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Quale
buona morte?
Il
problema dell'eutanasia tra sofferenza e libertà
di
Luciano Sesta*
1. Il problema
dell’eutanasia tra progresso medico e istanze etiche
Il problema
dell’eutanasia è al centro di un acceso dibattito che
coinvolge, ormai da tempo, non soltanto la classe
medica, che è la più direttamente interessata, ma anche,
tra gli altri, il campo dell’etica filosofica, della
psicologia, dell’antropologia e del diritto. Al di là
delle competenze disciplinari, delle credenze religiose
e degli schieramenti politici, si può ben dire che
l’eutanasia è un problema che in linea di principio
riguarda tutti, come dimostra anche il fatto che in
alcuni Paesi gli stessi cittadini sono stati chiamati a
esprimersi sull’eventualità di legalizzarla. In questo
nostro intervento ci occuperemo, in modo sintetico e
senza alcuna pretesa di esaustività, di alcuni aspetti
etici del problema, con particolare riferimento alle
prospettive che attribuiscono alla sofferenza e al
diritto alla libertà di scelta un peso decisivo per
valutare la moralità dell’eutanasia.
Come è noto, all’aumento
della durata media della vita e ai problemi che la
accompagnano non sono estranei i grandi progressi della
medicina moderna. Da quando il prolungamento artificiale
della vita è diventato una realtà, l’antica regola
professionale secondo cui il medico doveva “fare tutto
il possibile” per evitare la morte di un uomo, è
divenuta problematica. Le tecniche di rianimazione e le
apparecchiature di respirazione artificiale, infatti,
possono oggi sostituire le funzioni vitali di un
organismo e mantenere in vita soggetti che, altrimenti,
sarebbero morti. Il decorso di malattie che un tempo
conducevano rapidamente alla morte, come i tumori
maligni, l’Aids e molte patologie del sistema
cardiovascolare, respiratorio e nervoso, può oggi essere
rallentato. Questo ha risolto alcuni problemi ma ne ha
anche creati altri. Molte patologie legate alla
vecchiaia diventano croniche, radioterapia e
chemioterapia, prolungando la vita, finiscono per
prolungare anche le sofferenze e i disagi che la
accompagnano nella sua fase terminale. La medicina
moderna rischia così di trasformare la morte, che prima
era un evento più o meno puntuale, in un processo lungo
e doloroso.
In un contesto del
genere, la decisione di ricorrere o di non ricorrere a
questi mezzi o di interromperne l’uso è una decisione
complessa, che richiede valutazioni che esulano da una
competenza puramente medica. Rianimare o non un uomo di
ottantanove anni che ha avuto un arresto cardiaco?
Sospendere o continuare una chemioterapia che prolunga
penosamente la vita di un malato terminale? E ancora:
c’è differenza tra la decisione di sospendere un
trattamento lasciando morire il paziente e quella di
farlo morire con un’iniezione letale per porre fine alle
sue sofferenze? Dare intenzionalmente la morte
attraverso un’azione medica è lo stesso che lasciare
morire attraverso un’astensione terapeutica? Per
ciascuna di queste domande esistono ragioni sia per una
risposta affermativa sia per una risposta negativa. Ma
queste risposte non possono provenire dalla tecnologia
medica che, anzi, fa sorgere la domanda. Il potere
odierno della medicina, infatti, ci dice solo ciò che è
possibile fare e non ciò che è giusto fare.
2. Che cos’è
l’eutanasia? L’esigenza di una definizione
Quando si parla di
“eutanasia” si presuppone che si tratti di una parola
dal significato intuitivamente chiaro. In realtà non è
così. Come è stato giustamente osservato, il termine è
una di quelle tipiche “parole-attaccapanni” alle quali
ognuno attribuisce un particolare significato, tanto che
quando parliamo di eutanasia, mentre crediamo di parlare
della stessa cosa, di fatto ci riferiamo a situazioni
diverse.
