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Cocaina
e Cannabis
Apporti
scientifici e riflessi antropologici sul consumo delle
droghe "leggere"
di
Francesco Romano
Introduzione
Il recente dibattito sulla legalizzazione o meno delle sostanze
stupefacenti ha portato alla ribalta della discussione
politica ciò che purtroppo – nonostante o forse a causa
delle attenzioni altalenanti cui è soggetto da parte
della comunità socio-politica – è un fenomeno
storicamente ricorrente: l’abuso delle cosiddette
droghe leggere. Questo costume - per le
generalizzazione a cui assurge in alcuni periodi storici
lo si può spiacevolmente definire così - della società
occidentale mina le basi della civile convivenza
alimentando una spirale di illegalità e di violenza.
Si è pensato, nel presente studio, di ricapitolare i risultati della
moderna ricerca scientifica riguardo gli effetti delle
sostanze stupefacenti più largamente usate (cocaina
e cannabis), considerate droghe leggere,
in modo da offrire una valutazione complessiva dei loro
effetti.
Si è inoltre valutato l’aspetto antropologico del
fenomeno-droga, alla luce di una concezione
personologica dell’individuo. Questa prospettiva,
pensiamo, deve essere tenuta presente da parte di tutti,
insieme all’aspetto medico-scientifico, per una
valutazione complessiva degli effetti sulla persona;
pena lo scadere del dibattito in un bisticcio di voci
dissonanti, parziali o male informate.
-
Cocaina
1.1
Scoperta e storia
Le prime notizie con rilevanza scientifica sull’abuso della cocaina,
risalgono ad un secolo fa. Nel 1859 Albert Niemann, di
Gottingen, isolò e titolò cocaina il principale
alcaloide delle foglie di coca. Nella successiva metà
del secolo una gran quantità di medici e giuristi si
interessarono del potere di questo nuovo e potente
stimolante del sistema nervoso centrale. Secondo la
medicina ufficiale del tempo esso costituì un rimedio a
tutti i mali dell’umanità e i medici lo prescrissero
contro l’alcolismo, la depressione, la dipendenza da
morfina, la tubercolosi, l’impotenza e una gran varietà
di altri malanni.
Il successo di una simile panacea è facile da comprendere. Tirando su
l’umore, incrementando l’attenzione e diminuendo la
fatica, la cocaina costituisce un rimedio sintomatico
(non eziologico) per molte malattie croniche e per la
depressione che spesso accompagna il lungo decorso di
alcuni traumi. Fu solo quando cominciarono a
riscontrarsi sovradosaggio, psicosi paranoide ed
incapacità di interromperne l’assunzione, che
l’entusiasmo per la droga si convertì in delusione ed il
suo uso diminuì. Anche se non è mai cessato del tutto.
Avendo tali proprietà è
quasi inevitabile che la cocaina goda di periodi di
largo consumo. Durante i periodi di disagio sociale
quando la droga è facilmente reperibile, c’è forte
richiesta di potenti anti-depressivi. Affiorano così le
loro conseguenze negative e vengono imposti controlli
legali per cui l’uso di queste sostanze regredisce.
Quando vengono invece dimenticate le complicanze dovute
al loro protratto uso una droga come la cocaina ritorna
in auge
1.2 Modalità di
consumo
La Cocaina è assorbibile
dall’organismo attraverso tutte le membrane mucose.
L’assunzione attraverso la mucosa nasale è preferita
all’assunzione per via orale in quanto permette il
superamento di una prima barriera metabolica – con
conseguente parziale perdita degli effetti stupefacenti
- che è il fegato. Sono usate comunque anche altre
mucose, come quella vaginale e rettale. Tra le
complicanze dell’assunzione della cocaina sniffing,
si annoverano la rinite, qualche volta etmoiditi,
erosione della mucosa e, raramente, perforazione del
setto nasale cartilagineo. L’effetto dopo iniezione
endovenosa si avverte a 15-20 secondi dall’inoculazione.
La somministrazione intramuscolare o sottocutanea furono
utilizzate per i primi anni ma attualmente non sono più
riportate tra le modalità comuni di assunzione.
.
1.3 Il ‘mito’ della
cocaina
Perché si comincia ad
usare la cocaina? Da recenti sondaggi condotti su
giovani, durante il periodo del servizio militare,
pubblicato dal National Focal Point, sul Report annuale
sullo status delle droghe in Italia nel 1999, è
risultato che riguardo al motivo per cui si comincia a
fare uso di sostanze stupefacenti, le due motivazioni
prevalenti sono curiosità (più del 40%) e pressione del
gruppo (più del 30%).
Riguardo il passato, c’è da dire però che l’insorgere dell’uso della
cocaina fu stato accompagnato da due ‘credenze popolari’,
che ne favorirono la diffusione facendone quasi un mito.
La prima è che essa comparve come status symbol,
una droga usata da gente di classe medio-alta, influente
e sofisticata. A parità di peso essa non costa più
dell’eroina. Tuttavia pochi giorni di consumo possono
costare centinaia o migliaia di dollari, a secondo della
purezza della sostanza. Pertanto l’uso abituale e
ripetuto richiede grandi somme di denaro oppure il
consumo di enormi quantità di cocaina.
La seconda ‘credenza’ era che la cocaina fosse una droga sicura (safe
drug), ed avesse pochi o nulli effetti collaterali.
Questa idea può essere sorta poiché i primi consumatori
di cocaina raramente usavano “sniffarla”. Adesso, che
sono più frequenti gli studi su campioni riguardo l’uso
ripetuto per via nasale (compulsive sniffing),
respiratoria (smoke) ed intravenosa, e che la
cocaina è assunta in dosi maggiori, sono state osservate
molte serie e letali conseguenze della dipendenza da
questa sostanza.
1.4 Effetti letali e
non letali
Nel 1987, un comitato di ricercatori impegnati nello studio della
dipendenza da sostanze stupefacenti, raccomandò il
proseguire degli studi sperimentali in cui la cocaina
fosse somministrata ai soggetti sotto controllo medico,
per valutarne gli effetti clinici, sintomatologici e
fisiologici.
In risposta Nahas (1990) ipotizzò che i rischi
conseguenti all’uso sperimentale di cocaina su campioni
umani, superassero i benefici che se ne sarebbero potuti
trarre, e dimostrò questo, in un esauriente studio.
Come si vede, si trattò di una discussione in ambito
medico scientifico tra chi vedeva più gli effetti
benefici di una tale ricerca e chi invece era più
propenso a sottolinearne i danni. Visto che la
discussione si svolgeva fuori da un contesto politico ed
ideologico, i risultati raggiunti sono altamente
attendibili. Questa ricerca – cui rimandiamo per
ulteriori approfondimenti scientifici -, consistette
pertanto in una interessante rassegna degli studi più
seri e specifici degli ultimi anni, sul tema di cui ci
stiamo occupando. I risultati in sintesi furono i
seguenti:
1.
Sebbene
alcuni studi abbiano esagerato nel descrivere gli
effetti negativi dell'uso sporadico di cocaina,
la tossicità di questa droga è documentata sin dagli
inizi del secolo scorso.
2.
Negli
ultimi 10 anni sono stati portati a termine diversi
studi su soggetti umani ai quali è stata fornita cocaina
in diverse dosi e per diverse vie: orale, intranasale,
endovenosa.
I risultati hanno confermato le conclusioni degli
esperimenti condotti sulle scimmie. Ovvero: la cocaina è
assunta dai soggetti spontaneamente e ripetitivamente;
induce rapidamente tolleranza; aumenta la pressione
sanguigna e il battito cardiaco.
3.
I
risultati di questi studi non hanno fornito alcun'altra
informazione che non fosse già nota all'osservazione
clinica come riportato all'inizio del secolo.
Questi includono fibrillazioni e irregolare battito
cardiaco prodotto dalla cocaina, così come gli effetti
dannosi sulle funzioni cerebrali.
4.
Nella
letteratura scientifica americana, dal 1975 al 1987,
sono stati documentati 140 decessi correlati
all'assunzione "recreational use" di cocaina, e questo
non solo in caso di elevata concentrazione plasmatica
(da 0.8 a 800 mg/litro). La qual cosa indica che il
decesso non è necessariamente prodotto da un elevata
dose di droga.
5.
S. Peng e
al. (1987) hanno sottolineato come il danno prodotto
dalla somministrazione sperimentale, sul tessuto
vascolare o cerebrale non debba essere sottovalutato.
6.
In uno
studio recente sono state riscontrate bande necrotiche
di tessuto nel 93 % di muscoli cardiaci, apparentemente
normali, rimossi da soggetti il cui decesso era
correlato all'assunzione di cocaina.
Concludendo il suo
lavoro, Nahas afferma: "Sulla base delle attuali
conoscenze e considerando il grave rischio che comporta
la somministrazione di cocaina a soggetti che già la
assumono abitualmente, l'autore è del parere che la
sperimentazione su esseri umani deve essere sospesa. Al
contrario le linee di ricerca devono essere condotte
verso studi in vitro e in vivo su animali,
così da verificare gli effetti e i meccanismi di
tossicità della cocaina sul cervello, sul cuore, sul
sistema vascolare e sul fegato".
Riguardo gli effetti,
però, ci rimangono da considerare più attentamente anche
quelli psicologico-comportamentali prodotti
dall’assunzione di cocaina.
Il commercio illecito di
cocaina è un’impresa ad alto rischio, della quale la
violenza è una frequente conseguenza. La depressione che
segue l’uso di cocaina (post-cocaine depression)
è così intensa da poter portare al suicidio. La
depressione è apparentemente dovuta all’esaurimento
della dopamina, e all’insensibilità dei recettori
dopaminici, conseguenti l’entrata in circolo della
cocaina. Inoltre il senso di colpa che può affiorare nel
momento in cui si riprende possesso delle proprie
facoltà intensifica la spinta suicida (Cohen, 1981). I
pensieri paranoici che quasi sempre sviluppano i
consumatori abituali di cocaina portano a perdita del
senso della realtà (miscalculation of the environment).
L’eccessiva diffidenza può portare le persone
circostanti a sentirsi offese. I decessi accidentali,
durante intossicazione da cocaina, sono spesso causati
dagli effetti delle illusioni, dei giudizi errati o
delle decisioni affrettate che essa provoca nel
soggetto.
Gli effetti a lungo termine del fumo della pasta di coca e della cocaina
base sono sconosciuti. Riguardo le misure della
funzionalità respiratoria, durante un intervallo di
non-uso, i fumatori sono risultati avere una minora
capacità di eliminazione di CO2 attraverso gli alveoli
polmonari rispetto agli individui normali.
1.5
Dipendenza
Washton (1989) ha riscontrato lo "straordinario effetto additivo della
cocaina" e l'intenso desiderio che provoca di ritornare
all'uso. Questi sono "così potenti da cancellare anche
gli istinti di sopravvivenza".
Risultati provenienti da altri paesi hanno invece
concluso che il consumo di cocaina è legato a scarsi
problemi di dipendenza.
Anche negli stati Uniti ci sono studi in accordo a
questi ultimi.
Al di là di queste
interessanti discrepanze tra ricerche fatte in paesi
differenti, è comunque fuor di dubbio (e supportato da
altri studi) che una stessa droga può indurre differenti
livelli di dipendenza quando somministrata attraverso
differenti vie.
Nei vecchi studi
scientifici, faceva notare S. Cohen (1984), la cocaina
non sembrava dare dipendenza fisica. E il risultato era
corretto, poiché il modesto quantitativo in uso allora e
la frequenza di assunzione da parte del soggetto non
avevano paragone con quelle impiegate oggi.
