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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 3 - Maggio 2007 
     
 

Quale buona morte?

Il problema dell'eutanasia tra sofferenza e libertà

di Luciano Sesta*

 

 

 

1. Il problema dell’eutanasia tra progresso medico e istanze etiche

 

Il problema dell’eutanasia è al centro di un acceso dibattito che coinvolge, ormai da tempo, non soltanto la classe medica, che è la più direttamente interessata, ma anche, tra gli altri, il campo dell’etica filosofica, della psicologia, dell’antropologia e del diritto. Al di là delle competenze disciplinari, delle credenze religiose e degli schieramenti politici, si può ben dire che l’eutanasia è un problema che in linea di principio riguarda tutti, come dimostra anche il fatto che in alcuni Paesi gli stessi cittadini sono stati chiamati a esprimersi sull’eventualità di legalizzarla. In questo nostro intervento ci occuperemo, in modo sintetico e senza alcuna pretesa di esaustività, di alcuni aspetti etici del problema, con particolare riferimento alle prospettive che attribuiscono alla sofferenza e al diritto alla libertà di scelta un peso decisivo per valutare la moralità dell’eutanasia. 

Come è noto, all’aumento della durata media della vita e ai problemi che la accompagnano non sono estranei i grandi progressi della medicina moderna. Da quando il prolungamento artificiale della vita è diventato una realtà, l’antica regola professionale secondo cui il medico doveva “fare tutto il possibile” per evitare la morte di un uomo, è divenuta problematica. Le tecniche di rianimazione e le apparecchiature di respirazione artificiale, infatti, possono oggi sostituire le funzioni vitali di un organismo e mantenere in vita soggetti che, altrimenti, sarebbero morti. Il decorso di malattie che un tempo conducevano rapidamente alla morte, come i tumori maligni, l’Aids e molte patologie del sistema cardiovascolare, respiratorio e nervoso, può oggi essere rallentato. Questo ha risolto alcuni problemi ma ne ha anche creati altri. Molte patologie legate alla vecchiaia diventano croniche, radioterapia e chemioterapia, prolungando la vita, finiscono per prolungare anche le sofferenze e i disagi che la accompagnano nella sua fase terminale. La medicina moderna rischia così di trasformare la morte, che prima era un evento più o meno puntuale, in un processo lungo e doloroso.

In un contesto del genere, la decisione di ricorrere o di non ricorrere a questi mezzi o di interromperne l’uso è una decisione complessa, che richiede valutazioni che esulano da una competenza puramente medica. Rianimare o non un uomo di ottantanove anni che ha avuto un arresto cardiaco? Sospendere o continuare una chemioterapia che prolunga penosamente la vita di un malato terminale? E ancora: c’è differenza tra la decisione di sospendere un trattamento lasciando morire il paziente e quella di farlo morire con un’iniezione letale per porre fine alle sue sofferenze? Dare intenzionalmente la morte attraverso un’azione medica è lo stesso che lasciare morire attraverso un’astensione terapeutica? Per ciascuna di queste domande esistono ragioni sia per una risposta affermativa sia per una risposta negativa. Ma queste risposte non possono provenire dalla tecnologia medica che, anzi, fa sorgere la domanda. Il potere odierno della medicina, infatti, ci dice solo ciò che è possibile fare e non ciò che è giusto fare[1].

 

 

2. Che cos’è l’eutanasia? L’esigenza di una definizione

 

Quando si parla di “eutanasia” si presuppone che si tratti di una parola dal significato intuitivamente chiaro. In realtà non è così. Come è stato giustamente osservato, il termine è una di quelle tipiche “parole-attaccapanni” alle quali ognuno attribuisce un particolare significato, tanto che quando parliamo di eutanasia, mentre crediamo di parlare della stessa cosa, di fatto ci riferiamo a situazioni diverse[2]. Come è noto, la parola viene dal greco eu-thanatos che significa “buona morte”, sia nel senso di una morte facile, senza sofferenze[3], sia nel senso di una morte gloriosa, come quella del guerriero al servizio della patria[4]. A partire dall’influenza del Cristianesimo, la parola, in forza del carattere avverbiale dell’eu, indicherà sempre di più il “ben morire”, non solo nel senso delle caratteristiche di brevità e assenza di dolore del trapasso, ma anche nel senso della buona disposizione del morente rispetto alla propria morte[5]. Il significato originario del termine eutanasia, in ogni caso, non fa riferimento a una morte provocata ma naturale, e non riguarda la medicina. Soltanto sul finire del secolo e agli inizi del Novecento il termine eutanasia assume un nuovo significato, che è quello di “uccisione pietosa” (mercy killing). Sulla scorta di questo più recente significato, nel contesto del dibattito odierno l’eutanasia può essere definita come l’uccisione deliberata di un paziente al fine di eliminare le sue sofferenze fisiche e/o morali[6]. Questa uccisione può essere realizzata sia mediante un’azione, per esempio un’iniezione letale, sia mediante un’omissione, per esempio lasciando morire un paziente che, pure, ha ancora delle ragionevoli speranze di migliorare la sua condizione. Si è soliti, inoltre, distinguere diversi tipi di eutanasia. Quando l’eutanasia è richiesta dal paziente, si parla di “eutanasia volontaria”; quando il paziente si trova in uno stato di incoscienza e non ha manifestato in precedenza la sua volontà, per esempio attraverso un “testamento biologico” (living will), si parla di “eutanasia non volontaria”; si parla infine di “eutanasia involontaria” quando l’eutanasia è praticata contro la stessa volontà del paziente[7].