Come è noto, la parola viene dal greco eu-thanatos
che significa “buona morte”, sia nel senso di una morte
facile, senza sofferenze,
sia nel senso di una morte gloriosa, come quella del
guerriero al servizio della patria.
A partire dall’influenza del Cristianesimo, la parola,
in forza del carattere avverbiale dell’eu,
indicherà sempre di più il “ben morire”, non solo nel
senso delle caratteristiche di brevità e assenza di
dolore del trapasso, ma anche nel senso della buona
disposizione del morente rispetto alla propria morte.
Il significato originario del termine eutanasia, in ogni
caso, non fa riferimento a una morte provocata ma
naturale, e non riguarda la medicina. Soltanto sul
finire del secolo e agli inizi del Novecento il termine
eutanasia assume un nuovo significato, che è quello di
“uccisione pietosa” (mercy killing). Sulla scorta
di questo più recente significato, nel contesto del
dibattito odierno l’eutanasia può essere definita come
l’uccisione deliberata di un paziente al fine di
eliminare le sue sofferenze fisiche e/o morali.
Questa uccisione può essere realizzata sia mediante
un’azione, per esempio un’iniezione letale, sia mediante
un’omissione, per esempio lasciando morire un paziente
che, pure, ha ancora delle ragionevoli speranze di
migliorare la sua condizione. Si è soliti, inoltre,
distinguere diversi tipi di eutanasia. Quando
l’eutanasia è richiesta dal paziente, si parla di
“eutanasia volontaria”; quando il paziente si trova in
uno stato di incoscienza e non ha manifestato in
precedenza la sua volontà, per esempio attraverso un
“testamento biologico” (living will), si parla di
“eutanasia non volontaria”; si parla infine di
“eutanasia involontaria” quando l’eutanasia è praticata
contro la stessa volontà del paziente.
Il caso più dibattuto è
indubbiamente quello dell’eutanasia volontaria,
in cui il paziente, in piena coscienza, chiede la morte.
Il paziente-tipo del nostro caso è dunque un soggetto
capace di intendere e di volere che, per lo sviluppo
ormai irreversibile di una grave patologia o perché
anziano debilitato, si trova in una condizione di
sofferenza, in cui va diminuendo la sua autonomia e in
cui va aumentando la sua dipendenza nei confronti di
coloro che gli stanno intorno. Poco importa che egli sia
un malato “terminale”, vale a dire prossimo alla morte,
o che invece abbia ancora qualche anno di vita davanti a
sé. Ciò che conta è il grado di sofferenza che egli
sperimenta nella sua condizione, dal momento che la
principale motivazione che spinge un uomo a chiedere la
morte, e che induce molti a giustificare l’eutanasia,
non è tanto l’imminenza della morte quanto l’insopportabilità
della sofferenza.
Va fatta un’ultima
precisazione semantica a proposito dell’eutanasia
volontaria. Spesso si parla di “eutanasia volontaria”
nel caso in cui il paziente chiede di essere ucciso
perché non può farlo da se stesso, mentre si parla di
“suicidio assistito”
quando il paziente è capace di darsi la morte e ha
bisogno solo che qualcuno gli fornisca un farmaco
letale. Questa distinzione non ci sembra moralmente
decisiva. Dal punto di vista del paziente, infatti, ciò
che conta è che il proprio desiderio di farla finita
venga realizzato, al di là del fatto che egli chieda di
essere ucciso (eutanasia volontaria) o di essere
aiutato a darsi la morte (suicidio assistito).
Allo stesso modo, dal punto di vista della
responsabilità morale del medico mettere il paziente in
possesso di un farmaco mortale non è diverso dal
somministrarglielo direttamente su sua richiesta.
Tratteremo dunque l’eutanasia volontaria e il suicidio
assistito come varianti di un unico problema.