Le dosi elevate attualmente abituali e la frequenza con
cui è assunta la cocaina oggi inducono tolleranza al
farmaco (con evidente necessità di aumentarne la dose
per ottenere gli stessi effetti) e sindrome d'astinenza
nel momento in cui se ne interrompe bruscamente il
consumo. Quest'ultimo consiste in depressione, tendenza
a mangiare e dormire di più ed insofferenza. I
consumatori sono spinti a tornare all'uso di cocaina
perché fortemente attratti dagli effetti (reward)
di intenso senso di euforia, ma anche per fuggire
l'intenso senso di depressione e il senso di colpa che
si fa presente in caso di uso discontinuo di cocaina.
Inoltre c'è una incapacità di gustare i piccoli piaceri
del vivere perché i centri del sistema nervoso centrale
sono stati sovrastimolati e sono temporaneamente
refrattari agli stimoli normali. A parte la depressione
psichica, la dipendenza fisica non è un fattore
determinante per riportare il consumatore all'uso della
cocaina.
Non sempre le ricerche
su animali possono essere applicate all'uomo. Tuttavia
gli studi sul comportamento di primati che hanno assunto
cocaina, rivela una sorprendente somiglianza con il
comportamento osservato su consumatori cronici di
cocaina. Quando l'accesso alla droga è illimitato, i
primati assumerebbero la droga – ciò avviene,
nell'esperimento, pressando una barra – fino alla morte
o all'insorgere di convulsioni. Se è fornito un maggior
quantitativo di droga i primati sono capaci di premere
fino a 12.800 volte per ottenere una singola dose. I
primati preferiscono la cocaina endovena piuttosto che
le anfetamine, sempre endovena. Essi preferiscono la
droga al cibo che hanno a disposizione nella gabbia.
Anche se un esemplare femmina è presente, disposto
all'accoppiamento, essi non se ne interessano e
continuano a premere la barra per avere altra droga.
Infine i primati sottoposti alla sperimentazione
preferiscono premere la barra che da una lieve scossa
elettrica ma una maggior dose di cocaina, piuttosto che
una che non dà scossa elettrica ma fornisce un più
modesto quantitativo di droga. La cocaina ha il più
potente effetto di richiamo di qualunque altra droga
conosciuta.
1.6 Terapia di
recupero
Il consumatore di
cocaina che cerca di uscirne è ben consapevole della
natura insidiosa, insistente e distruttiva della
dipendenza della cocaina. E’ importante fornirgli tutte
le necessarie informazioni circa le molteplici e serie
conseguenze dell’uso abituale di cocaina in modo da
rinforzare la motivazione del paziente ad astenersene.
E’ disponibile un sufficiente materiale della sequela
del chronic cocainism così da rendere efficace la
presentazione delle prospettive conseguenti all’abuso
prolungato. Dovrebbe essere soprattutto descritto il
paradosso dell’uso di cocaina: ciò che inizia con la
ricerca di euforia e benessere termina inevitabilmente
in un senso disforico e di depressione.
1.7 Sintesi
La Cocaina è un potente
euforico che induce in cambio, anche solo
transitoriamente, depressione, timore e senso di
malessere. Nuove modalità di assunzione di cocaina, come
l'inalazione dei vapori della coca-base, la
somministrazione endovena di cocaine hydrochloride
, e il fumo di pasta di coca produce una momentanea
ebbrezza che lascia rapidamente il posto all'umore
precedente o malessere, risultando in un forte desiderio
di tornare alla momentanea esperienza estatica; un
circolo che porta ad un uso ripetuto.
L’enorme profitto
fornito dal traffico illecito di cocaina porta alla
corruzione, alla violenza,e, in alcuni paesi,
all'instabilità politica. Il costo individuale della
cocaina porta alla perdita di colossali patrimoni,
lavoro e famiglia. La sicurezza della cocaina è una non
più credibile leggenda. Ci sono molte possibilità che la
cocaina sia letale. Le elevate dosi che attualmente si
usano portano alla dipendenza fisica. Ma questo problema
è minore rispetto all'intenso desiderio psichico di
tornare all'uso ripetuto della cocaina. Non c'è uno
specifico modo di trattare i disagi indotti dall'abuso
di cocaina; il piano di trattamento deve commisurarsi
alle singole specifiche situazioni.
2. Cannabis
2.1 Storia,
diffusione e statistica
La Cannabis rappresenta
la droga di più largo uso al mondo, con un rilevante
numero di consumatori nella società occidentale. La
diffusione geografica comprende praticamente tutti i
paesi del mondo. Circa 140 milioni di individui fa uso
di cannabis (il 2,5% della popolazione mondiale,
paragonata allo 0,3% che consuma cocaina e lo 0,2%
oppiacei; vedi TAB 1 e 2). Studi epidemiologici
concordano nell'affermare che la maggior parte dei
consumatori sono giovani, anche tra i 10 e i venti anni.
La porzione di consumatori più consistente ne fa uso
saltuario, fino ai 20-30 anni circa. Solo una piccola
parte usa la droga quotidianamente per un periodi di
anni. Degli studi condotti negli USA e in Australia
indicano che circa il 10% di quelli che non hanno mai
usato cannabis divengono fumatori giornalieri; circa il
20-30% invece ne usano con frequenza settimanale.
Paese e anno di
campionamento |
% sul tot. di droghe illegali |
Cannabis |
Amphetamine |
Ecstasy |
LSD |
Cocaina |
Eroina |
Australia, 1996
(tra 15-16 anni) |
51.3a |
47.2 |
7.9 |
4.6 |
11.9b |
3.7 |
4.1 |
U.S.A., 1996
(tra 10-16 anni) |
45.4 |
39.8 |
17.7
(4.4)c |
5.6 |
9.4 |
7.1 |
2.1 |
Canada, 1995
(tra 15-17 anni) |
30.4 |
28.8 |
10.7c |
- |
10.7c |
1.8 |
10.7c |
Unione Europea,
1994/95; media non ponderata
(tra 15-16anni)d |
17.5 |
14.5 |
3.7 |
2.4 |
2.3 |
1.0 |
0.7 |
|
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|
TAB. 1.
Diffusione della cannabis (lifetime prevalence)
tra i 15-16 anni di età, paragonata ad altre droghe
(in %), nei Paesi dell'UE, Australia, Canada e U.S.A..
TAB.
2
Andamento globale del consumo di Cannabis, Eroina e
Cocaina (1987-1997). Si noti l'andamento crescente della
Cannabis rispetto all'altalenante consumo di Eroina e
Cocaina.
Fonte: UNDCP Research Section, “Cannabis as an illicit
narcotic crop: a review of the global situation of
cannabis consumption, trafficking and production”; in
Bulletin on Narcotics (1997).
L’uso terapeutico della cannabis ha una storia
che si perde nei secoli. Già fonti degli antichi Egizi,
dei Cinesi (2700 a.C) e degli Assiri (800 a.C.) indicano
la cannabis come una delle più antiche droghe del
mondo. L’introduzione nel mondo occidentale
probabilmente si deve ai medici in forza all’esercito
inglese in India che ne notarono gli effetti
anti-convulsivi, analgesici, ansiolitici.
Iniziata quella che può definirsi la fase moderna
dell’impiego terapeutico della cannabis, furono notati
altri effetti nella terapia delle malattie
psichiatriche, come induttore dell’appetito e del sonno,
senza presentare particolari effetti secondari. Come
molte altre droghe estratte da vegetali anche la
cannabis è stata usata per lenire il dolore e la
sofferenza dell’uomo per decenni. Alla fine del XIX°
secolo nella farmacopea americana la cannabis era
indicata come farmaco contro nevralgia, gotta,
reumatismi, tetano, colera epidemico, convulsioni,
isteria, depressione mentale, delirium tremens, e
altre patologie. L’interesse – comprensibile visto
l’ampio spettro di patologie contro le quali veniva con
successo impiegata - per l’uso terapeutico della
cannbis crollo’ quando nel 1930 essa fu dichiarata
illegale dal Marijuana Tax Act. Tale azione fu
introdotta dopo la commercializzazione dell’aspirina,
dei barbiturici e di altri analgesici sintetici e
sedativi che presto resero inutile l’uso medico della
cannabis. Tuttavia il crescente uso ricreativo della
cannabis negli anni ’60 riportò il dibattito sui
risultati medico-scientifici del suo utilizzo. Perché
dunque la cannabis attira tanto l’interesse? Perché
tante controversie sui risultati terapeutici e sui suoi
effetti sulla salue? Lungo questy’analisi cercheremo
delle possibili risposte.
2.2 Cannabis: la
droga
Cannabis è il nome generico per una serie di preparati derivati dalla
pianta Cannabis sativa L., che contiene più di 60
sostanze tipo-cannabinoidi. La ricerca chimica di
laboratorio ha individuato e isolato nel 1964 il
principio attivo con la maggiore potenzialità
psicoattiva: è il cannabinoide
trans-i9-tetraidrocannabinolo (THC).
La concentrazione di THC varia tra i 3 più comuni tipi
di cannabis:
a)
marijuana:
preparata essiccando la fioritura raccolta dalla parte
alta della pianta. Queste sono le parti con la maggiore
concentrazione di THC, che va diminuendo man mano che si
scende lungo lo stelo. La concentrazione di THC in
foglie di marijuana di questo tipo raggiunge dal 0,5-5%,
mentre la varietà Sinsemilla tra il 7 e il 14%.
b)
hashish
che consiste in resina di cannabis e fiori essiccati e
compressi. La concentrazione di THC quì varia dal 2-8%.
c)
hash oil;
è un materiale altamente concentrato prodotto astraendo
il THC dall’hashish (o dalla marijuana) attraverso un
solvente organico. La concentrazione del THC in questo
olio è di solito tra il 15-50%.
Il modo di impiego più diffuso è quello di arrotolare manualmente la
marijuana in sottili foglietti e fumarla. Spesso è
inserito il tabacco che facilita la combustione.
L’Hashish può essere mischiato al tabacco e fumato in
pipa o in sigaretta. L’olio di hashish può essere
versato in poche gocce sul tabacco di una normale
sigaretta, aggiunto ad una miscela per pipa o
vaporizzato e inalato. Qualunque sia il metodo usato il
consumatore di solito respira profondamente e trattiene
la sostanza in modo da massimizzare l’assorbimento di
THC.
Una sigaretta-tipo può contenere tra 0.5 e
1.0 g di cannabis, che a
sua volta può variare nel contenuto di THC tra i 5 e i
150 mg (tra l’1-15%). L’effettiva dose di THC utilizzata
è pertanto stimata tra il 20-70% (Hawks, 1982), il resto
si perde nella combustione o nel fumo non inalato.
La bioviabilità del THC (percentuale di THC che
raggiunge il circolo ematico) dalle sigarette di
marijuana in individui di specie umana è stato stimato
intorno al 5-24% (Ohlsson e al. 1980).
Viste tutte queste variabili, si intuisce come
l’effettiva dose di THC assorbita dall’organismo di
volta in volta non sia facilmente quantizzabile.
Riguardo le dosi impiegate si nota che una modesta quantità di cannabis
(2-3 mg di THC) è sufficiente per produrre un effetto
sensibilmente elevato in un fumatore non abituale ed una
singola sigaretta può servire per due o tre individui.
Abitualmente i fumatori abituali consumano cinque o più
sigarette al giorno mentre in Jamaica possono arrivare a
consumare 420 mg al giorno. Può essere indicativo sapere
che le ricerche cliniche per verificare gli effetti
della cannabis sulla salute usano dosi in capsule di 10
(bassa), 20 (media) e 25 (alta) mg di THC.
Ci sono diversi aspetti della farmacocinetica del THC che hanno grande
importanza sugli effetti della cannabis (produzione di
metaboliti attivi, tempo e modo di deposito nei tessuti
adiposi, raggiungimento del picco ematico ed equilibrio
con la concentrazione nel tessuto cerebrale) che vanno
considerati attentamente ma purtroppo sono
frequentemente disconosciuti.