Il caso più dibattuto è indubbiamente quello dell’eutanasia volontaria, in cui il paziente, in piena coscienza, chiede la morte. Il paziente-tipo del nostro caso è dunque un soggetto capace di intendere e di volere che, per lo sviluppo ormai irreversibile di una grave patologia o perché anziano debilitato, si trova in una condizione di sofferenza, in cui va diminuendo la sua autonomia e in cui va aumentando la sua dipendenza nei confronti di coloro che gli stanno intorno. Poco importa che egli sia un malato “terminale”, vale a dire prossimo alla morte, o che invece abbia ancora qualche anno di vita davanti a sé. Ciò che conta è il grado di sofferenza che egli sperimenta nella sua condizione, dal momento che la principale motivazione che spinge un uomo a chiedere la morte, e che induce molti a giustificare l’eutanasia, non è tanto l’imminenza della morte quanto l’insopportabilità della sofferenza.

Va fatta un’ultima precisazione semantica a proposito dell’eutanasia volontaria. Spesso si parla di “eutanasia volontaria” nel caso in cui il paziente chiede di essere ucciso perché non può farlo da se stesso, mentre si parla di “suicidio assistito”[8] quando il paziente è capace di darsi la morte e ha bisogno solo che qualcuno gli fornisca un farmaco letale. Questa distinzione non ci sembra moralmente decisiva. Dal punto di vista del paziente, infatti, ciò che conta è che il proprio desiderio di farla finita venga realizzato, al di là del fatto che egli chieda di essere ucciso (eutanasia volontaria) o di essere aiutato a darsi la morte (suicidio assistito). Allo stesso modo, dal punto di vista della responsabilità morale del medico mettere il paziente in possesso di un farmaco mortale non è diverso dal somministrarglielo direttamente su sua richiesta[9]. Tratteremo dunque l’eutanasia volontaria e il suicidio assistito come varianti di un unico problema.

Si può osservare, innanzitutto, che rispetto alla fattispecie tradizionale del suicidio qui la questione si complica, dato che non ci troviamo soltanto di fronte a un uomo che sta meditando di darsi la morte, ma a un uomo che chiede ad altri di farlo morire, costringendoli così al ruolo di complici nella realizzazione della sua tragica scelta. È importante allora tenere distinte due questioni, che riguardano rispettivamente chi chiede l’eutanasia (malato o anziano) e chi è chiamato eventualmente a eseguirla (medico, infermiere, parente o amico). Le domande alle quali cercheremo di dare una risposta, sono allora essenzialmente due: l’eutanasia, la “buona morte”, è davvero buona, corrisponde cioè al bene del soggetto che ne fa richiesta? E, di conseguenza, per coloro che sono vicini al malato, l’eutanasia è la cosa giusta da fare, a tal punto da poter dire che essa è ciò che spetta al malato, ciò a cui egli ha diritto?

 

 

3. Il diritto del paziente all’autodeterminazione giustifica l’eutanasia?

 

Partiamo da quest’ultima domanda, e cioè dall’eventualità che vi sia un diritto all’eutanasia. Un vasto movimento di opinione ritiene che la richiesta di eutanasia debba essere accolta facendo riferimento al diritto di ciascuno a vedere rispettata la propria volontà, soprattutto quando si trova in uno stato di sofferenza del cui grado di sopportabilità può giudicare solo il soggetto direttamente interessato[10]. L’eutanasia, inoltre, consentirebbe: 1) al paziente di morire in modo rapido e indolore; 2) alla famiglia del paziente di essere esonerata dall’affrontare i costi (psicologici ed economici) che la sua assistenza richiede; 3) ai medici e alla società di dedicare risorse ad altri pazienti che hanno maggiori possibilità di guarigione[11].