Si può osservare,
innanzitutto, che rispetto alla fattispecie tradizionale
del suicidio qui la questione si complica, dato che non
ci troviamo soltanto di fronte a un uomo che sta
meditando di darsi la morte, ma a un uomo che chiede
ad altri di farlo morire, costringendoli così al ruolo
di complici nella realizzazione della sua tragica
scelta. È importante allora tenere distinte due
questioni, che riguardano rispettivamente chi chiede
l’eutanasia (malato o anziano) e chi è chiamato
eventualmente a eseguirla (medico, infermiere, parente o
amico). Le domande alle quali cercheremo di dare una
risposta, sono allora essenzialmente due: l’eutanasia,
la “buona morte”, è davvero buona, corrisponde
cioè al bene del soggetto che ne fa richiesta? E, di
conseguenza, per coloro che sono vicini al malato,
l’eutanasia è la cosa giusta da fare, a tal punto
da poter dire che essa è ciò che spetta al malato, ciò a
cui egli ha diritto?
3. Il diritto del
paziente all’autodeterminazione giustifica l’eutanasia?
Partiamo da quest’ultima
domanda, e cioè dall’eventualità che vi sia un diritto
all’eutanasia. Un vasto movimento di opinione ritiene
che la richiesta di eutanasia debba essere accolta
facendo riferimento al diritto di ciascuno a vedere
rispettata la propria volontà, soprattutto quando si
trova in uno stato di sofferenza del cui grado di
sopportabilità può giudicare solo il soggetto
direttamente interessato.
L’eutanasia, inoltre, consentirebbe: 1) al paziente di
morire in modo rapido e indolore; 2) alla famiglia del
paziente di essere esonerata dall’affrontare i costi
(psicologici ed economici) che la sua assistenza
richiede; 3) ai medici e alla società di dedicare
risorse ad altri pazienti che hanno maggiori possibilità
di guarigione.
Per esempio, secondo la
legge olandese e la tendenza diffusa presso i vari
movimenti a favore dell’eutanasia, quest’ultima può
essere considerata lecita sulla base di tre presupposti:
1) Il primo è che vi sia la possibilità di accertarsi
che il desiderio di morire sia l’autentica espressione
della libera volontà del paziente; 2) il secondo
presupposto è la convinzione che il paziente sia l’unico
a poter giudicare se la propria vita, in uno stato di
sofferenza, sia o non sia degna di essere ancora
vissuta; 3) il terzo presupposto, infine, è che
l’eutanasia, in certi casi, è l’unico aiuto che possiamo
dare al paziente nella sua drammatica situazione.
Analizziamo ciascuno di questi presupposti.
Il primo presupposto,
come abbiamo visto, si riferisce alla possibilità di
verificare che il desiderio di morire sia espressione
autentica della volontà del paziente. Si potrebbe
osservare che già domandarsi quanto sia effettivamente
libera la richiesta di morire, per poterla eventualmente
esaudire, significa considerare la sofferenza e la morte
del paziente come qualcosa che non ci riguarda.
L’insistenza sulla scelta autonoma di colui che chiede
di morire potrebbe nascondere, così, il tentativo di
sottrarsi a buon mercato a una più impegnativa
solidarietà nei suoi confronti. Anziché domandarci
quanto sia effettivamente libera la richiesta del
paziente dovremmo forse domandarci: cosa non abbiamo
fatto perché costui ci chieda di morire? Questo
rovesciamento di prospettiva potrebbe coglierci
impreparati, costringendoci a riconoscere che se l’altro
ci chiede di morire forse anche noi, con le nostre
mancanze, abbiamo contribuito a rendere
insopportabile la sua sofferenza. Di fronte a chi
soffre, può succedere, per esempio, che parenti e amici
rimangano in disparte, magari perché intimoriti, o
perché non si sentono all’altezza. C’è anche il
comprensibile rischio che i familiari, duramente provati
dal peso di un’assistenza alla quale si aggiunge lo
svolgimento delle ordinarie attività domestiche e
lavorative, dopo un certo tempo avvertano stanchezza e
cedimento.
Tutto questo incide sullo stato d’animo del malato, la
cui richiesta di morire, dunque, non è mai del tutto
autonoma, essendo condizionata dalla valutazione che
egli riceve dal giudizio e dal comportamento degli
altri.