2.3 Difficoltà
metodologiche nell’individuarne gli effetti sulla salute
Determinare gli effetti secondari di una sostanza chimica particolare su
una popolazione così diversa per ampiezza e tipologia è
spesso difficile a meno che essi non emergano in modo
chiaro ed evidente. Pertanto non sorprende il fatto che
si continui ad opinare sugli effetti della cannabis
riguardo la salute. Ci sono stati numerosi studi
sull’argomento:
alcuni hanno concluso che la cannabis è relativamente
innocua,
mentre altri hanno concluso che essa è decisamente
pericolosa e dannosa.
Ci sono diversi fattori che contribuiscono alla sotto o sopravalutazione
dei diversi effetti dell’uso di cannabis. Come accennato
sopra la cannabis è usata fondamentalmente da una fascia
di individui giovani, la cui salute è abitualmente
migliore che quella della media della popolazione.
Inoltre molti consumatori fanno un uso saltuario di
cannabis, questo probabilmente mitiga in parte gli
effetti sulla salute. C’è poi una certa tendenza a
trattare i consumatori di cannabis come un campione
omogeneo, senza riferimento ai gruppi ad alto rischio
come gli adolescenti o soggetti con pregresse turbe
psichiche. Naturalmente, le estrapolazioni dei risultati
su soggetti ad alto rischio riportate su tutta la
popolazione possono indurre una sopravalutazione degli
effetti della sostanza sulla salute. Pertanto è
categorico che, prima di tirare le conclusioni riguardo
l’effetto di qualsiasi sostanza, siano state considerati
fattori quali lo stato di salute del soggetto, la
frequenza di uso e i rischi associati.
Nelle righe seguenti terremo in conto i parametri usati da Martin e Hall
(1997) e ritenuti standard affidabili dalla comunità
scientifica internazionale nel momento in cui si prende
in considerazione qualsiasi studio scientifico. La
conclusione scientifica che la cannabis arrechi
danni alla salute ha pertanto come presupposto:
a)
che ci sia
una relazione dimostrata tra l’uso di cannabis e la
patologia in questione.
b)
che la
sola probabilità, che ci sia questa relazione, non sia
presa in considerazione come prova.
c)
che l’uso
di cannabis preceda la patologia.
d)
che siano
escluse altre possibili cause di quella specifica
patologia.
Questi presupposti sono assicurati – in tutti gli studi che presentiamo
in queste pagine - da specifici metodi statistici usati
di volta in volta durante le ricerche, che escludono la
presenza di errori (studi caso-controllo, doppio-cieco,
coorte ed esperimenti).
2.4 Effetti immediati
della cannabis
L’individuo sotto effetto della cannabis presenta i seguenti sintomi:
alterato stato di coscienza accompagnato da lieve
euforia e senso di rilassatezza; alterazioni della
percezione, come distorsione del tempo, ma anche
alterazione della percezione sensoriale di stimoli
normali, come mangiare, vedere dei film e ascoltare
della musica.
Quando l’uso avviene in un contesto conviviale, tra i
suoi effetti possono notarsi riso contagioso, e
loquacità. Ci sono anche dei pronunciati effetti sulla
capacità cognitiva, come l’indebolimento della memoria
breve e la dissociazione dei pensieri che porta il
soggetto a lasciarsi trasportare da sogni ad occhi
aperti e fantasie. Sono compromesse in vario grado anche
le reazioni e le funzioni motorie così che l’attività
normale di vario tipo risulta frequentemente alterata.
Gli effetti psicologici più fastidiosi sono soliti essere ansia, attacchi
di panico, paura di perdere il controllo e malessere
derivato da stato d’animo depresso.
Meno frequentemente insorgono sintomi psicotici, come
allucinazioni, ma solo ad alti dosaggi. Questi effetti
sono solitamente riportati da consumatori alle prime
armi che non conoscono gli effetti della droga, o da
pazienti cui è stata somministrata THC per fini
terapeutici. Consumatori più sperimentati possono
avvertire sintomi di questo tipo in seguito a
sovradosaggio da THC. Questi effetti possono essere
evitati con una apposita preparazione psicologica del
paziente che tenda a spiegargli prima il possibile
insorgere di questa possibile sintomatologia.
L’inalazione o la somministrazione di THC ha una serie di effetti
farmacologici anche sull’apparato cardiovascolare. Il
più tipico è l’aumento del battito cardiaco del 20-50%
rispetto alla norma.
Questa tachicardia può insorgere tra i primi minuti fino
ad un quarto d’ora dopo la somministrazione e può durare
tra 1-3 ore. Le variazioni della pressione dipendono
dalla posizione del corpo. Nei consumatori giovani gli
effetti cardiovascolari sono più limitati a causa
dell’adattamento agli effetti del THC e del fatto che
abitualmente godono di salute migliore.
Riguardo il potenziale letale, non si trovano nella letteratura mondiale,
casi confermati di decesso in seguito ad assunzione di
cannabis. Gli studi sperimentali su animali indicano che
la dose letale di THC è estremamente elevata rispetto ad
altri preparati medico-farmacologici o ad altre droghe.
Questo distingue la cannabis dalla altre droghe di uso
comune, che solitamente hanno tutte una capacità di
provocare la morte ad alte dosi. Purtroppo questo fatto
ha portato a parlare della cannabis come di una
safe-drug, che quindi potesse essere usata senza
timore di effetti secondari. Attualmente, i problemi
correlati all’uso di cannabis, possono essere attribuiti
al suo rendere difficile una normale vita produttiva
piuttosto che alla sua potenziale letalità.
Da questi e altri studi si possono sintetizzare così gli effetti
immediati dell’uso di cannabis:
ansia, depressione, panico e paranoia, specialmente nei
consumatori iniziali; indebolimento della capacità
cognitiva, specialmente attenzione e memoria; difetti
psicomotori e possibile aumento del rischio di incidenti
nel caso in cui il soggetto sotto effetto della cannabis
si accinga a guidare un veicolo a motore; incremento del
rischio di scatenare sintomi psicotici in coloro i
quali mostrino nell’anamnesi familiare precedenti di
malattie nervose.
2.5 Effetti dell’uso
continuato di cannabis sulla salute
Il THC produce alterazioni al metabolismo cellulare e alla sintesi del
DNA in vitro,
mentre il fumo di cannabis ha dimostrato avere
effetti mutagenici in vitro ed in vivo con un probabile
potenziale cancerogeno.
Queste ricerche indicano la probabilità, nei fumatori
sul lungo periodo, di sviluppo carcinomi soprattutto
nelle zone esposte al passaggio del fumo di cannabis;
ovvero l’apparato oro-faringeo, le vie aeree superiori,
i bronchi e i polmoni. E’ anche dimostrato che i
cannbinoidi debilitino la risposta immunitaria umorale e
cellulomediata nei ratti,
diminuendo le difese contro batteri e virus. Piuttosto
evidenti sono anche gli effetti di indebolimento dei
cannabinoidi nei confronti del tropismo dei macrofagi a
livello alveolare, prima linea di difesa dell’organismo
a livello dei polmoni.
La rilevanza di tali studi negli umani è incerta;
infatti alle cavie sono state somministrati quantitativi
molto elevati di THC, pertanto il problema,
nell’estrapolare tali dati sull’uomo è complicato dalla
possibilità che alle stesse dosi si possa sviluppare
tolleranza e questo infici la riproduttività degli
effetti.
I risultati sperimentali su soggetti umani è controversa., ciò è dovuto
agli effetti verificatisi in un modesto numero dei primi
studi condotti ma non verificati da ulteriori ricerche.
Al giorno d’oggi non abbiamo l’evidenza certa che l’uso
di cannabis predisponga l’uomo a danni come riduzione di
numero o difetto di funzionamento dei T o B linfociti e
dei macrofagi. Non pare neanche che induca un decremento
del livello di emoglobina. Inoltre, due studi
prospettici sulla immunodeficienza in pazienti
omosessuali, virus HIV-positivi, hanno dimostrato che
l’uso di cannabis non era correlato con aumento del
rischio di manifestazione conclamata dell’AIDS.
Più difficile è escludere che il fumo protratto e continuato di cannabis
produca pochi problemi al sistema immunitario. Questi
effetti sul sistema immunitario indurrebbero un lieve
aumento delle comuni infezioni batteriche e virali, come
è stato riscontrato tra i fumatori cronici di cannabis.
Il rislutato necessita di ulteriori studi, anche perché,
il risultato per cui i cannabinoidi produrrebbero
effetti limitanti il sistema immunitario, getterebbe
discredito sul valore terapeutico del THC in pazienti
immunocompromessi, quali quelli sottoposti a
chemioterapia o affetti da AIDS.
Il fumo cronico di cannabis diminuisce la funzionalità respiratorie
probabilmente causa sintomi simil-bronchitici.
Tashkin et
al. (1987)
condussero uno studio mettendo a confronto i seguenti
gruppi: non-fumatori, fumatori di tabacco, fumatori di
marijuana, fumatori di tabacco più marijuana, e un
gruppo di controllo. Questo studio non ha evidenziato
differenze nella prevalenza di sintomatologia
bronchitica tra il gruppo di fumatori di tabacco e
quelli di marijuana.
Tutti i soggetti fumatori mostravano anormalità
istopatologiche più severe rispetto ai non-fumatori.
Molte du queste anormalità erano prevalenti nei fumatori
di marijuana e più marcate in quelli che fumavano
marijuana più tabacco. L’impatto sulla funzionalità
respiratoria, invece, non è chiaro e ci sono risultati
contrastanti.
Riguardo gli effetti sul sistema riproduttivo, alte dosi di THC
somministrate ad animali, riducono la secrezione di
testosterone, la mobilità, la viabilità e la produzione
di sperma negli animali maschi e provocano
l’irregolarità del ciclo ovulatorio nelle femmine.
E’ dubbio l’effetto sugli umani vista la esigua quantità
di studi condotti su questo aspetto.
La cannabis usata durante la gravidanza invece
probabilmente rallenta lo sviluppo del feto portando ad
una riduzione del peso alla nascita, possibile
abbreviamento della gestazione e – come per il fumo di
tabacco – ipossia fetale. Anche qui comunque si avverte
la carenza di ulteriori studi – sono scarsi quelli
riportati al giorno d’oggi in letteratura -
sull’argomento.
Vari studi riguardo gli effetti psicologici dell’uso prolungato e
frequente di cannabis, hanno sostenuto che esso
influisca sulla motivazione degli adulti e sul
comportamento degli adolescenti, producendo una così
detta sindrome demotivante. In realtà non c’è
evidenza sperimentale di una tale affermazione; a volte
tali studi erano disegnati male e non mettevano in
evidenza le caratteristiche socio-demografiche del
campione ed altri fattori importanti.
C’è invece una certa evidenza della comparsa di questa sindrome tra gli
adolescenti. La cannabis pare aumentare il rischio di
rallentamento nell’apprendimento alla scuola secondaria
superiore e sembra favorire l’instabilità delle prime
esperienze professionali nei giovani.
Si è visto però, in successive ricerche, che l’apparente
solidità di una tale correlazione è stata esagerata,
poiché si è visto che quegli adolescenti che facevano
uso di cannabis erano quelli che erano maggiormente
demotivati nello studio ed avevano scarse ambizioni
accademiche già prima di usare la cannabis, rispetto ai
loro compagni che non la usavano.
Correlazione stretta vi è tra l’uso di cannabis e difficoltà nel formare
un nucleo familiare, salute mentale e coinvolgimento in
crimini legati alla tossicodipendenza.
In ogni caso, in studi longitudinali più precisi questa
correlazione è stata mitigata dopo controllo statistico
sull’associazione tra uso di cannabis e pregressi
fattori che favorivano gli effetti sopraesposti.