Per esempio, secondo la legge olandese e la tendenza diffusa presso i vari movimenti a favore dell’eutanasia, quest’ultima può essere considerata lecita sulla base di tre presupposti: 1) Il primo è che vi sia la possibilità di accertarsi che il desiderio di morire sia l’autentica espressione della libera volontà del paziente; 2) il secondo presupposto è la convinzione che il paziente sia l’unico a poter giudicare se la propria vita, in uno stato di sofferenza, sia o non sia degna di essere ancora vissuta; 3) il terzo presupposto, infine, è che l’eutanasia, in certi casi, è l’unico aiuto che possiamo dare al paziente nella sua drammatica situazione. Analizziamo ciascuno di questi presupposti.

Il primo presupposto, come abbiamo visto, si riferisce alla possibilità di verificare che il desiderio di morire sia espressione autentica della volontà del paziente. Si potrebbe osservare che già domandarsi quanto sia effettivamente libera la richiesta di morire, per poterla eventualmente esaudire, significa considerare la sofferenza e la morte del paziente come qualcosa che non ci riguarda. L’insistenza sulla scelta autonoma di colui che chiede di morire potrebbe nascondere, così, il tentativo di sottrarsi a buon mercato a una più impegnativa solidarietà nei suoi confronti. Anziché domandarci quanto sia effettivamente libera la richiesta del paziente dovremmo forse domandarci: cosa non abbiamo fatto perché costui ci chieda di morire? Questo rovesciamento di prospettiva potrebbe coglierci impreparati, costringendoci a riconoscere che se l’altro ci chiede di morire forse anche noi, con le nostre mancanze, abbiamo contribuito a rendere insopportabile la sua sofferenza. Di fronte a chi soffre, può succedere, per esempio, che parenti e amici rimangano in disparte, magari perché intimoriti, o perché non si sentono all’altezza. C’è anche il comprensibile rischio che i familiari, duramente provati dal peso di un’assistenza alla quale si aggiunge lo svolgimento delle ordinarie attività domestiche e lavorative, dopo un certo tempo avvertano stanchezza e cedimento[12]. Tutto questo incide sullo stato d’animo del malato, la cui richiesta di morire, dunque, non è mai del tutto autonoma, essendo condizionata dalla valutazione che egli riceve dal giudizio e dal comportamento degli altri.

Per quanto concerne il secondo punto, si dice che il paziente sia l’unico a poter giudicare se la propria vita, in uno stato di sofferenza, è o non è degna di essere ancora vissuta[13]. Anche quest’idea è piuttosto problematica. A rigor di logica, infatti, se il rispetto dell’autonomia del paziente è sufficiente a giustificare l’eutanasia perché il paziente è l’unico giudice della sua condizione, allora qualunque persona ne faccia richiesta, indipendentemente dall’età e dal male di cui soffre, deve poter essere esaudita, dal giovane momentaneamente depresso all’anziano terminale. Si dirà che i due casi sono diversi, e che se l’anziano terminale potrebbe al limite essere accontentato, bisogna convincere il giovane depresso che egli può superare il suo disagio. Ma questo ragionamento non ha nulla a che vedere con il diritto alla libera scelta e, anzi, lo contraddice[14]. E infatti, se davvero il soggetto interessato è il miglior giudice della propria condizione, allora dovremmo giustificare l’eutanasia per chiunque ritenga la propria vita indegna di essere vissuta, senza presumere di poter giudicare, meglio di quanto possa fare il diretto interessato, ciò che lo riguarda più intimamente. Il giovane depresso che chiede di morire, di fronte al nostro tentativo di aiutarlo a superare il suo problema, potrebbe pur sempre invocare il rispetto della sua libertà di scelta, dicendo che nessuno ha il diritto di stabilire, al suo posto, quanto sono insopportabili le sue sofferenze. La conclusione che dobbiamo trarre da queste considerazioni, benché sia un po’ imbarazzante, è che, in realtà, coloro che difendono l’eutanasia per i malati terminali o anziani e rifiutano invece quella per i giovani depressi non lo fanno in nome dell’autonomia degli anziani e dei malati, ma perché ritengono che essi starebbe meglio da morti piuttosto che da vivi[15].

Veniamo all’ultimo punto. Si riconosce che l’eutanasia non è la soluzione migliore ma che in determinate circostanze essa è l’unico modo per porre fine a uno stato di sofferenza considerato intollerabile dal paziente[16]. L’eutanasia andrebbe dunque concessa con cautela e soltanto in casi eccezionali o estremi, come quelli in cui il malato, nonostante la terapia del dolore, implorasse lo stesso che lo si faccia morire.