Per quanto concerne il
secondo punto, si dice che il paziente sia
l’unico a poter giudicare se la propria vita, in uno
stato di sofferenza, è o non è degna di essere ancora
vissuta.
Anche quest’idea è piuttosto problematica. A
rigor di logica, infatti, se il rispetto dell’autonomia
del paziente è sufficiente a giustificare l’eutanasia
perché il paziente è l’unico giudice della sua
condizione, allora qualunque persona ne faccia
richiesta, indipendentemente dall’età e dal male di cui
soffre, deve poter essere esaudita, dal giovane
momentaneamente depresso all’anziano terminale. Si dirà
che i due casi sono diversi, e che se l’anziano
terminale potrebbe al limite essere accontentato,
bisogna convincere il giovane depresso che egli può
superare il suo disagio. Ma questo ragionamento non ha
nulla a che vedere con il diritto alla libera scelta e,
anzi, lo contraddice.
E infatti, se davvero il soggetto interessato è il
miglior giudice della propria condizione, allora
dovremmo giustificare l’eutanasia per chiunque
ritenga la propria vita indegna di essere vissuta, senza
presumere di poter giudicare, meglio di quanto possa
fare il diretto interessato, ciò che lo riguarda più
intimamente. Il giovane depresso che chiede di morire,
di fronte al nostro tentativo di aiutarlo a superare il
suo problema, potrebbe pur sempre invocare il rispetto
della sua libertà di scelta, dicendo che nessuno ha il
diritto di stabilire, al suo posto, quanto sono
insopportabili le sue sofferenze. La conclusione che
dobbiamo trarre da queste considerazioni, benché sia un
po’ imbarazzante, è che, in realtà, coloro che difendono
l’eutanasia per i malati terminali o anziani e rifiutano
invece quella per i giovani depressi non lo fanno in
nome dell’autonomia degli anziani e dei malati, ma
perché ritengono che essi starebbe meglio da morti
piuttosto che da vivi.
Veniamo all’ultimo
punto. Si riconosce che l’eutanasia non è
la soluzione migliore ma che in determinate circostanze
essa è l’unico modo per porre fine a uno stato di
sofferenza considerato intollerabile dal paziente.
L’eutanasia andrebbe dunque concessa con cautela e
soltanto in casi eccezionali o estremi, come quelli in
cui il malato, nonostante la terapia del dolore,
implorasse lo stesso che lo si faccia morire.
A dire il vero, anche in
questi casi l’eutanasia non è necessariamente l’unica
soluzione, a meno che non si sia deciso, a priori, che
uccidere il malato è una delle soluzioni possibili. E
infatti, poiché l’eutanasia, nonostante sia la soluzione
più drammatica, è anche la soluzione più immediata, più
facile e più economica, una volta che la si sia
considerata come una possibile via d’uscita tenderà a
imporsi come l’unica via d’uscita, inducendo il
malato stesso a richiederla e i medici a proporla. Ci
troviamo qui in uno di quei classici casi in cui «creare
la possibilità comporta un meccanismo psicologico di
incoraggiamento a servirsene».
Così, quando farsi dare la morte è una possibilità
moralmente lecita, il malato risulta esposto a una
pressione intollerabile: se egli non sfrutta questa
possibilità si sentirà responsabile di tutti i sacrifici
che devono essere spesi per lui. Di fronte all’“esempio”
di coloro che chiedono l’eutanasia, un paziente anziano
che sente di essere un peso per i propri familiari e per
la società, potrebbe domandarsi a sua volta se non abbia
anch’egli l’“obbligo” morale di chiedere la morte,
liberando gli altri da tutti i sacrifici che il suo
continuare a vivere comporta per loro.
Anche se le sofferenze del malato non sono
insopportabili, continuare a vivere in una situazione
del genere finisce per diventare davvero insopportabile.