Molti studi concordano nell’affermare che la cannabis induce adolescenti
e adulti che ne fanno uso a passare a droghe più forti,
come stimolanti ed oppiacei.
Questo si è reso evidente soprattutto intorno agli anni
’70 negli USA. Il motivo di questo rapporto
causa-effetto rimane oscuro. Ci sono due ipotesi
plausibili, che non è detto che si escludano a vicenda:
a) c’è una selezione attraverso l’uso di cannabis di
adolescenti che hanno propensione alle droghe pesanti b)
una volta iniziato l’uso di cannabis cambiano le
relazioni sociali del soggetto che comincia a
frequentare altri consumatori di droghe.
Rappresenta senz’altro una sfida per la ricerca indagare
sulle basi biologiche per cui l’uso di cannabinoidi
induca il passaggio all’utilizzo di altre droghe.
C’è evidenza sperimentale sul fatto che gli animali sviluppano tolleranza
agli effetti di THC.
Si è visto anche come i consumatori abituali di cannabis
sviluppino tolleranza agli effetti cardiovascolari e
vadano in crisi d’astinenza quando l’uso della droga è
interrotto.
C’è anche un riscontro cinico al fatto che i consumatori
abituali di cannabis sviluppino una sindrome di
dipendenza. C’è una sindrome di dipendenza da
cannabismo analoga a quella che manifestano i
soggetti alcolizzati.
Il rischio di contrarre dipendenza da cannabis è
probabilmente più vicino a quello per l’alcool che al
rischio di contrarre dipendenza per la nicotina e gli
oppioidi.
Soggetti che fanno uso di cannabis quotidianamente per
un periodo da alcune settimane ad alcuni mesi hanno una
forte probabilità di diventare dipendenti dall’uso.
Gli effetti sulle capacità conoscitive in consumatori abituali non sono
severe, né devastanti.
Per esempio non risulta che essa provochi compromissione
della facoltà conoscitiva come negli alcolizzati; se
così fosse, delle ricerche lo avrebbero provato.
C’è tuttavia evidenza clinica che l’uso prolungato di
cannabis possa indurre deterioramento delle alte
funzioni cognitive come la memoria, l’attenzione e
l’organizzazione o l’integrazione di informazioni
complesse.
Si nota anche come il danno sia proporzionale al periodo
in cui si protrae l’uso.
Rimane da capire quanto siano compromettenti questi
effetti sulla vita di ogni giorno e se siano reversibili
dopo un lungo periodo di astinenza dal consumo di
cannabis.
Fu avanzata, nel 1971 in seguito
ad un modesto studio, l’ipotesi che il prolungato uso di
cannabis provochi dei danni al cervello. Lo studio era
però poco attendibile e usava vecchi protocolli di
ricerca.
Il risultato, secondo cui l’uso di cannabis provocasse
allargamento dei ventricoli cerebrali, fu
superficialmente pubblicizzato dei media ed ebbe una
certa risonanza. Altri studi più affidabili, e condotti
secondo criteri certi, non individuarono danni al
cervello nei consumatori cronici di cannabis.
Questi risultati escludono la compromissione della
facoltà conoscitiva in quanto provocata dal danno
strutturale al cervello nei consumatori di cannabis.
C’è una certa evidenza che dosi notevoli di THC producano psicosi
caratterizzate da sintomi come confusione, amnesia,
allucinazioni, ansia e ipomania.
Valide ricerche epidemiologiche hanno inoltre concluso
che c’è una stretta correlazione tra l’uso di cannabis e
la schizofrenia. Lo studio prospettico di Anrdeasson et
al. (1987) ha mostrato una correlazione legata al
dosaggio di cannabis usato fino ai 18 anni e
l’insorgenza di sindrome schizofrenica nei successivi 15
anni.
Questo risultato indicherebbe che l’uso abituale di
cannabis scateni l’insorgere di schizofrenia in
individui vulnerabili; altri sono più scettici al
riguardo. Si fa notare che nell’unico studio prospettico
impiegato – quello di Andreasson et al. -, l’uso di
cannabis non fu documentato al momento della diagnosi,
c’è una possibilità che la cannabis fosse confusa con
l’uso di anfetamine o farmaci vari e pertanto c’è il
dubbio che si confondano la schizofrenia con altri
disturbi psicotici indotti da cannabis o altre droghe.
Pertanto anche se c’è una certa causalità, l’importanza
dal punto di vista della salute pubblica non deve essere
esagerata. Lo studio di Andreasson et al. mostra che
meno del 10% dei casi di schizofrenia possono essere
attribuiti all’uso abituale di cannabis.
Sulla base di presupposti biologici è probabile che la
canna bis esacerbi i sintomi della schizofrenia e
scateni disordini schizzofrenici. Comunque il calare
dell’incidenza tra i casi trattati e seguiti a distanza
di anni mostra poco verosimile l’ipotesi per cui la
cannabis porti alla schizofrenia soggetti che comunque
non l’avrebbero contratta.
2.6 Sintesi degli
effetti della cannabis
I principali effetti
fisiologici e psicologici dell’uso prolungato,
quotidiano e per molti anni, della cannabis rimangono
incerti. Gli effetti contrari più importanti, verificati
sperimentalmente, sono disturbi respiratori, dipendenza
dalla cannabis e lieve rallentamento di alcune funzioni
cognitive. I disturbi respiratori sono associati alla
modalità di assunzione attraverso il fumo. Ci sono
conferme del fatto che la cannabis induca mutazioni
istopatologiche che possono dare origine a tumori
maligni. La dipendenza dalla droga si caratterizza per
l’incapacità di interromperne l’assunzione. Il
rallentamento delle funzioni cognitive riguarda la
memoria e l’attenzione; esso persiste fino a quando si
protrae l’uso della cannabis e può – o meno, regredire
alla sua interruzione.
Altri effetti vanno
confermati da studi ed ulteriori ricerche: un maggiore
rischio di sviluppare carcinomi del tratto digestivo
superiore, (cavo orale, faringe, esofago); elevato
rischio di leucemia tra gli individui esposti in
utero; un calo delle performance lavorative
caratterizzato da bassa capacità di apprendimento negli
adulti e ritardo nell’apprendimento nei giovani; difetti
alla nascita di bambini le cui madri fanno uso di
cannabis durante la gravidanza.
Nella tipologia di
soggetti che possono andare incontro a danni in seguito
ad uso protratto di cannabis, vi sono dei ‘gruppi a
rischio’. Essi sono tre: adolescenti, donne in
gravidanza e persone con disturbi pre-esistenti. Gli
adolescenti sono quelli con scarso rendimento scolastico
il cui rendimento può essere ulteriormente compromesso
dall’uso di prolungato e abituale di cannabis Coloro i
quali cominciano ad usarne tra i 12-18 anni, è
probabile che diventino consumatori cronici di cannabis
o passino a droghe più pesanti. Le donne in stato di
gravidanza hanno più probabilità di dare alla luce
bambini con difetti alla nascita o sottopeso o
abbreviare il periodo della gravidanza con parti
prematuri. Infine le persone con preesistenti patologie
hanno, con una certa probabilità, un rischio maggiore di
esacerbare o manifestare la patologia in questione, se
sono fumatori abituali di cannabis. Queste patologie
latenti, o che possono aggravarsi se già presenti, sono:
disturbi respiratori, asma, bronchiti ed enfisema;
individui con schizofrenia e individui con dipendenza
all’alcool o altre droghe; questi sono probabilmente
maggiormente a rischio di sviluppare dipendenza alla
cannabis.
2.7 Potenziale
terapeutico della cannabis
Il dibattito sulla cannabis è divenuto così politicizzato che è difficile
parlare con oggettività anche degli studi e delle
ipotesi sui suoi effetti terapeutici. Infatti è
conosciuto – e come detto sopra, fino al 1930, anche
legalmente riconosciuto - che la cannabis sia stata
impiegata contro vari disturbi patologici, quali il
contenimento del dolore, l’alleviamento della pressione
endoculare, nausea e vomito. Dato il fatto, però, che
queste applicazioni e i relativi effetti benefici, non
siano stati supportati da rigorosi studi scientifici,
attualmente l’uso di cannabis a scopo terapeutico
continua ad attrarre e risvegliare interesse,
nonostante sia sostenuto da studi di individui che si
sono piuttosto auto-medicati con la cannabis.
D’altro canto, molti studi scientifici sono fatti usando
THC e suoi derivati e questi dati sono poi stati spesso
usati per sostenere l’adeguatezza dell’uso terapeutico
della cannabis. Ma è fuori luogo riportare gli effetti
clinici della somministrazione di THC a quelli dell’uso
della cannabis, a motivo della grande differenza che
intercorre tra il fumare cannabis e ingerire semplici
composti sintetici.
La sola lunga storia dell’uso di cannabis in tempi passati, non
autorizza a trarne conseguenze dal punto di vista
dell’opportunità dell’uso clinico che attualmente se ne
vorrebbe fare. Chiaramente desta entusiasmo nei medici
la possibilità di curare tante malattie con il semplice
uso della cannabis.
Ma la sola idea di somministrare qualsiasi sostanza
sotto forma di foglie da fumare ad un individuo, è
l’antitesi della moderna medicoterapia.
Altre questioni riguardano i principi attivi derivati dal THC che si
devono impiegare per le singole patologie. Il problema
del dosaggio poi è legato alla grande varietà di
concentrazione di THC che, come vedevamo all’inizio,
troviamo nelle diverse parti della pianta Cannabis
sativa L.. Inoltre il fumo della cannabis porta con
sé i problemi legati alla cronicizzazione dell’uso di
tale sostanza, come visto sopra. Allora,
fondamentalmente, qualora se ne reputi opportuno l’uso
clinico, bisogna sottoporre la somministrazione di THC
agli stessi standard e allo stesse modalità di qualsiasi
altro farmaco. Essenzialmente sono richiesti: a)
l’evidenza che il farmaco sia efficace; b) che esso
abbia un margine accettabile di sicurezza; c) che sia
somministrabile in modo appropriato. L’impossibilità di
riscontrare uno di questi fattori diminuisce il valore
terapeutico della cannabis. Ci sono circostanze che
giustificano l’uso di cannabis? E’ senz’altro
un’indicazione il fatto che il paziente sia refrattario
ad altre terapie. La severità della patologia è un
ulteriore fattore cruciale per deciderne l’impiego.
Se dovessimo fare una sintesi degli effetti terapeutici della cannabis,
diremmo che c’è parecchio interesse nella cura della
sindrome cachettica da AIDS, terapia del dolore, effetti
antiemetici, controllo della pressione endoculare,
glaucoma, disturbi motori. L’uso della cannabis desta
reazioni controverse legate alla sua stessa natura:
quella di una sostanza psicoattiva che deve essere
assunta a lungo e produce determinati effetti
collaterali L’argomento dovrebbe, a detta di
studiosi esperti, senz’altro rimanere all’interno del
dibattito medico scientifico fin quando non siano stati
condotti degli studi clinici, a lungo termine e
verificati severamente, sull’impiego clinico della
cannabis.
Naturalmente c’è la possibilità che un preparato
differente di cannabis possa essere più accettabile per
l’uso terapeutico. I ricercatori hanno attualmente a
disposizione delle sigarette standardizzate che
eliminano l’incertezza sulla concentrazione del THC e
quindi forniscono un parametro fisso, elemento
essenziale per verificare gli effetti di una sostanza
durante un esperimento. Ancor più importante è la
disponibilità di THC sintetico in capsule che
costituisce una valida alternativa alla cannabis da
fumare. Ci sono stati numerosi studi sull’impiego del
THC e dei suoi derivati nel trattamento di una notevole
varietà di patologie. Coloro i quali, però, sostengono
l’uso terapeutico del fumo di cannabis rispondono
affermando che il THC è somministrato con maggiore
efficacia attraverso il fumo, che la cannabis è meno
costosa del THC, e che essa è praticamente priva di
effetti dannosi.