A dire il vero, anche in questi casi l’eutanasia non è necessariamente l’unica soluzione, a meno che non si sia deciso, a priori, che uccidere il malato è una delle soluzioni possibili. E infatti, poiché l’eutanasia, nonostante sia la soluzione più drammatica, è anche la soluzione più immediata, più facile e più economica, una volta che la si sia considerata come una possibile via d’uscita tenderà a imporsi come l’unica via d’uscita, inducendo il malato stesso a richiederla e i medici a proporla. Ci troviamo qui in uno di quei classici casi in cui «creare la possibilità comporta un meccanismo psicologico di incoraggiamento a servirsene»[17]. Così, quando farsi dare la morte è una possibilità moralmente lecita, il malato risulta esposto a una pressione intollerabile: se egli non sfrutta questa possibilità si sentirà responsabile di tutti i sacrifici che devono essere spesi per lui. Di fronte all’“esempio” di coloro che chiedono l’eutanasia, un paziente anziano che sente di essere un peso per i propri familiari e per la società, potrebbe domandarsi a sua volta se non abbia anch’egli l’“obbligo” morale di chiedere la morte, liberando gli altri da tutti i sacrifici che il suo continuare a vivere comporta per loro[18]. Anche se le sofferenze del malato non sono insopportabili, continuare a vivere in una situazione del genere finisce per diventare davvero insopportabile. Il rischio è che, in forza di un meccanismo perverso, una volta che si sia accettato il diritto di morire si arrivi a imporre surrettiziamente il dovere di morire. Ci sono autori che sostengono esplicitamente questo dovere di morire e secondo i quali gli anziani, per esempio, dovrebbero capire che giunge un momento in cui togliere il disturbo è, da parte loro, un atto di responsabilità al fine di liberare risorse sanitarie meglio utilizzabili per i più giovani[19].

Come si può vedere, tutte e tre le condizioni che dovrebbero giustificare l’eutanasia risultano problematiche. La debolezza di fondo che le accomuna è costituita dall’eccessiva importanza attribuita al diritto di autodeterminazione del paziente. Questo diritto, senz’altro, deve essere tutelato, ma risulta inadeguato per risolvere il problema della sofferenza, soprattutto quando viene assolutizzato in modo astratto. Per esempio, a volte si arriva a dire che il paziente, per poter decidere in modo davvero autonomo, andrebbe «protetto dalle pressioni di chiunque possa influenzarlo, compresi i familiari»[20]. Dire una cosa del genere significa non rendersi conto che per molti pazienti, dai più giovani ai più anziani, il dialogo con i familiari e con i medici, e dunque una qualche forma di dipendenza nei loro confronti, in realtà è la condizione sulla quale poggia la loro decisione autonoma e la loro speranza di trovare sollievo dal dolore e conforto nella sofferenza[21]. L’astratta figura di un malato intento solo a rivendicare i propri diritti è piuttosto estranea al vissuto del malato concreto, e cioè del malato inchiodato su un letto di ospedale. Se il paziente di cui parliamo è in preda a indicibili sofferenze, insistere sul suo diritto di scegliere in piena autonomia sarebbe come insistere sulla libertà di scelta del depresso che si trova sul punto di suicidarsi[22]. Perché una scelta sia autonoma, in effetti, si presuppone che il soggetto che la manifesta sia pienamente padrone di se stesso, al di là di ogni condizionamento che possa alterare il suo equilibrio emotivo. Tuttavia, poiché la richiesta di eutanasia è motivata dall’insopportabilità della sofferenza, ci si potrebbe domandare quanto sia effettivamente libera una scelta condizionata da una sofferenza definita insopportabile. Per questo rifiutare l’eutanasia non è una violazione della libertà del paziente, ma un atto compiuto in nome della sua stessa libertà. E infatti, rifiutare l’eutanasia a colui che la richiede significa offrirgli un’ulteriore possibilità di riflettere sulla sua decisione, magari dettata da un attimo di disperazione[23]. Del resto, come è risaputo, i pazienti in stato terminale o in condizioni di forte sofferenza attraversano fasi altalenanti, da momenti di depressione a momenti di ritrovata fiducia. Non è facile capire in quale dei due momenti si esprime l’autentica volontà del malato. Probabilmente, in mancanza di un criterio sicuro la soluzione più ragionevole e umana è quella di respingere ogni richiesta di eutanasia, onde evitare di accorgersi, troppo tardi, di aver ucciso chi non voleva morire.