Il rischio è che, in forza di un meccanismo perverso,
una volta che si sia accettato il diritto di
morire si arrivi a imporre surrettiziamente il dovere
di morire. Ci sono autori che sostengono esplicitamente
questo dovere di morire e secondo i quali gli anziani,
per esempio, dovrebbero capire che giunge un momento in
cui togliere il disturbo è, da parte loro, un atto di
responsabilità al fine di liberare risorse sanitarie
meglio utilizzabili per i più giovani.
Come si può vedere,
tutte e tre le condizioni che dovrebbero giustificare
l’eutanasia risultano problematiche. La debolezza di
fondo che le accomuna è costituita dall’eccessiva
importanza attribuita al diritto di autodeterminazione
del paziente. Questo diritto, senz’altro, deve essere
tutelato, ma risulta inadeguato per risolvere il
problema della sofferenza, soprattutto quando viene
assolutizzato in modo astratto. Per esempio, a volte si
arriva a dire che il paziente, per poter decidere in
modo davvero autonomo, andrebbe «protetto dalle
pressioni di chiunque possa influenzarlo, compresi i
familiari».
Dire una cosa del genere significa non rendersi conto
che per molti pazienti, dai più giovani ai più anziani,
il dialogo con i familiari e con i medici, e dunque una
qualche forma di dipendenza nei loro confronti, in
realtà è la condizione sulla quale poggia la loro
decisione autonoma e la loro speranza di trovare
sollievo dal dolore e conforto nella sofferenza.
L’astratta figura di un malato intento solo a
rivendicare i propri diritti è piuttosto estranea al
vissuto del malato concreto, e cioè del malato
inchiodato su un letto di ospedale. Se il paziente di
cui parliamo è in preda a indicibili sofferenze,
insistere sul suo diritto di scegliere in piena
autonomia sarebbe come insistere sulla libertà di scelta
del depresso che si trova sul punto di suicidarsi.
Perché una scelta sia autonoma, in effetti, si
presuppone che il soggetto che la manifesta sia
pienamente padrone di se stesso, al di là di ogni
condizionamento che possa alterare il suo equilibrio
emotivo. Tuttavia, poiché la richiesta di eutanasia è
motivata dall’insopportabilità della sofferenza, ci si
potrebbe domandare quanto sia effettivamente libera una
scelta condizionata da una sofferenza definita
insopportabile. Per questo rifiutare l’eutanasia non è
una violazione della libertà del paziente, ma un atto
compiuto in nome della sua stessa libertà. E infatti,
rifiutare l’eutanasia a colui che la richiede significa
offrirgli un’ulteriore possibilità di riflettere sulla
sua decisione, magari dettata da un attimo di
disperazione.
Del resto, come è risaputo, i pazienti in stato
terminale o in condizioni di forte sofferenza
attraversano fasi altalenanti, da momenti di depressione
a momenti di ritrovata fiducia. Non è facile capire in
quale dei due momenti si esprime l’autentica volontà del
malato. Probabilmente, in mancanza di un criterio sicuro
la soluzione più ragionevole e umana è quella di
respingere ogni richiesta di eutanasia, onde evitare di
accorgersi, troppo tardi, di aver ucciso chi non voleva
morire.
4. Le cure palliative
tra “dolore” e “sofferenza”
Ora, però, se decidiamo
di rifiutare l’eutanasia dobbiamo anche prendere sul
serio i motivi che spingono il paziente a richiederla,
offrendogli un’alternativa adeguata. Infatti, se dopo
aver rifiutato di esaudire la richiesta di eutanasia non
ci impegnassimo a migliorare le condizioni di vita del
paziente, quest’ultimo potrebbe essere nuovamente
indotto a chiedere la morte, e il nostro rifiuto di
accontentarlo, a questo punto, non sarebbe un rifiuto
credibile, potendo apparire, al limite, anche disumano.
Il primo passo da fare,
se vogliamo prendere sul serio i motivi che spingono un
uomo a chiedere la morte, è quello di non
sottovalutare la sua sofferenza. Il malato
inguaribile, soprattutto se anziano, soffre spesso di un
dolore continuo, che non consente il sonno e le normali
attività quotidiane. Il suo organismo perde elasticità,
le sue capacità percettive si appannano, lo spazio della
sua autonomia fisica si riduce e il ritmo del suo tempo
si fa sempre più lento e ripetitivo.