Con Martin e Hall, riteniamo che “altre sfide aspettino i medici che
vogliano valutare il potenziale di un farmaco
psicoattivo che può anche avere un efficacia relativa e
deve essere fumato”.
E’ ovvio che la comunità scientifica cerchi l’uso medico
della cannabis che dia più tranquillità di impiego.
Quanto detto sopra non significa che occorra aspettare
un mandato legislativo per portare avanti le ricerche o
per sottoporre già adesso ad un trattamento
rigorosamente controllato i pazienti con sindrome da
AIDS (o dolore cronico) con la cannabis in forma di
sigarette. Quello che è doveroso è che questo non
travalichi l’ambito della sperimentazione, offuscando le
ricerche, che avranno ancora bisogno di numerose
conferme, per spiegare l’azione dei cannabinoidi sul
sistema biologico e per produrre efficaci farmaci
sintetici per uso medico. Senza questo tipo di
conoscenze, frutto di seri studi in doppio-cieco, con
rigorosi protocolli, e statistiche a lungo termine, non
emergerà mai alcuna indicazione scientificamente
razionale sull’impiego della cannabis.
3. Considerazioni antropologiche sull’uso di sostanze
stupefacenti
Il riferimento
medico-scientifico è importante quando si parla di
sostanze stupefacenti. Conoscerne gli effetti, la
diffusione, i rischi, aiuta già molto a farsi un’idea al
riguardo della legittimità del loro impiego e della loro
liberalizzazione. Però non basta. Di fatto, a quanto
abbiamo esposto in §1 e §2, potrebbe rispondere quella
voce anonima che si ascoltò durante il concerto di
Woodstock del 1969, quando mezzo milione di ragazzi
invasero una tranquilla comunità nella parte
settentrionale dello Stato di New York, dando vita al
più grande raduno giovanile della storia del rock. Dagli
altoparlanti, infatti, venivano diffusi messaggi del
tipo: “L’LSD che circola per il campo non è di buona
qualità. Comunque, fate come vi pare. La salute è la
vostra. Noi vi abbiamo avvertito”.
D’altro canto vorremmo
entrare a fondo nell’analisi antropologica del fenomeno
droga, il che, oltre a fornirci qualche possibile via
d’uscita dall’impasse generale sul tema, può
darci occasione di tornare ai fondamenti stessi
dell’agire e dell’esistere personale. In questa
fase seguiremo il metodo di indagine sintetizzato così
da Giovanni Paolo II:
"La prima parola
sull'uomo è offerta dalla scienza - la fenomenologia
antropologica precede l'antropologia filosofica - come
concreto punto di partenza, ma l'ultima parola resta
riservata alla metafisica, la quale, mentre riceve dalle
discipline scientifiche un più depurato dato di base,
offre ad esse un inquadramento sintetico ed integrativo,
aprendole alla prospettiva dei valori e dei fini. Le
scienze umane sono quindi indispensabili per una
metafisica aggiornata, ma esse sono assolutamente
inabili a rispondere alla questione posta all'uomo dalla
singolare esperienza costitutiva del suo essere, quella
cioè del contrasto insuperabile tra la
finitezza-contingenza e l'illimitata trascendenza"
(Giovanni Paolo II, Insegnamenti, [1979], pp.
541-545).
Insegnamenti
Siamo abituati a
richiami, pubblicità-progresso, cartelli di “pericolo”,
rush di controlli da parte dell’autorità a tal
punto da arrivare a convincerci che questo sia tutto.
Tutto ciò che si può onestamente fare. E’ vero che
questo ha la sua importanza: la coscienza personale
dell’individuo è fatta in modo tale da orientarsi in
base agli stimoli che riceve. L’esempio degli altri,
l’educazione familiare, la pressione dell’ambiente,
condizionano ogni uomo. Questa potenzialità, questa
plasticità, è nella natura stessa dell’essere umano,
deriva direttamente dalla sua natura socievole ed è, con
buona pace di Rousseau, un’importante chance per
lo sviluppo armonico della personalità ed il
raggiungimento del fine naturale (cui ogni uomo aspira
ed in vista del quale sceglie tutti gli altri beni) che
è la felicità.
Questo dato, costante
negli studi di antropologia filosofica da vari millenni,
forse dovrebbe essere tenuto più in considerazione da
coloro i quali si orientano – sempre con il fine di
limitarne il danno e la diffusione – verso la
legalizzazione della droga. D’altronde basta dare
un’occhiata al degrado di quartieri-ghetto costituitisi
in molte città del centro-nord Europa, come per esempio
Amsterdam, per constatarne gli effetti. L’esistenza di
leggi positive in materia tanto importante per la
salute, l’ordine pubblico e la stessa stabilità di un
intero paese,
aiuta l’individuo ad orientarsi con maggior decisione
nel senso del bene morale, spinto dalla responsabilità e
dall’urgenza di dover contribuire insieme ad altri al
raggiungimento del bene comune.
“Un uomo buono è un uomo
la cui coscienza traduce il «non mi è lecito farlo» in
un «non mi è possibile farlo». Il legislatore
dell’antica Roma ha formulato quest’idea, con la
chiarezza che gli è propria, nei seguenti termini: «Ciò
che va contro il rispetto dell’uomo, in breve contro i
buoni costumi deve essere considerato come se fosse
impossibile»”.
Però, dicevamo, se
questo è importante (la presa di posizione chiara
dell’autorità costituita) è pure vero che nulla può
sostituire la coscienza del singolo, che dovrebbe avere,
nella nostra società occidentale, tutti gli elementi per
valutare la liceità o meno di certi atteggiamenti. “Il
filosofo precristiano Seneca scriveva: «Abita in noi uno
spirito sacro che osserva e vigila sulle nostre buone e
cattive azioni»”.
“I sofisti – fa notare ancora Spaemann - che erano i
professori di scienza della politica di quel tempo
[Atene V sec a.C.], insegnavano che la giustizia sta
appunto nel fatto che il forte fa ciò che gli torna
utile. Platone replicò a questa affermazione: «È giusto
ciò che è utile al forte oppure ciò che questi pensa che
gli sia utile?». E chiese ulteriormente: che cosa è
davvero utile all’uomo? Per saperlo, bisogna sapere che
cos’è l’uomo”.
E’ a questo sapere
cosa è l’uomo che dobbiamo puntare, se davvero cerchiamo
soluzioni non effimere, ma efficaci perché connaturali
a questa persona e non imposte da fuori; l’ente uomo
mal sopporta forzature esterne ed interpretazioni parziali
della sua natura: la storia ce lo dimostra. Pertanto,
riportando in un primo momento all’attenzione di chi
legge alcuni fondamenti di antropologia filosofica (discorso
della ragione sull’uomo che prescinde da altre fonti,
come i dati rivelati, la filosofia della religione,
etc.) vorremmo successivamente analizzare, a partire
dal tema delle droghe leggere, alcuni nodi che stanno
al cuore del disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo.
3.1 Richiami generali
sulla struttura della persona umana
3.1.1 Gradi di vita: vegetativa, sensitiva, intellettiva.
Anche se
tutti gli esseri vivi condividono determinate
caratteristiche (movimento, nutrizione, unità), non
tutti sono uguali, ovvero, non tutti vivono nello
stesso modo. Ci sono in essi dei gradi, una
scala successiva di perfezioni nelle loro forme di vita:
ciò è oggetto di studio dettagliato da parte della
zoologia. Questa scala può dividersi secondo
gradi di immanenza. Ma cos’è l’immanenza? Diremmo
che quanta maggiore è la capacità di un essere vivo di
conservare dentro di sé un’operazione, più alto è il suo
livello di immanenza. Mangiare un frutto, rimuginare o
pensare ad una persona cara, sono tre gradi differenti
di immanenza, di una perfezione ogni volta maggiore.
Ciononostante, non solo l’immanenza, ma anche le altre
caratteristiche della vita, si danno negli esseri vivi
superiori in grado più perfetto che negli inferiori. Nei
superiori c’è più movimento, più immanenza e possiamo
più propriamente parlare di autorealizzazione che negli
inferiori. Questa gerarchia nella scala
della vita può dividersi in tre gradi, che descriveremo
sommariamente di seguito, enumerando alcune differenza
importanti tra di essi:
1) Il primo
grado è la vita vegetativa, propria delle piante e di
tutti gli animali superiori ad esse. Ha tre funzioni
principali: la nutrizione, la crescita e la riproduzione.Nella prima l’inorganico esteriore passa
a formare parte dell’unità dell’essere vivo. La nutrizione
è subordinata alla crescita, identificata sopra con
l’autorealizzazione. La riproduzione consiste nella
capacità di dare origine ad una replica di sé stesso:
un altro essere vivo della propria specie. Gli esseri
che non si riproducono sessualmente si dissolvono nei
loro generati. Invece, quelli che lo fanno sessualmente
hanno un sottosistema corporale specializzato per questa
funzione, che gli permette di continuare ad esistere
dopo essersi riprodotti, con il quale si rendono indipendenti
da questa funzione: “nella scala della vita la rilevanza
dell’individuo e la sua dipendenza dalla specie è sempre
maggiore fino a giungere all’uomo, nel quale la rilevanza
dell’autorealizzazione individuale eccede pienamente
quella della specie”.
2) Il secondo grado
è quello della vita sensitiva, che distingue gli animali
dalle piante. La vita sensitiva consiste soprattutto
nell’avere un sistema percettivo che aiuta a compiere
le funzioni vegetative mediante la captazione di quattro
tipi di stimoli: il presente, il distante, il passato
e il futuro. In quanto vengono captati questi stimoli
producono un tipo o l’altro di risposta. La captazione
si realizza mediante la conoscenza sensibile o sistema
percettivo. Lo stimolo esterno captato attraverso
la vita sensitiva produce una risposta: l’istinto,
che è “la tendenza o riferimento dell’organismo biologico
ai suoi obiettivi più basici mediato dalla conoscenza”; per esempio la fame o la pulsione
sessuale. Si può dire che mediante l’istinto l’animale
a) capta o conosce b) obiettivi non modificabili, geneticamente
o programmati, con i quali soddisfa le sue necessità
vegetative. Tramite la vita sensitiva, l’animale controlla
in certo modo le operazioni che portano al suo fine
istintivo. Tuttavia il circuito stimolo-risposta
in lui non può essere interrotto ma soltanto conosciuto
e, in certa misura, regolato.
La
conoscenza sensibile nell’animale interviene nel
comportamento, ma non ne è all’origine: c’è un certo
automatismo. I fini istintivi, lo ripetiamo, all’animale
vengono dati; essi non sono fini individuali, ma
specifici ovvero propri della specie e
identici a quelli di qualsiasi altro individuo.
L’individuo animale non li sceglie: li riceve
geneticamente e non può non dirigersi verso di essi.
Una volta conosciuto lo stimolo, nell’animale, la
risposta si scatena necessariamente.
Riassumendo
pertanto le tre caratteristiche essenziali della vita
sensitiva, tali come le troviamo negli animali, possiamo
così elencarle:
·
Il carattere
non modificabile., o “automatico” del circuito
stimolo-risposta;
·
L’intervento
della sensibilità nello scaturire della condotta;
·
la
realizzazione di fino esclusivamente specifici, ossia
propri della specie.
Un’ultima riflessione
che deriva da quanto sopra è la seguente. Se abbiamo
detto che negli animali i fini della loro specie, non
modificabili e propri del loro istinto, sono sempre già
dati, risulterà allora che i mezzi si conoscono solo in
presenza dei fini e subordinati ad essi. Gli animali
non hanno la capacità di separare i mezzi dai fini.
Se i fine a cui tende non è istintivamente percepito,
l’animale, per così dire, non si “preoccupa” dei mezzi.