 

 

4. Le cure palliative tra “dolore” e “sofferenza”

 

Ora, però, se decidiamo di rifiutare l’eutanasia dobbiamo anche prendere sul serio i motivi che spingono il paziente a richiederla, offrendogli un’alternativa adeguata. Infatti, se dopo aver rifiutato di esaudire la richiesta di eutanasia non ci impegnassimo a migliorare le condizioni di vita del paziente, quest’ultimo potrebbe essere nuovamente indotto a chiedere la morte, e il nostro rifiuto di accontentarlo, a questo punto, non sarebbe un rifiuto credibile, potendo apparire, al limite, anche disumano. 

Il primo passo da fare, se vogliamo prendere sul serio i motivi che spingono un uomo a chiedere la morte, è quello di non sottovalutare la sua sofferenza. Il malato inguaribile, soprattutto se anziano, soffre spesso di un dolore continuo, che non consente il sonno e le normali attività quotidiane. Il suo organismo perde elasticità, le sue capacità percettive si appannano, lo spazio della sua autonomia fisica si riduce e il ritmo del suo tempo si fa sempre più lento e ripetitivo[24]. Se poi si considera che spesso gli anziani basano la loro giornata su riferimenti ambientali fissi e su abitudini consolidate, anche una semplice difficoltà di ambientamento, dovuta al trasferimento in ospedale, può essere causa di sofferenza[25]. A questo proposito, è opportuno distinguere il dolore, che è fenomeno fisico, neurologico e biochimico, dalla sofferenza, che è invece fenomeno esistenziale e morale.

Ora, certamente, il dolore produce sofferenza, ma la sofferenza non è direttamente proporzionale al dolore. Per esempio, un dolore lieve di cui non si conosce l’origine, creando apprensione, fa soffrire di più di un dolore, magari più intenso, di cui però si conosce la causa. Il grado di sopportabilità del dolore e della sofferenza, inoltre, dipende dal senso che si attribuisce al proprio soffrire. Chi percepisce il significato e il fine del proprio dolore è più facilmente disposto a soffrire di chi, invece, è costretto a sopportare un dolore considerato privo di senso. In effetti il soldato in battaglia così come la partoriente in travaglio sopportano relativamente bene il dolore, poiché lo soffrono di buon grado in ragione della sua finalità positiva, quale può essere la difesa della patria o la nascita di un bambino[26]. Viceversa, un dolore magari oggettivamente meno intenso di quello di una partoriente, provato però da un malato di cancro o da un paziente anziano, provoca maggiori sofferenze perchè è vissuto come presagio di una fine imminente. Da questo punto di vista si deve dire che, nel nostro paziente-tipo, dolore fisico e sofferenza morale sono talmente intrecciati che spesso è impossibile considerarli separatamente.

Come è risaputo, il tentativo più ampio e più organico di prendere sul serio il dolore e la sofferenza del malato, in particolare del malato terminale, è rappresentato dalla medicina palliativa, promossa soprattutto per iniziativa dell’Hospice Movement, un movimento culturale sviluppatosi in Inghilterra negli anni Sessanta. I sostenitori dell’Hospice movement riferiscono di molti pazienti che, inizialmente tentati di chiedere l’eutanasia, una volta sottoposti a un adeguato piano di cure palliative non hanno più desiderato la morte[27]. I farmaci analgesici di cui disponiamo oggi, in effetti, risultano efficaci nel 95% dei casi e nel restante 5%, se la situazione è grave, è pur sempre possibile, previo consenso, sedare il paziente[28]. Ci si potrebbe domandare allora come mai l’eutanasia continua a essere rivendicata come una possibile soluzione se il dolore fisico oggi può essere alleviato efficacemente.

Gli stessi promotori del “diritto di morire” riconoscono che la richiesta di eutanasia non dipende esclusivamente dall’intensità dei dolori e dei disagi fisici, ma anche – e soprattutto – dal modo in cui tali disagi sono vissuti e sofferti. Questi disagi, al di là del dolore, possono creare una sofferenza che colpisce nel profondo tutta la persona e che è legata «alla percezione del progressivo degradarsi delle proprie condizioni di vita, alla mancanza di controllo e di autonomia, al dipendere da altri persino nell’espletamento delle più elementari esigenze fisiche»[29]. È comprensibile, di conseguenza, che anche un malato curato intensivamente e nel migliore dei modi possa percepire come inaccettabile la propria condizione e possa soffrirne a tal punto da giudicarla insostenibile. Insomma, ciò che il paziente fa più fatica ad accettare è la perdita della propria autonomia e la conseguente necessità di dipendere da altri.