Se poi si considera che spesso gli anziani basano la
loro giornata su riferimenti ambientali fissi e su
abitudini consolidate, anche una semplice difficoltà di
ambientamento, dovuta al trasferimento in ospedale, può
essere causa di sofferenza.
A questo proposito, è opportuno distinguere il dolore,
che è fenomeno fisico, neurologico e biochimico, dalla
sofferenza, che è invece fenomeno esistenziale e
morale.
Ora, certamente, il
dolore produce sofferenza, ma la sofferenza non è
direttamente proporzionale al dolore. Per esempio, un
dolore lieve di cui non si conosce l’origine, creando
apprensione, fa soffrire di più di un dolore, magari più
intenso, di cui però si conosce la causa. Il grado di
sopportabilità del dolore e della sofferenza, inoltre,
dipende dal senso che si attribuisce al proprio
soffrire. Chi percepisce il significato e il fine del
proprio dolore è più facilmente disposto a soffrire di
chi, invece, è costretto a sopportare un dolore
considerato privo di senso. In effetti il soldato in
battaglia così come la partoriente in travaglio
sopportano relativamente bene il dolore, poiché lo
soffrono di buon grado in ragione della sua finalità
positiva, quale può essere la difesa della patria o la
nascita di un bambino.
Viceversa, un dolore magari oggettivamente meno intenso
di quello di una partoriente, provato però da un malato
di cancro o da un paziente anziano, provoca maggiori
sofferenze perchè è vissuto come presagio di una fine
imminente. Da questo punto di vista si deve dire che,
nel nostro paziente-tipo, dolore fisico e sofferenza
morale sono talmente intrecciati che spesso è
impossibile considerarli separatamente.
Come è risaputo, il
tentativo più ampio e più organico di prendere sul serio
il dolore e la sofferenza del malato, in particolare del
malato terminale, è rappresentato dalla medicina
palliativa, promossa soprattutto per iniziativa
dell’Hospice Movement, un movimento culturale
sviluppatosi in Inghilterra negli anni Sessanta. I
sostenitori dell’Hospice movement riferiscono di
molti pazienti che, inizialmente tentati di chiedere
l’eutanasia, una volta sottoposti a un adeguato piano di
cure palliative non hanno più desiderato la morte.
I farmaci analgesici di cui disponiamo oggi, in effetti,
risultano efficaci nel 95% dei casi e nel restante 5%,
se la situazione è grave, è pur sempre possibile, previo
consenso, sedare il paziente.
Ci si potrebbe domandare allora come mai l’eutanasia
continua a essere rivendicata come una possibile
soluzione se il dolore fisico oggi può essere alleviato
efficacemente.
Gli stessi promotori del
“diritto di morire” riconoscono che la richiesta di
eutanasia non dipende esclusivamente dall’intensità dei
dolori e dei disagi fisici, ma anche – e soprattutto –
dal modo in cui tali disagi sono vissuti e sofferti.
Questi disagi, al di là del dolore, possono creare una
sofferenza che colpisce nel profondo tutta la
persona e che è legata «alla percezione del progressivo
degradarsi delle proprie condizioni di vita, alla
mancanza di controllo e di autonomia, al dipendere da
altri persino nell’espletamento delle più elementari
esigenze fisiche».
È comprensibile, di conseguenza, che anche un malato
curato intensivamente e nel migliore dei modi possa
percepire come inaccettabile la propria condizione e
possa soffrirne a tal punto da giudicarla insostenibile.
Insomma, ciò che il paziente fa più fatica ad accettare
è la perdita della propria autonomia e la
conseguente necessità di dipendere da altri.