3)
Il terzo grado di vita è la vita intellettiva, propria
dell’uomo. Qui avviene qualcosa di singolare; si
interrompe la necessità o automatismo del circuito
stimolo risposta:
"Al di sopra degli
animali, vi sono gli esseri che si muovono in ordine ad
un fine che loro stessi si danno, cosa impossibile da
fare se non per mezzo della ragione e dell'intelletto,
ai quali corrisponde conoscere la relazione che c'è tra
il fine e ciò che conduce ad ottenerlo, e subordinare
questo a quello. Pertanto il modo più perfetto di vivere
è quello degli esseri dotati di intelletto, che sono a
loro volta quelli che con maggior perfezione muovono sé
stessi".
Le caratteristiche
proprie e differenziali di questo grado superiore di
vita sono le seguenti:
a) L'uomo sceglie
intellettualmente i suoi fini, anche se non tutti,
poiché conserva quelli specifici-vegetativi, propri
della specie e pertanto di tutti gli individui di essa.
Oltre a questi fini specifici, l’uomo da a se tesso
altri fini che sono esclusivamente individuali, cioè che
altri individui della sua specie non hanno, anche se
tutti gli uomini condividono un fine comune ed ultimo:
la felicità.
b) Nell’uomo, i
mezzi che conducono ad un fine non sono dati,
nemmeno quelli riferiti ai fini vegetativi, ma
bisogna procurarseli (i mezzi scelti per ottenere
qualcosa non sempre sono adeguati; in tal caso se ne
possono usare altri). C’è pertanto separazione tra
mezzi e fini: una volta che i fini sono stati
fissati o vengono dati dalla vita vegetativa, bisogna
scegliere o inventare anche i mezzi, ovvero il
modo di raggiungerli.
La sommaria
classificazione sopra esposta dei gradi di vita è molto
importante, per questo deve essere ampliata per essere
meglio compresa. Pertanto adesso ci concentreremo sulla
vita sensitiva così come si da nell’uomo, e dedicheremo
il capitolo seguente, alle caratteristiche della vita
intellettiva. Dalla comprensione di entrambe otterremo
una visione basilare e fondamentale della psicologia
umana.
3.1.2 Il principio intellettivo della condotta umana
Abbiamo detto che
nell’uomo, dotato di vita intellettiva, non tutti gli
obiettivi delle sue attività ed il modo di portarli a
termine, vengono forniti dalla programmazione
filogenetica. Questi sono a carico della scelta e
l’apprendimento individuali. Pertanto, dato che
l’uomo sceglie e cerca i fini, e prova dei mezzi per
questi fini, poiché si propone obiettivi propri e non
solo della specie, l’istinto viene in buona parte
completato o rimpiazzato dall’apprendimento. Nell’uomo
l’apprendimento è molto più importante dell’istinto. La
scelta dei fini e dei mezzi e la loro messa in opera,
sono in buna parte appresi, imparati. L’uomo, a
differenza degli animali, deve imparare quasi tutto
quello che fa: camminare, mangiare, parlare, leggere,
insomma: vivere.
All’uomo non basta
nascere, crescere, riprodursi e morire per raggiungere
l’autorealizzazione propria (cosa invece che succede ad
una patata o ad un passero). La sua vita non è
automatica, né ha solo fini vegetativi, specifici.
Ciò che è proprio dell’uomo è la capacità di dare a sé
stesso dei fini e di scegliere i mezzi per raggiungerli.
Questo è la libertà: l’uomo è padrone dei suoi
fini, perché ha la capacità di perfezionare se
stesso raggiungendoli. In quanto egli è padrone di se è
persona
(3.2). Questo può anche esprimersi in altro modo:
1)
Nell’uomo
la conoscenza (quella intellettuale, più in concreto)
dà inizio al comportamento, ovvero, il
comportamento umano autentico è innescato dalla
conoscenza intellettuale. Perché? Perché se abbiamo
detto che l’uomo sceglie i suoi fini ed i mezzi che ad
essi conducono, questa scelta si materializza tramite
questa conoscenza: per esempio, cominciare a suonare il
sax tenore è una decisione “inventata” , per così dire,
dall’intelletto.
2)
Nell’uomo
si rompe il circuito stimolo-risposta e rimane
aperto. Questo vuol dire che la biologia umana è
“interrotta” dalla vita intellettiva, dall’agire
dell’intelletto; potremmo dire che nell’uomo il pensare
è tanto radicale e naturale quanto la biologia
nell’essere irrazionale, e pertanto questa non precede
quello:
Se sono in
una città dove l’acqua del rubinetto non è potabile ed
ho una gran sete, posso prendere la decisione di non
bere, o di bere e correre il rischio di prendere una
tossinfezione gastro-intestinale. Il fatto biologico di
avere fame non mi dice nulla riguardo al fatto se io
debba mangiare un piatto o un altro: per farlo devo
decidere tra hamburger, pollo con patatine o qualsiasi
altra cosa. Questo vuol dire che nell’uomo
l’appagamento dell’istinto esige l’intervento della
ragione, che può decidere di bere o non bere,
mangiare o non mangiare, mangiare una cosa o l’altra.
“La natura biologica umana non è praticabile al margine
della ragione nemmeno sul piano della mera sopravvivenza
biologica”.
L’uomo, si è già detto, ha bisogno di imparare a
vivere. E per farlo deve ragionare.
3) Quanto
sopra ha un evidente corollario: l’uomo se non
controlla i suoi istinti tramite la ragione, non li
controlla in nessun modo. Gli uccelli migratori
hanno un meccanismo biologico che li porta a volare
come, verso dove e quanto devono: non hanno bisogno di
impararli. L’uomo, invece, deve imparare a moderare con
la ragione la forza dei suoi istinti se non vuole fare
danno a se stesso o ad altri, come avviene, per esempio,
con l’istinto aggressivo. Se l’uomo non si comporta
secondo ragione, i suoi istinti mancano di misura e
diventano smisurati, cosa che non avviene agli
animali, perché in essi il controllo è incosciente e
automatico. Solo l’uomo può trucidare o compiere
stragi, per esempio; l’animale uccide o
si difende o caccia, etc. ma una volta
raggiunto l’obiettivo desiste: è l’istinto che gli dice
che la misura è colma. L’uomo se non è ragionevole, è
peggiore degli animali, in quanto la forza dei suoi
istinti allora cresce in lui in modo eccessivo, perché
non vi è nessuna legge che li moderi. Negli animali,
invece, questa legge è istintiva: si da allo stesso modo
in tutti gli individui della stessa specie. Questa è una
delle conseguenze della libertà.
3.1.3 Plasticità delle tendenze umane
Riunendo insieme le osservazioni fin qui fatte, possiamo
tracciare uno schema semplificato della
percezione umana (parte superiore) e della percezione
animale (parte inferiore), ed anche indicare con
maggiore precisione le differenze che ciò implica per le
inclinazioni umane rispetto a quelle animali. Poiché
è differente il modo di percepire nell’uno e nell’altro,
è anche differente il modo di tendere (vedi Fig. 2)
Il circuito stimolo-risposta nel caso dell’uomo è
differente rispetto a quello animale. Queste sono le
quattro grandi differenze:
1) L’uomo può percepire il reale in sé, senza che
intervenga necessariamente un interesse fisico,
senza stabilire una relazione tra l’oggetto percepito e
la propria situazione corporea. L’animale, invece,
riporta gli oggetti solo alle sue necessità fisiche, e
li percepisce nella misura di tali necessità e appetiti.
L’uomo, d’altra parte, non ha una percezione ristretta
come quella dell’animale: questo ha alcuni recettori
limitati e alcune risposte limitate e adeguate ai
recettori, e percepisce l’oggetto solo in quanto
conveniente o non conveniente per sé. È specifico
dell’uomo, in primo luogo, avere la capacità di
percepire le cose senza porle necessariamente in
relazione con la sua situazione fisica: in lui il
circuito stimolo-risposta è aperto, come abbiamo già
detto.
2) Nell’uomo i mezzi necessari per soddisfare i
fini biologici non sono predeterminati: tale
soddisfazione richiede l’intervento
dell’intelligenza che sceglie il modo di
raggiungere quei fini istintivi. Le inclinazioni umane
naturali non impongono forme determinate di
comportamento; per esempio: la cultura gastronomica è
differente in ogni popolo, però soddisfa la stessa
necessità fisica. È esclusivamente umano in secondo
luogo, lo scegliere il modo di soddisfare le proprie
necessità istintive.
3) Però, d’altra parte, l’uomo è capace di proporsi
nuovi obiettivi, e alcuni di essi non soddisfano
necessità vitali né fisiche, ma solo culturali. È
esclusivamente umano, in terzo luogo, aggiungere alle
proprie inclinazioni vitali finalità più alte, di tipo
tecnico, culturale, religioso, ecc. .
4) Le tendenze sono inclinazioni al bene. Le finalità
non istintive, verso le quali l’uomo può dirigersi,
possono diventare anch’esse un oggetto di tendenza
mediante un’inclinazione appresa per ripetizione di
atti, chiamata abito. L’abito sarebbe quindi
un’inclinazione, non naturale ma acquisita, per
realizzare certe azioni. Si è già detto che nell’uomo
l’apprendimento (e ora aggiungiamo: e gli abiti da esso
derivati) rimpiazza in buona parte all’istinto. Gli
abiti possono essere buoni o cattivi, favorevoli o
pregiudiziali per la crescita dell’uomo. Esempi di abiti
pregiudiziali sono appunto l’uso di droghe o
l’alcolismo, abiti (quando non portano al bene ma ne
allontanano l’uomo, si direbbero più propriamente
vizi) che cercano il piacere dell’eccitazione o
dell’evasione che questa euforia provoca. In questo caso
si tratta di un abito pregiudiziale che riguarda il modo
di soddisfare una necessità del bere che non è
esattamente biologica. Per tanto, in quarto luogo, è
specifico dell’uomo acquisire abiti mediante un
apprendimento che rimpiazza l’istinto.
Dai punti precedenti deriva una conclusione importante:
nell’uomo è decisivo l’apprendimento e l’abito
che ne deriva, anche a livello sensibile; l’istinto
biologico è appena abbozzato, incipiente e limitato.
Essere vivo non basta, è necessario imparare a vivere:
la qualità della vita dipende dal livello di
apprendimento. La spontaneità biologica nell’uomo è
insufficiente, molto debole, approda a ben poco,
esige un pronto e deciso intervento degli abiti.
Oggigiorno non si accetta facilmente quest’ultima
conclusione: si pensa che l’importante è che la forza
vitale si manifesti spontaneamente, come se la pura
biologia fosse un livello umano in se stesso sufficiente:
tuttavia, non c’è biologia umana senza apprendimento,
senza abiti e senza cultura.
Considerare l’uomo come pura biologia, come
puro vivere, è semplicemente un errore, significa
non considerare nemmeno la biologia umana, poiché
questa ha bisogno dell’apprendimento, della tecnica e
della cultura, senza cui l’uomo non è nemmeno
biologicamente realizzato. Per comprendere quest’ultima
considerazione sarebbe necessario – ma non è fattibile
all’interno dei limiti del nostro lavoro - parlare
dell’educazione e dell’aiuto che l’uomo riceve
dall’ambiente familiare e sociale per poter terminare
tale apprendimento, per sopravvivere e per essere
produttivo.
3.2 Considerazioni sull’uso di sostanze stupefacenti
nell’attuale momento storico
“E chiese ulteriormente:
che cosa è davvero utile all’uomo? Per saperlo, bisogna
sapere che cos’è l’uomo”. Sull’onda della domanda di
Platone abbiamo indagato a volo d’uccello gli elementi
fondamentali che l’osservazione e la ragione ci hanno
indicato come i quark dell’agire umano, i mattoni
dell’agire libero e responsabile dell’uomo. I
presupposti per il raggiungimento del fine naturale: la
felicità. Proviamo adesso ad applicare queste nozioni
alla dinamica droga-persona e ad analizzare da questo
punto di vista – quello antropologico, non quello
ideologico, politico o sociologico – la dinamica di tale
relazione.
