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La
vita e l’etica: per una congiunzione bioetica
di
Pietro Cognato*
Introduzione
Scrivere di etica della vita non è tra le imprese più
semplici. Le difficoltà che si incontrano affondano
le loro radici nella complessità del discorso etico.
L’etica della vita e per la vita è, del resto, un campo
sterminato ora paragonabile ad un deserto dove nulla
cresce, ora ad un mare in tempesta le cui onde
sono sollevate da venti contrastanti. Essa si presenta
problematica a volte nella sua fondazione, a volte nel
suo contenuto. Ma essa è ineludibile. La sua dimensione
risulta onnipresente nella vita degli uomini, nelle
loro attività, nelle loro iniziative. Se scriverne è
difficile, non parlarne è disumano. Come fare? Partiamo
da ciò che ci sembra più certo: della vita bisogna
averne cura.
“Prendersi cura della vita”! Affermazione perentoria
o esortazione? Nuovo slogan pubblicitario o nuova tendenza
socio-culturale? Niente affatto. Semplicemente esigenza.
È
di una esigenza, di questa esigenza, che il presente
contributo tratta. Nient’altro.
Nient’altro si fa per dire perché trattare solo l’esigenza
di curare la vita è un’impresa ardua che richiede grande
senso di osservazione della realtà circostante, un metodo
imprescindibile se si vuole affrontare senza pregiudizi
il mondo dei fenomeni morali.
La
consapevolezza che la vita sia un dono e la sollecitudine
a prendersene cura è uno di questi fenomeni che rendono
tremenda e affascinante l’avventura umana. Sembrerebbe
risultare scontata per molti lettori questa sollecitudine
o, addirittura, molto inflazionata per tanti studiosi,
ma il complicato groviglio di istanze filosofiche, esistenziali
e religiose che ammanta la seria questione del vivere
e del morire non rende mai abbastanza protetto il valore
della vita.
Infatti, occuparsi della vita nella prospettiva
della sua cura significa non poter evitare il rischio
di essere travolti da tutto: dalle concezioni filosofiche
ed esistenziali sulla vita alle personalissime opinioni
sul modo di gestire la propria e la altrui vita, dalle
preoccupazioni immediatamente pragmatiche alle convinzioni
religiose.
La
vita quando sboccia inizia il suo cammino non privo di
pericoli e di minacce. È sotto gli occhi di tutti la
grande sfida lanciata dal mondo sulle sorti dell’umanità.
La vita stessa come valore, oggi, è rilanciata dalla
grande ondata di riflessioni che si muove sulla linea
della cosiddetta “qualità” laddove in nome della medesima,
la linea opposta, quella della “sacralità”, ritiene,
invece, che venga continuamente offesa ed uccisa nella sua
dignità. In questa e in altre presunte contraddizioni il
valore della vita viene risucchiato e maltrattato,
sbocciato da un punto all’altro delle costellazioni
interpretative come una pallina di biliardo. Le
contrapposizioni indeboliscono la cura che alla vita è
dovuta, soprattutto allorquando esse sono annose e
pretestuose.
E per
questo è perfettamente auspicabile che negli anni a venire
gli uomini, i filosofi, i teologi e gli intellettuali in
genere si impegnino ad affrontare certe problematiche che
rientrano nell’alveo della, ormai, famosa e, per certi
versi, famigerata riflessione bioetica. E, appunto, sotto
la spinta di questo auspicio il presente contributo compie
i primi passi.
In
esso ci siamo prefissati di procedere per tappe ben
precise concatenate tra loro al fine di raggiungere una
serie di obiettivi altrettanto precisa: mostrare come il
prendersi cura della vita scaturisce dall’esigenza
stessa del valore vita; come tale sollecitudine deve
difendere a spada tratta la vita e, al contempo, creare
quelle condizioni socio-culturali per riabilitare
l’esperienza della morte nell’esperienza della vita;
come, inoltre, nella riflessione sull’etica della cura
della vita deve rientrare a pieno titolo in modo consono
il discorso teologico, soprattutto se pensiamo alla
salutare chiarezza di cui necessita il nostro paese nel
quale sono una realtà di fatto i miriadi di dibattiti
mediatici ed accademici appesantiti quasi inevitabilmente
da una bipolarizzazione tra cattolici e laici in seno alle
soluzioni morali, con la conseguente assenza di
riflessioni distese e intente a ricercare la verità.
