
È spontaneo chiedersi:
se le convivenze vengono registrate queste non diventano
sostanzialmente matrimoni? Questa domanda sintetizza
altri dubbi: la registrazione della convivenza è
consensuale? La risposta non può che essere positiva. In
caso di cessazione della convivenza registrata come si
regolano i rapporti tra i conviventi registrati e con i
figli? Si applicano le regole sulla separazione? Se così
è, appare ancora più difficile trovare la vera linea di
discrimine tra un matrimonio civile e un’unione civile.
Per chi vuole certezze esiste già il matrimonio civile.
A questo punto è lecito
sospettare, come hanno fatto in molti, che
questa manovra politica miri unicamente a
consentire l’equiparazione delle coppie eterosessuali e
coppie omosessuali.
Anche per quanto
concerne questo aspetto è bene prescindere da ogni
valutazione morale e concentrarsi su quelle giuridiche e
politiche.
Il punto richiederebbe
ampi approfondimenti. I valori di solidarietà tra due
persone, anche dello stesso sesso, possono già in atto
essere garantiti mediante contratti (es. la rendita, la
cointestazione di un immobile), donazioni, testamenti.
L’orientamento sessuale – come viene definito dai
sostenitori delle unioni omosessuali – non esclude la
possibilità che l’uno benefici economicamente l’altro.
Le differenze maggiori si notano nel rapporto con il
“pubblico”. Qui occorre operare una distinzione tra i
profili di solidarietà umana e quelli economici.
Nel primo
aspetto rientrano i problemi quali il diritto di visita
in ospedale, il diritto di visita in carcere, la facoltà
di prendere decisioni in caso di malattia. Il punto è
molto interessante, ma agevolmente distinguibile da
altri aspetti.
Iniziamo con quei
diritti a contenuto non economico: il diritto di visita,
ad esempio, potrebbe e dovrebbe trovare una specifica
normazione che prescinda non solo dagli orientamenti
sessuali, ma dal fatto stesso della convivenza. Se ben
riflettiamo può essere un problema anche degli
eterosessuali. Si pensi a quelle persone, non sposate,
non conviventi, sole al mondo, che abbiano un forte
rapporto di amicizia e solidarietà con un’altra persona,
ed il cui rapporto prescinda dal reciproco interesse
sessuale. Sarebbe auspicabile che il legislatore desse
la possibilità a chiunque di indicare la persona “cara”
dalla quale si vuole essere assistiti, senza indagare
sulla loro vita intima.
Diverso invece è il
profilo che può definirsi economico-collettivo,
come chiedere benefici allo Stato o ad altri soggetti
pubblici: benefici fiscali, assegnazione di alloggi
popolari, pensioni di reversibilità solo per citarne
alcuni. Qui la differenza tra eterosessuali coniugati e
coppie omosessuali è forte. Questo è un fatto innegabile
ed evidente, ma bisogna chiedersi se sia anche
irragionevole. Assumere il ruolo di giudice della
ragionevolezza non è compito semplice, pertanto appare
preferibile concludere esponendo alcuni dubbi: le coppie
omosessuali registrate saranno equiparate a quelle
eterosessuali per l’assegnazione di case popolari, di
benefici economici? Le coppie eterosessuali accetteranno
la concorrenza dinanzi allo Stato delle coppie
omosessuali? In caso di avvicinamento della sede
lavorativa a quella di uno dei “coniugi”, sono sullo
stesso piano i due tipi di coppie? La questione
meriterebbe più attenzione di quella che, invece, si sta
ponendo attualmente. Questa equiparazione tra situazioni
totalmente diverse (coppie eterosessuali e coppie
omosessuali) sembra che risponda più ad una ostentazione
di visibilità da parte delle lobby omosessuali che al
loro reale interesse a non essere discriminati.
Concludendo, non appare
eccessivamente pessimista affermare che la
concorrenzialità delle coppie omosessuali potrebbe
suscitare fenomeni di intolleranza nei loro confronti,
che mal si conciliano con il sentimento di rispetto che
dovrebbe accomunare cattolici e laici nei confronti di
queste persone.
*
Dottorando in Diritto Pubblico presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Palermo |