Per evitare analisi
affrettate, e soluzioni, pertanto, dannose, vale la pena
tornare sul dato secondo il quale la maggior parte dei
giovani inizi il consumo di droga spinta da curiosità e
pressione dell’ambiente e non da particolari situazioni
limite (povertà, malattia, prostrazione psicologica o
disagio esistenziale conclamato). Sostenere, viceversa,
questa seconda ipotesi equivarrebbe a dichiarare un
terzo dei giovani occidentali debosciati, instabili,
corrotti e saprofiti del sistema sociale già in
partenza. Dai dati emersi nella prima parte dello
studio riguardanti la diffusione e l’epidemiologia del
consumo di droghe leggere,
le cose stanno proprio al contrario. E’ la droga che
riduce i giovani, (potenzialmente felici e realizzati),
in stato di instabilità, corruzione morale,
alienazione. Sarebbe il caso di cominciarci a chiedere
come mai questo avviene, sotto gli occhi di genitori,
amici e formatori, prima di ripartire, lancia in resta,
con la prossima campagna di liberalizzazione o di
pubblicità- progresso.
3.2.1 Droga, evasione
e storia
Sono parecchi
ultimamente, i testi pubblicati, i brani musicali, i
prodotti della cinematografia che mettono in risalto la
capacità che ha l’uomo di vivere fuori o dentro la
propria storia personale.
Viviamo in un contesto sociale che ci spinge a vivere a
“segmenti”, come se quello che faremo domani non avesse
nessun legame con ciò che abbiamo fatto oggi; è la
sublimazione della libertà intesa come illimitata
possibilità di scegliere (utopia lo è per l’uomo;
realtà attuale, soltanto in Dio). Quando l’individuo
vede che non è così, allora si droga. Si droga per
evitare la necessaria consequenzialità dei suoi atti, si
droga con la cannabis, se ha i soldi con la
cocaina, ma anche in mille altri modi “legali”.
E’ bene pertanto ricordare
che è scomodo giocare a fare Dio, quando non lo si è; che la felicità
è a portata di mano per ogni uomo, ma a condizione che
il suo progetto vitale si sviluppi in condizioni ben
precise dal punto di vista storico-esistenziale:
“La vita individuale
consiste in una sequenza di stati nel tempo. Perché la
vita possa riuscire, questi stati non debbono rimanere
staccati l’uno dall’altro come negli schizofrenici.
Felicità significa armonia, amicizia con sé stesso, e
questo presuppone che mi debba essere possibile volere
con continuità. Devo poter cominciare oggi qualcosa
sapendo che, se non sopravviene nessun imprevisto,
domani lo continuerò. E deve essere ancora accettabile
per me oggi quello che io stesso ho ritenuto buono.
Laddove i nostri stati e i nostri comportamenti sono
soltanto funzione di casuali stimoli esterni o di stati
d’animo interiori, laddove essi non si fondano sulla
considerazione di un ordine obiettivo di valori, ci
manca il terreno sul quale noi possiamo raggiungere
l’unità, l’accordo con noi stessi. In questo caso però
non ci sarà neppure accordo con gli altri”.
Sempre in quest’ambito,
fa sentire il suo influsso attualmente il venir meno
della stabilità nei rapporti interpersonali familiari.
Ricordavamo che l’inizio dell’esperienza del consumo di
cannabis, la più diffusa delle droghe tra i
giovani, non avviene quando il soggetto è
“incontrollato”, dopo i 18 anni o quando vive già fuori
di casa. L’inizio è quasi sempre tra i 14 e i 16 anni:
età, quindi, in cui il giovane vive in famiglia e
frequenta una scuola. Ci si chiede: ma i genitori, tanto
attenti a vagliare usi e costumi degli amici dei figli,
come fanno a non accorgersi quelli dei propri pargoli?
La droga denuncia pertanto, spesso, la deriva dei
rapporti interpersonali all’interno della famiglia. Per
evitare ciò, basterebbe che i genitori dedicassero più
tempo (quantitativamente e qualitativamente) ai propri
figli suscitandone la fiducia e il dialogo. L’ideale
sarebbe sentire che “con papà si può parlare di tutto”;
allora attraverso circostanze anche delicate, proprie o
degli amici, il ragazzo andrebbe incontro ad una
profonda maturazione della propria personalità,
esperienza e vita.
“A differenza degli
animali – aggiunge Spaemann - gli uomini trasformano
sempre anche con il loro agire le condizioni entro cui
esso si svolge. È quello che chiamiamo storia. Ma non
possono farlo se prima non accettano un quadro dato per
il loro agire. Chi non può o non vuole farlo è rimasto
ad uno stato infantile. Tra le condizioni date non vi è
soltanto il dato esterno del nostro agire, ma anche il
nostro essere fatti in un certo modo, la nostra natura,
la nostra biografia. Non soltanto la realtà al di fuori
di noi è quella che è, ma anche noi stessi siamo in una
certa misura quello che siamo senza poterlo cambiare.
Certo non presenta una buona scusa chi, avendo fatto del
male ad un altro, semplicemente constata: «Sono fatto
così». Infatti il modo in cui siamo fatti non è un
fattore fisso che determina il nostro agire, ma viene al
contrario sempre anche formato dal nostro agire. (...) È
importante pensarci perché la vita retta esige tra
l’altro la chiara consapevolezza che con tutto quello
che facciamo — ogni parola, ogni gesto, ogni
lettura, ogni trasmissione televisiva, ogni omissione —
facciamo qualcosa di irrevocabile nella formazione di
noi stessi. Il significato dell’accaduto può
cambiare, possiamo intraprendere una nuova strada, ma
niente è più come prima. Il nostro stesso agire assume
per noi con il passare del tempo la figura del destino.
Chi non lo vuole non può agire. Ma questo non gli è
neppure di nessun aiuto, perché anche l’omissione
diventerebbe per lui destino”.
Obiettivo di tale
maturazione, poi, dovrà essere sempre la coerenza,
l’accordo con sé stessi, la tanta agognata
autenticità. Ma l’autenticità dice fedeltà ad un
origine; pertanto la paternità – fonte dui questa
origine - è fondamentale per il consolidarsi
dell’identità e dell’autenticità del singolo e non deve
mai venir meno. Allora per il giovane la vita sarà come
per i trapezisti: quando sotto c’è la rete – paternità,
autenticità, certezza delle proprie origini, sostegno
incondizionato al livello dell’essere, non dell’avere o
del riuscire – allora si “osa”, ci si lancia
nell’avventurosa realizzazione di esercizi mozzafiato
provati più volte. E’ l’individuo che riesce ad
ascoltare la voce della propria natura, finalmente
chiara e squillante: sii te stesso! Genitori
capaci di rendere possibili tali esistenze sono
promotori di personalità talmente creative da produrre
risposte inedite con le proprie vite. Tali figli
onoreranno perennemente e ricorderanno indelebilmente
tali figure.
Ma se la rete non c’è…
tutto è pericolo, insicurezza, frustrazione.
L’’esercizio’ lo si conosce, lo si è visto fare, lo si è
provato tante volte; ma adesso dall’alto si pensa solo
ai rischi, alla figuraccia, alla “pelle”. ‘Trapezzisti’
così pullulano nei licei e nelle università della
società occidentale: i “maestri” potrebbero aiutarli; ma
non se ne accorgono o giocano a scaricabarile?
3.2.2 Droga, felicità
e paura della sofferenza
Un’altra considerazione
che aiuterebbe forse i potenziali consumatori di droghe
leggere, è che il fallito non è colui che soffre.
A volte l’idea del fallito, del vinto, (o il timore di
chi-star-per-diventarlo) può sospingere verso
illusori orizzonti di autorealizzazione personale.
Dapprima si perde la sincerità con gli altri, si tende a
mimetizzarsi non volendo far conoscere i propri limiti o
insuccessi (quelli che tutti hanno e imparano a
conoscere: a scuola, in ambito affettivo, nel confronto
con gli altri, nello svolgimento di un compito o una
professione, etc.). Poi si tende a non essere più
sinceri neanche con sé stessi. Allora si cerca
l’evasione, ai aggira l’ostacolo della sofferenza. Non è
solo edonismo, frivolezza o superficialità. In ogni
caso, qualunque cosa sia, siamo d’accordo, è frutto di
una valutazione errata. Questa valutazione però, parte
da un presupposto logico, anzi antropologico: la
ricerca di senso. Il senso della vita, oltre una
certa età, comincia a delinearsi come insopprimibile
orizzonte dell’esistere. E’ imperativo il comando che la
persona sente “dentro” e che lo spinge a trovare il
senso della vita. Ma siccome – sta qui il problema – non
si pensa che senso e sofferenza possano andare insieme,
quando si trova il secondo è come se si ricevesse
l’attestato ufficiale di aver perso il primo; e allora
ci si può anche drogare.
Si evade, si tenta di
aggirare la sofferenza, non ci si pensa. Ritorniamo
all’idea già espressa: è una incoercibile necessità
quella che spinge a trovare il senso; questo però è
compagno inseparabile dell’amore che lo è della
sofferenza:
“La felicità è la
capacità di provare dolore, adeguatamente, a causa di
quello che ci sta più o meno a cuore, potendo ancora
consentire all'ordine delle cose che ci stanno a
cuore: a quello stesso che ci espone a sofferenze
possibili. Questo ordine di preferenze di valore,
consentendo a l quale confessiamo la nostra identità
profonda, noi lo chiamiamo anche senso”.
Pertanto life goes on,
la vita continua, se si mantiene questo giusto ordine di
valori. E ciò è sempre possibile. L’uomo piuttosto perde
i beni materiali, la vita stessa, ma se lui non vuole,
nessuno – nessun evento infausto, nessun nemico –
gli porterà via la possibilità di essere sé stesso
liberamente. E questo è l’importante, questo rende
felici, il fatto che si stia soffrendo può essere
sintomo che si sta conquistando la propria inedita
maniera di stare nel mondo. Questa realtà sta dentro di
noi: non c’è bisogno di drogarsi per affermarla.
Felice è sinonimo di
riuscito, pieno, giunto a compimento;
e non è un vago sentire, l’ebbrezza del denaro della
droga o del potere. L’evidenza di quanto siano lontani
l’effimero e il reale in questo campo, è l’origine della
nausea dell’uomo sartiano, incapace di riempire questo
abisso che impietosamente, tuttavia, si ritrova a dover
fronteggiare.
"La felicità non è uno
stato d'animo, ma una condizione oggettiva. Reale. (…)
Felice può essere una cosa, non necessariamente una
persona. Una cosa felice è una cosa riuscita. Un
discorso, ad esempio. Un'impresa, una prova. Riuscita, o
adeguata, conforme al suo scopo: un'espressione è più o
meno felice. (...) ma non solo. : felice è in senso
ulteriore, una cosa che ha il potere di infondere vita,
di "ricreare", di fare attingere anche a noi, anche per
poco, a una condizione d'essere più piena, più perfetta.
In cui ci sentiamo ‘più vivi’”.
Una persona felice ha il
potere di infondere vita, di ricreare. Una persona che
ha sofferto ed ha amato (e forse ha sofferto perché
amava) è capacissima di infondere vita, di ricreare.
Quale altro traguardo, quale altra verità, quale altro
senso più pieno di questo, più capace di fare vivere
intensamente? L’importante dunque non è il soffrire o il
non soffrire, ma l’essere sé stesso (verità) comunque
(libertà).