La sofferenza, dunque, contrariamente al dolore, non è soltanto qualcosa che si prova ma anche qualcosa che mette alla prova, costringendo colui che soffre a fare i conti con un’immagine di sé che ormai si sta disfacendo e provocando a guardare oltre se stessi, alla ricerca di qualcosa che possa dare un senso alla propria condizione[30]. Tutto ciò significa che il malato può superare la paura della solitudine, che spinge alla disperazione e alla tentazione di farla finita, solo se si decide a considerare la sua dipendenza dagli altri non come qualcosa di degradante, ma come uno spazio di condivisione della propria sofferenza. Come ha scritto Daniel Callahan, «C’è una grazia preziosa [...] nella capacità di dipendere dagli altri, di essere aperti alla loro sollecitudine, di voler poggiare sulla loro forza e comprensione»[31]. Perché ciò accada, certamente, è necessaria la presenza e la compagnia di qualcuno che sia capace di autentica compassione. Compassione che non è solo un generico sentimento di pietà, come sentire in se stessi dolore per il dolore dell’altro. L’autentica compassione è piuttosto la conseguenza del fatto che l’altro per noi è importante, così importante, che il suo soffrire è il nostro stesso soffrire. Compatire, allora, significa dimostrare all’altro che il suo soffrire ci tocca perché la sua persona è parte di noi. Questo movimento di immedesimazione nel dolore altrui può suscitare in colui che soffre un ribaltamento di prospettiva, che lo porta a vivere la propria sofferenza dal punto di vista dell’altro, donandole un senso. Alcuni malati, per esempio, accettano di sopportare coraggiosamente i loro patimenti per evitare che le persone amate possano soffrire nel vedere soffrire il proprio caro. In effetti veder soffrire fa soffrire e a volte saremmo più disposti a rassegnarci se a patire fossimo noi piuttosto che la persona amata[32]. Possiamo dire, dunque, che mentre il dolore separa, essendo provato solo da colui che lo sperimenta fisicamente, la sofferenza, potendo essere moralmente condivisa, può anche unire. Così, se chi soffre «si sente importante per qualcuno, anche se soffre, ha motivi di vivere», se invece «non si sente importante per nessuno», allora non ha più futuro e «può chiudere la sua partita»[33].

 

           

5. Quale buona morte?

 

Come abbiamo visto, i principali argomenti a favore dell’eutanasia risultano problematici. In primo luogo c’è la difficoltà di dimostrare che la richiesta di eutanasia sia effettivamente autonoma. In secondo luogo, anche qualora si fosse riusciti a dimostrare che tale richiesta è frutto di una scelta autonoma, ciò non implica che esaudirla corrisponda al bene del paziente, così come consegnare stupefacenti a un adolescente in perfetta salute non è un bene solo perché il ragazzo ha deciso autonomamente di assumerli in ragione della sofferenza che l’astinenza gli impone. Infine, anche se si riuscisse a presentare l’eutanasia come un bene per colui che la richiede, questo non proverebbe ancora che un altro abbia il dovere di esaudire questa richiesta.

Anche gli argomenti che fanno leva sull’insopportabilità del dolore sono controversi e non sembrano tenere conto dell’enorme potenzialità delle medicine palliative, né del fatto che il problema non è tanto il dolore, quanto il modo in cui il soggetto lo soffre, e che per questo tipo di sofferenza ci sono soluzioni umanamente più adeguate dell’uccisione del malato. Come dimostra l’esperienza, il desiderio di morire esprime spesso una richiesta di aiuto da parte di chi si sente ormai dimenticato e abbandonato. Da questo punto di vista, la richiesta di eutanasia diventa una forma di protesta contro la possibile indifferenza di parenti e medici, oltre che un disperato tentativo di richiamare la loro attenzione su alcuni aspetti, magari trascurati, della propria condizione[34]. La percezione di essere stati abbandonati può essere più angosciante della stessa morte, che così finisce per essere desiderata pur di risolvere il proprio dramma. Se le cose stanno così, allora rispondere alle invocazioni del malato con un’iniezione letale equivale a un tragico fraintendimento, e assecondare la domanda di eutanasia non significa più rispettare la libertà del malato, ma abbandonarlo proprio nel momento in cui egli ha maggior bisogno della presenza di qualcuno che sappia infondergli fiducia e sollievo.

Spesso presentata come un diritto e come un segno di progresso e di civiltà, l’eutanasia, da questo punto di vista, si dimostra un arretramento a usi propri di società primitive. C’è qualcosa che stona nell’idea che si possa risolvere il problema della sofferenza eliminando colui che soffre. Non ci sembra conforme alla dignità di una persona disperata rispondere alle sue esigenze con un’iniezione di cloruro di potassio, come se il suo fosse un disagio puramente chimico. Il malato, in effetti, non è una macchina che, non potendo essere più riparata, va eliminata da un medico trasformato in mero tecnico. Il medico, piuttosto, dovrebbe affrontare la sfida morale della sofferenza attivando tutte le risorse umane e professionali di cui dispone, evitando dunque di trincerarsi dietro una soluzione puramente farmacologica[35].