La sofferenza, dunque,
contrariamente al dolore, non è soltanto qualcosa che si
prova ma anche qualcosa che mette alla prova,
costringendo colui che soffre a fare i conti con
un’immagine di sé che ormai si sta disfacendo e
provocando a guardare oltre se stessi, alla ricerca di
qualcosa che possa dare un senso alla propria condizione.
Tutto ciò significa che il malato può superare la paura
della solitudine, che spinge alla disperazione e alla
tentazione di farla finita, solo se si decide a
considerare la sua dipendenza dagli altri non come
qualcosa di degradante, ma come uno spazio di
condivisione della propria sofferenza. Come ha scritto
Daniel Callahan, «C’è una grazia preziosa [...] nella
capacità di dipendere dagli altri, di essere aperti alla
loro sollecitudine, di voler poggiare sulla loro forza e
comprensione».
Perché ciò accada, certamente, è necessaria la presenza
e la compagnia di qualcuno che sia capace di autentica
compassione. Compassione che non è solo un generico
sentimento di pietà, come sentire in se stessi dolore
per il dolore dell’altro. L’autentica compassione è
piuttosto la conseguenza del fatto che l’altro per noi è
importante, così importante, che il suo soffrire è il
nostro stesso soffrire. Compatire, allora, significa
dimostrare all’altro che il suo soffrire ci tocca
perché la sua persona è parte di noi. Questo movimento
di immedesimazione nel dolore altrui può suscitare in
colui che soffre un ribaltamento di prospettiva, che lo
porta a vivere la propria sofferenza dal punto di vista
dell’altro, donandole un senso. Alcuni malati, per
esempio, accettano di sopportare coraggiosamente i loro
patimenti per evitare che le persone amate possano
soffrire nel vedere soffrire il proprio caro. In effetti
veder soffrire fa soffrire e a volte saremmo più
disposti a rassegnarci se a patire fossimo noi piuttosto
che la persona amata.
Possiamo dire, dunque, che mentre il dolore separa,
essendo provato solo da colui che lo sperimenta
fisicamente, la sofferenza, potendo essere moralmente
condivisa, può anche unire. Così, se chi soffre «si
sente importante per qualcuno, anche se soffre, ha
motivi di vivere», se invece «non si sente importante
per nessuno», allora non ha più futuro e «può chiudere
la sua partita».
5. Quale buona morte?
Come abbiamo visto, i
principali argomenti a favore dell’eutanasia risultano
problematici. In primo luogo c’è la difficoltà di
dimostrare che la richiesta di eutanasia sia
effettivamente autonoma. In secondo luogo, anche qualora
si fosse riusciti a dimostrare che tale richiesta è
frutto di una scelta autonoma, ciò non implica che
esaudirla corrisponda al bene del paziente, così come
consegnare stupefacenti a un adolescente in perfetta
salute non è un bene solo perché il ragazzo ha deciso
autonomamente di assumerli in ragione della sofferenza
che l’astinenza gli impone. Infine, anche se si
riuscisse a presentare l’eutanasia come un bene per
colui che la richiede, questo non proverebbe ancora che
un altro abbia il dovere di esaudire questa richiesta.
Anche gli argomenti che
fanno leva sull’insopportabilità del dolore sono
controversi e non sembrano tenere conto dell’enorme
potenzialità delle medicine palliative, né del fatto che
il problema non è tanto il dolore, quanto il modo in cui
il soggetto lo soffre, e che per questo tipo di
sofferenza ci sono soluzioni umanamente più adeguate
dell’uccisione del malato. Come dimostra l’esperienza,
il desiderio di morire esprime spesso una richiesta di
aiuto da parte di chi si sente ormai dimenticato e
abbandonato. Da questo punto di vista, la richiesta di
eutanasia diventa una forma di protesta contro la
possibile indifferenza di parenti e medici, oltre che un
disperato tentativo di richiamare la loro attenzione su
alcuni aspetti, magari trascurati, della propria
condizione.