3.2.3 Droga alcool e
rapporti interpersonali
Per essere meglio accetto al gruppo, per “smollarsi” e riuscire simpatico
alla comitiva o alla ragazza/ al ragazzo, per migliorare
le proprie performance interpersonali, il
giovane, anche, a volte, si droga.
La realizzazione della persona umana avviene solo nel dono sincero di
sé. Questo è un asserto ricco di conseguenze, che
costituisce l’approdo della filosofia personalista del
XX° secolo. Questa affermazione, densa di riflessi
esistenziali, ci dice anche che frustrare una persona
nel dono di sé, vuol dire toglierle per sempre la
possibilità di essere felice, di realizzarsi. Quando un
individuo vede tarpate le ali del possibile volo (dono)
di sé verso l’altro, è capace di commettere qualsiasi
assurdità: anche il lasciarsi morire. Pertanto una volta
ancora, ciò che si trova alla base di una delle
motivazioni del drogarsi, è un dato vero,
antropologico. Tuttavia ciò che avviene in realtà –
nonostante le “motivazioni” personaliste-relazionali del
drogarsi - è proprio il contrario. Ed è a questo
livello che si evidenzia la pericolosità – e
l’immoralità – dell’uso delle droghe leggere rispetto
agli alcolici.
“mentre infatti l’uso
moderato di questo (alcool) come bevanda non urta contro
divieti morali, ed è da condannare solo l’abuso, il
drogarsi, al contrario, è sempre illecito, perché
comporta una rinuncia ingiustificata e irrazionale a
pensare, volere e agire come persone libere. Del
resto lo stesso ricorso su indicazione medica a sostanze
psicotropiche per lenire in determinati casi sofferenze
fisiche o psichiche, deve attenersi a criteri di grande
prudenza, per evitare pericolose forme di assuefazione e
di dipendenza”.
La droga – secondo gli effetti riportati dagli studi citati prima ai §§
1.4, 1.5 per la cocaina, e §§ 2.4 e 1.5 per la cannabis
- induce nell’individuo una sospensione dell’esercizio
della libertà; essa fa si che l’uomo sia, sotto
l’effetto della droga, seppure per un tempo limitato,
un po’ meno persona; che riponga per qualche
momento, per qualche azione, il suo essere libero,
volontario e razionale. Questo non è mai ammissibile.
Le motivazioni che rendono illeciti l’uso delle droghe
pertanto – forse è il momento di riconoscerlo
apertamente – non possono essere politiche, ideologiche,
religiose o economiche e nemmeno di ordine pubblico.
Sono di ordine antropologico. Chiunque stia al governo,
l’uomo resta sé stesso; qualunque motivo di convenienza
o di quieto vivere, verrà sempre dopo il mio essere uomo
e quello dei miei simili. Da questo infatti dipende
quello.
Cfr. S. COHEN, "Recent developments in the
abuse of cocaine", in Bulletin on Narcotics
(1984) vol. II, pp. 3-14.
C. ROSSI, "A mover-stayer type model
for epidemics of problematic drug use", Bulletin
on Narcotics, (2001). From surveys conducted
among military conscripts, reported in the annual
report on the state of the drug problem in Italy
for the year 1999, published by the National Focal
Point, it appears that, in terms of the reasons
for drug use, the two most mentioned factors were
curiosity (more than 40 per cent) and peer group
pressure (more than 30 per cent)
American Society for Pharmacology and Experimental
Therapeutics and Committee on Problems of Drug Dependence,
"Scientific perspectives on cocaine abuse",
Pharmacologist, vol. 29, 1987, pp. 20-27.
H. Isbell, "Cocaine poisoning", Cecil-Loeb
Textbook of Medicine, 11a ed., Saunders Press,
Philadelphia, 1963; J. R. Di Palma, "Cocaine
abuse and toxicity", American Family Physician.
vol. 24, No. 5 (1981), pp. 236-238; A. A. Nanji
and J. D, Filipenko, "Asystole and ventricular
fibrillation association with cocaine intoxication",
Chest,vol. 85, No. 1 (1984), pp. 132-133.
C. Bose, "Cocaine poisoning", British
Medical Journal, vol. 1, 1913, pp. 16-17; O.
H. Garland, "Fatal acute poisoning by cocaine",
Lancet,vol. 2, 1895, pp. 1104-1105
Cfr. C. Van Dyke and others, "Oral cocaine:
plasma concentrations and central effects",
Science, vol. 100, 1978, p. 211; C. Van Dyke
and others, "Intranasal cocaine: dose relationships
of psychological effects and plasma levels",
International Journal of Psychiatry in Medicine,
vol. 12, No. 1 (1982), pp. 1-13; M. W. Fischman
and C. R. Schuster, "Cocaine self-administration
in humans", Federation Proceedings, vol.
41, 1982, pp. 241-246.
L. Lewin, Phantastic, Narcotic and Stimulating
Drugs.- Their Use and Abuse, E.P. Dutton, New
York, 1931.
Più specificamente il summary di un
recente studio sull'argomento riporta:
"The cardiovascular effects of cocaine may
culminate in clinical episodes of angina pectoris,
myocardial infarction, arrhythmia, and intracranial
hemorrhage. To clarify whether or not cocaine causes
fatalities by these mechanisms, we studied 24 cases
of sudden, apparently natural deaths as a result
of coronary arteriosclerosis (15 cases), hypertensive
cardiovascular disease (4 cases), and intracranial
hemorrhage (5 cases) associated with cocaine use.
In 11 cases, cocaine was found in the blood (average
concentration: 0.57mg/litre; range: 0.05 to 1.45mg/litre),
whereas in the remainder, cocaine or its major metabolite
was found in the urine or other tissues. In the
majority of [the deceased persons], autopsy disclosed
the existence of severe natural disease which could
have been exacerbated by the administration of stimulant
drugs, including cocaine. These data, and a review
of the current medical literature, indicate that
cocaine may precipitate the sudden death of an individual
with undiagnosed cardiovascular disease. A contributory
role of cocaine should be considered in any apparently
natural death occurring in a population where cocaine
abuse is prevalent"; in R. F. Mittleman
and C. V. Wetli, "Cocaine and sudden natural
death", Journal of Forensic Sciences,
vol. 32, No. 1 (1987), pp. 11-19.
S. Peng and others, "Cardiac pathology following
cocaine abuse", Federation Proceedings,
vol. 46, 1987, p. 728.
H. D. Tazelaar and others, "Cocaine and the
heart", Human Pathology, vol. 18, 1987,
pp. 195-199; S. B. Karch and M. E. Billingham, "Myocardial
contraction bands revisited", Human Pathology,
vol. 7, 1986, pp. 9-13.
Cfr. S. Cohen, “Cocaine Today”, American Council
on Drug Education, 1981, pp. 1-45.
A. WASHTON, Cocaine Addiction, New York,
Norton, (1989), p. 32.
R. Bieleman and others, Lines Across
Europe: Nature and Extent of Cocaine Use in Barcelona,
Rotterdam and Turin
(Amsterdam, Swets and Zeitlinger, 1993). M. Gossop
and others, "Cocaine: patterns of use, route
of administration, and severity of dependence",
British Journal of Psychiatry, No. 164,
1994, pp. 660-664.
D. Waldorf, C. Reinarman and S. Murphy, Cocaine
Changes: The Experience of Using and Quitting
(Philadelphia, Temple University Press, 1991). P.
Erickson and others, The Steel Drug (Lexington,
Massachusetts, Lexington Books, 1987).
M. GOSSOP e al., "Severity of dependence and
route of administration of heroin, cocaine and amphetamines",
British Journal of Addiction, vol. 87, 1992,
pp. 1527-1536; M. GOSSOP e al, "Cocaine: patterns
of use, route of administration, and severity of
dependence", British Journal of Psychiatry,
No. 164, 1994, pp. 660-664.
T.G. AIGNER, R.L. BLASTER, "Choice behavior
in rhesus monkeys: cocaine versus food"; in
Science, vol. 201 (1978), pp. 534 - 535.
N. Donnelly and W. Hall, Patterns of Cannabis
Use in Australia, National Drug Strategy Monograph
Series No. 27 (Canberra, Australian Government Publication
Service, 1994); L. D. Johnston, P. M. O'Malley and
J. G. Bachman, National Survey Results on Drug
Use from the Monitoring the Future Study, 1975-1993,
vol. II: College Students and Young Adults (Rockville,
Maryland, National Institute on Drug Abuse, 1994);
ID., Ibid., vol. I: Secondary School Students.
Fonti: European Monitoring Centre for Drugs and
Drug Abuse Addiction, Annual Report on the State
of the Drugs Problem in the European Union 1997
(Lisbona, 1997); National Institute on Drug Abuse,
Monitoring the Future Study, vol. I (Rockville,
Maryland, 1997); Canadian Centre on Substance Abuse,
Canadian Profile 1997 (Ottawa, 1997); Centre for
Behavioural Research in Cancer, "Australian
Secondary Students Use of Over-the-Counter and Illicit
Substances in 1996" (Novembre, 1998).
a- Stima
basata sulla percentuale di cannabis rispetto
a tutte le altre droghe illegali (92%) secondo l'
Australian household survey del 1993.
b- LSD
e altre sostanze allucinogene.
c - Tutte le
sostanze (incluse quelle lecite, come la caffeina);
il numero tra parentesi si riferisce alla sola
metamfetamina.
d - Austria,
Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,
Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo,
Spagna, Svezia e Regno Unito.
Si rimanda agli studi: D. S. Kreuz and J. Axelrod,
"i9-tetrahydrocannabinol: localization in body
fat", Science, vol. 1979, 1973, pp.
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[77]
In questa come in altre materie, bisognerebbe evitare l’approccio
del tipo: altri lo fanno? molti la considerano
adatta? Allora lo è. Un esempio di questo tipo
di ragionamento portato avanti dai media è il seguente:
“E in Italia? Si è indietro rispetto a questi paesi
perché l'utilizzo di farmaci a base di cannabis
è praticamente inesistente, forse anche per le implicazioni
pratiche e legali implicite nella commercializzazione
in farmacia di una sostanza il cui uso è, di fatto,
proibito dalla legge che considera la cannabis una
droga illegale. Ma emerge anche un altro recente
aspetto del pensiero degli italiani sull'argomento,
del quale, difficilmente, non si potrà tenere conto.
Infatti, in tre diversi e autorevoli sondaggi, rispettivamente
di Farmacoeconomia, Datamedia e Corriere della Sera,
alla domanda: «l'uso terapeutico della cannabis
è lecito?», l'11% ha risposto l'illiceità, il 6%,
è d'accordo ma con l'accortezza di non confondere
farmacopea con legalizzazione; il 22% è d'accordo
in ogni caso”.
F.BUDA, Cannabis per malati?, in “Il Messaggero
Veneto”, 10-06-2002
R. SPAEMANN, op. cit. 99.
Cfr. C. ROSSI, "A mover-stayer type model
for epidemics of problematic drug use", Bulletin
on Narcotics, (2001). Così l’A. nel testo originale
inglese: “From surveys conducted among military
conscripts, reported in the annual report on the
state of the drug problem in Italy for the year
1999, published by the National Focal Point, it
appears that, in terms of the reasons for drug use,
the two most mentioned factors were curiosity (more
than 40 per cent) and peer group pressure (more
than 30 per cent)”; abbiamo fatto riferimento a
questi dati al §1.5.
R.
SPAEMANN, Concetti Morali Fondamentali, PIEMME,
Casale Monferrato 1993, p. 49
R. SPAEMANN, op. cit., p. 117.
Cfr. R. DE MONTICELLI, ibid, 290.
GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla VI Conferenza
internazionale promossa dal Pontificio Consiglio
della pastorale per gli operatori sanitari,
1991, n. 4. Il corsivo è nostro ed evidenzia le
motivazioni profondamente antropologiche del discorso
del Pontefice. Esso, pertanto, è condivisibile anche
da chi non possiede una visione di fede.
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