Esaudire un malato che ci chiede di farlo morire significa, inoltre, riconoscere che non abbiamo più niente da dirgli e che la sua vita non conta più nulla neanche per noi. Forse è per questo che una morte procurata artificialmente lascia in chi resta un profondo senso di amarezza e di turbamento. Una morte naturale, vissuta sul proprio letto, per quanto gravosa possa essere, irradia invece una forza misteriosa, essendo «come un’esortazione a chi resta, perché affronti a sua volta la vita con un impegno totale»[36]. Certo, può morire così soltanto chi ha qualcosa, o meglio qualcuno, per cui vivere, così da trovare la forza e la motivazione, fino alla fine, di comunicare il proprio messaggio. Si può dire, allora, che una morte dignitosa è sempre parte di una più ampia e fondamentale capacità di vivere all’altezza della propria dignità, e che può morire bene, di un’autentica “buona morte”, solo chi vive bene.

Come si può notare, chi rifiuta l’eutanasia non crede che si debba evitare a ogni costo la morte, la quale anzi deve essere accettata come un esito inevitabile che, a volte, può essere perfino desiderato e invocato. Il rifiuto dell’eutanasia non si fonda, dunque, sul dovere di preservare la vita a ogni costo, ma sul riconoscimento che la vita di un uomo, finché egli vive, non è mai assurda. Non si nega che ci siano casi in cui la sofferenza di un uomo possa essere tale da indurlo a pensare che sia meglio per lui morire piuttosto che continuare a vivere. Ma questo, per coloro che gli stanno accanto, può significare soltanto impegnarsi a lenire le sue sofferenze e, se si tratta di un malato in fin di vita, di accompagnarlo verso una morte serena e dignitosa. In alcun modo, invece, può significare che sia meglio ucciderlo piuttosto che lasciarlo vivere ancora.

Chi vuole morire non vuole mai la morte in sé, ma solo la liberazione dalla sofferenza. Si può dire, allora, che chi vuole morire vorrebbe vivere, ma non come vive adesso, bensì sotto condizioni più accettabili, con il riconoscimento, il sostegno e l’affetto dell’ambiente circostante. Per questo una società che si rifiuta di ricorrere all’uccisione come una soluzione deve anche saper dimostrare ai suoi anziani e ai suoi malati la necessaria solidarietà, che renda loro più facile affrontare la dura prova della sofferenza e della malattia. Si parla spesso della vocazione umana del medico, ma c’è anche chi, suggestivamente, ha parlato di una «vocazione medica dell’uomo»[37], in forza della quale siamo tutti chiamati alla solidarietà nei confronti di chi soffre e di chi muore, solidarietà di cui anche noi avremo bisogno quando sarà venuta la nostra ora[38]

 

 

 

 


 


            * Docente a contratto di Bioetica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo

[1] Cfr. G. SAVAGNONE, Metamorfosi della persona. Il soggetto umano e non umano in bioetica, Elle di ci (Leumann), Torino 2005, pp. 8-9.

[2] S. SPINSANTI, Il pensiero e la prassi dell’eutanasia nell’etica cattolica, in Aa Vv., Eutanasia. Il senso del vivere e del morire umano, Dehoniane, Bologna 1987, pp. 101-120: 110. 

[3] In questo senso, lo storico latino Svetonio ha usato per la prima volta il termine greco per indicare il tipo di morte che Cesare Augusto soleva augurarsi “a guisa di sonno dolce e tranquillo”. Cfr. E. SCHOCHENHOFF, Etica della vita. Un compendio teologico, Queriniana, Brescia 1997, p. 314.

[4] Ibidem.

[5] Cfr. M. REICHLIN, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Milano 2002, p. 5. 

[6] Il Comitato Nazionale di Bioetica, nel parere “Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana”, del 14 luglio 1995, definisce l’eutanasia come “l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta” http://www.palazzochigi.it/bioetica/testi/140795.html. La legge olandese parla di “interruzione della vita del paziente dietro sua personale richiesta attraverso l’intervento attivo del medico”. Cfr. http://www.cnn.com/2000/WORLD/europe/11/28/euthanasia.law/index.html.

[7] Cfr. P. SINGER, Etica pratica, Liguori, Napoli 1989, pp. 130-158.

[8] Cfr. H. BRODY, Assisted Death. A Compassionate Response to a Medical Failure, “New England Journal of medicine” 327 (1992), pp. 1384-1388.