La percezione di essere stati abbandonati può essere più
angosciante della stessa morte, che così finisce per
essere desiderata pur di risolvere il proprio dramma. Se
le cose stanno così, allora rispondere alle invocazioni
del malato con un’iniezione letale equivale a un tragico
fraintendimento, e assecondare la domanda di eutanasia
non significa più rispettare la libertà del malato, ma
abbandonarlo proprio nel momento in cui egli ha maggior
bisogno della presenza di qualcuno che sappia
infondergli fiducia e sollievo.
Spesso presentata come
un diritto e come un segno di progresso e di civiltà,
l’eutanasia, da questo punto di vista, si dimostra un
arretramento a usi propri di società primitive. C’è
qualcosa che stona nell’idea che si possa risolvere il
problema della sofferenza eliminando colui che soffre.
Non ci sembra conforme alla dignità di una persona
disperata rispondere alle sue esigenze con un’iniezione
di cloruro di potassio, come se il suo fosse un disagio
puramente chimico. Il malato, in effetti, non è una
macchina che, non potendo essere più riparata, va
eliminata da un medico trasformato in mero tecnico. Il
medico, piuttosto, dovrebbe affrontare la sfida morale
della sofferenza attivando tutte le risorse umane e
professionali di cui dispone, evitando dunque di
trincerarsi dietro una soluzione puramente farmacologica.
Esaudire un malato che
ci chiede di farlo morire significa, inoltre,
riconoscere che non abbiamo più niente da dirgli e che
la sua vita non conta più nulla neanche per noi. Forse è
per questo che una morte procurata artificialmente
lascia in chi resta un profondo senso di amarezza e di
turbamento. Una morte naturale, vissuta sul proprio
letto, per quanto gravosa possa essere, irradia invece
una forza misteriosa, essendo «come un’esortazione a chi
resta, perché affronti a sua volta la vita con un
impegno totale».
Certo, può morire così soltanto chi ha qualcosa, o
meglio qualcuno, per cui vivere, così da trovare la
forza e la motivazione, fino alla fine, di comunicare il
proprio messaggio. Si può dire, allora, che una morte
dignitosa è sempre parte di una più ampia e fondamentale
capacità di vivere all’altezza della propria dignità, e
che può morire bene, di un’autentica “buona morte”, solo
chi vive bene.
Come si può notare, chi
rifiuta l’eutanasia non crede che si debba evitare a
ogni costo la morte, la quale anzi deve essere accettata
come un esito inevitabile che, a volte, può essere
perfino desiderato e invocato. Il rifiuto dell’eutanasia
non si fonda, dunque, sul dovere di preservare la vita a
ogni costo, ma sul riconoscimento che la vita di un
uomo, finché egli vive, non è mai assurda. Non si nega
che ci siano casi in cui la sofferenza di un uomo possa
essere tale da indurlo a pensare che sia meglio per lui
morire piuttosto che continuare a vivere. Ma questo, per
coloro che gli stanno accanto, può significare soltanto
impegnarsi a lenire le sue sofferenze e, se si tratta di
un malato in fin di vita, di accompagnarlo verso una
morte serena e dignitosa. In alcun modo, invece, può
significare che sia meglio ucciderlo piuttosto
che lasciarlo vivere ancora.
Chi vuole morire non
vuole mai la morte in sé, ma solo la liberazione dalla
sofferenza. Si può dire, allora, che chi vuole morire
vorrebbe vivere, ma non come vive adesso, bensì sotto
condizioni più accettabili, con il riconoscimento, il
sostegno e l’affetto dell’ambiente circostante. Per
questo una società che si rifiuta di ricorrere
all’uccisione come una soluzione deve anche saper
dimostrare ai suoi anziani e ai suoi malati la
necessaria solidarietà, che renda loro più facile
affrontare la dura prova della sofferenza e della
malattia. Si parla spesso della vocazione umana del
medico, ma c’è anche chi, suggestivamente, ha parlato di
una «vocazione medica dell’uomo»,
in forza della quale siamo tutti chiamati alla
solidarietà nei confronti di chi soffre e di chi muore,
solidarietà di cui anche noi avremo bisogno quando sarà
venuta la nostra ora.
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