[9] Come ritiene H. JONAS, Tecniche di differimento della morte e diritto di morire in ID., Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, pp. 185-205: 196.

[10] Di questo avviso anche il recente disegno di legge sull’eutanasia presentato in Italia dai radical-socialisti della “Rosa nel pugno”.

[11] R. BARCARO, Dignità della morte, accanimento terapeutico ed eutanasia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 31.

[12] Cfr. F. SANTEUSANIO, Il medico di fronte alla morte, in L. ALICI - F. D’AGOSTINO - F. SANTEUSANIO, La dignità degli ultimi giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, pp. 9-50: 23-24.

[13] Cfr., tra i tanti che insistono su questo punto, D. NERI, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 120. 

[14] Cfr. R. SPAEMANN, Es gibt kein gutes Töten, R. SPAEMANN - T. FUCHS (hrsg.), Töten oder sterben lassen? Worum es in der Euthanasiedebatte geht, Herder, Freiburg 1997, pp. 12-30: 22. 

[15] Lo ammette, candidamente, J. HARRIS, The Value of Life, Routledge & Kegan, London 1985, p. 66.

[16] Cfr. Ph. FOOT, Eutanasia, in G. FERRANTI - S. MAFFETTONE (a cura di) Introduzione alla bioetica, Liguori, Napoli 1992, pp. 81-111.

[17] A.E.M. VAN DER DOES DE WILLEBOIS, Dare la vita, non prenderla, “Studi Cattolici”, 1985, pp. 103-107: 106.

[18] Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE SPAGNOLA, L’eutanasia è immorale e antisociale, in “Il Regno-documenti” 9/1998, pp. 288-292.

[19] Cfr. M. BATTIN PABST, Least Worse Death: Essays in Bioethics on the End of Life, Oxford, Oxford University Press 1994.

[20] E. MANCINI - A. MORELLI, Le frontiere della bioetica, Giunti, Firenze-Milano 2004, p. 182.

[21] Cfr. D. LAMB, L’etica alle frontiere della vita. Eutanasia e accanimento terapeutico, Il Mulino, Bologna 1995, p. 174.

[22] É. MONTERO, L’eutanasia è un diritto? Autonomia, dignità e pluralismo, “Studi Cattolici” 469 (2000) pp. 164-173.

[23] Così H. JONAS, op. cit., pp. 188-189.

[24] L. ALICI, Filosofia della morte, in L. ALICI - F. D’AGOSTINO - F. SANTEUSANIO, op. cit., pp. 51-99: 66.

[25] F. TOSCANI, op. cit., pp. 45-46.

[26] P. CATTORINI, La morte offesa. Espropriazione del morire ed etica della resistenza al male, Dehoniane, Bologna 1996, p. 40. 

[27] Cfr. C. SAUNDERS - M. BAINES, Living with dying. The management of terminal disease, Oxford, Oxford University Press 1983; P. VERSPIEREN, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico, Paoline, Cinisello Balsamo 1985; F. TOSCANI, op. cit.; F. HENRIQUET, La trama delle cure nella medicina palliativa, “L’Arco di Giano” 14, 1997, pp. 115-126.

[28] Queste percentuali sono riportate anche da coloro che ritengono lecita l’eutanasia. Cfr. SHERWIN B. NULAND, Il medico e il paziente di fronte alla morte, Fondazione Sigma-Tau, Roma 2001.

[29] D. NERI, op. cit., p. 58.

[30] Cfr. V. E. FRANKL, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia 1998, pp. 77-78 e S. NATOLI, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1998, p. 28.

[31]  D. CALLAHAN, The Droubled Dream of Life, Simon & Schuster, New York 1993, p. 144.

[32] F. Russo, Il dolore: autointerrogazione ed esperienza della prova, in R. ESCLANDA - F. RUSSO (a cura di), Homo patiens. Prospettive sulla sofferenza umana, Armando, Roma 2003, pp. 97-116: 103.

[33] S. NATOLI, Il senso del dolore, Il Grillo 4/02/1998.

[34] S. SPINSANTI, art. cit., p. 116.

[35] M. REICHLIN, Il problema dell’eutanasia, in Aa. Vv., Introduzione allo studio della bioetica, Europa Scienze Umane, Milano 1996, pp. 459-504.

[36] A.E.M. VAN DER DOES DE WILLEBOIS, art. cit., p. 107.

[37] Entretiens avec le philosophe Emmanuel Levinas, avril 1986, in E. HIRSCH, Médicine et éthique. Le devoir d’humanité, Editions du Cerf, Paris 1990, p. 48.

[38] Cfr. E. SCHOCKENHOFF, op. cit., p. 353.   

 

 
     
     
 
 
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