In altre parole e in maniera più analitica l’obiettivo è quello di focalizzare
per bene l’argomentazione unica che sta a fondamento
del significato valoriale della vita e dell’esigenza
che nasce da esso, dimostrando la falsità di alcune
altre argomentazioni molto spesso addotte, da una parte,
e giustificando, di contro, la cura che alla vita si
deve, tenendo a debita presenza i vari contesti e le
diverse prospettive con le quali si inquadra la problematica.
Il presupposto sotteso a questa riflessione etica è
il concetto di razionalità etica, quale capacità posseduta
da tutti gli uomini di leggere nella stessa realtà l’orientamento
etico da imprimere all’esistenza. Tale consapevolezza
presupposta, a sua volta, giustifica una ben precisa
configurazione teologica del discorso sul prendersi
cura della vita, mostrando come tale configurazione
non aggiunge un di più normativo a quanto già è possibile
carpire con la sola ragione, bensì reinterpreta la suddetta
razionalità etica come volontà creatrice di Dio e la
ripresenta attraverso il proprio tessuto simbolico religioso.
In questa maniera, riflettere teologicamente sull’etica
della vita non comporterà dal punto di vista normativo
un’aggiunta o un ridimensionamento, in quanto l’esigenza
stessa di una giustificazione razionale è contenuta
nella riflessione etica sopra sviluppata.
1.
La vita
1.1. Il problema della sua definizione
Non
molto tempo fa ci siamo imbattuti nella lettura
dell’introduzione ad un testo di biologia, nella quale
venivano enucleati le varie caratteristiche degli esseri
viventi. Alla fine di questo elenco, gli autori così
pressappoco concludevano: i biologi non si sono mai posti
l’interrogativo circa il significato della vita, ma
semplicemente hanno sempre osservato gli esseri viventi,
il fatto che essi esistono, si muovono, si riproducono e
si estinguono.Questa
conclusione, peraltro coerente vista la fonte dalla quale
l’abbiamo appresa, è molto indicativa ed istruttiva su una
verità evidente: ogni qualvolta l’uomo circoscrive un
oggetto per conoscerlo, lascia che sia l’oggetto stesso a
stabilire le modalità di approccio, il metodo e il
linguaggio.
L’oggetto di un testo
di biologia è sicuramente la vita, ma più precisamente
gli esseri viventi. Ma, aggiungiamo, e ne siamo convinti,
che anche un testo di storia ha come oggetto la vita,
in particolare quella dei più potenti. E così potremmo
continuare ad elencare rimanendo disorientati in un
mare come quello della vita, di tutta la vita. Ci chiediamo
come parlare della vita, quali argini stabilire per
evitare di parlare di tutto e anche di niente.
La prima difficoltà
che si incontra è quella riconducibile al fatto che
la nozione di vita è approfondita sia dall’indagine
scientifica sia da quella filosofica, la prima rivolta
ad intendere la vita come attività vitale, come nel
caso della biologia; la seconda, invece, intenta a determinare
l’ultima natura o il primo principio di essa. Le due indagini, però, non sono così divergenti
in ultima analisi se pensiamo che la definizione di
vita più antica e perfettamente accettata dalla scienza
è stata coniata da un filosofo: «Tra i corpi naturali,
poi, alcuni possiedono la vita ed altri no; chiamiamo
vita la capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di
deperire». La nozione di vita, inoltre, oltre ai problemi
di ordine ontologico-fondamentale come questi suddetti,
prospetta tutta una serie di altri problemi ove la vita
è studiata contestualizzandola nella problematica dell’uomo,
della sua esistenza e della sua storia.
A prima vista, insomma,
definire in ordine alla vita se prima facie risulta
facile a tutti in quanto chi può su di essa riflettere
è da essa stessa animato, in seconda battuta proprio,
a nostro avviso, la stessa sua evidenza e la coscienza
di essa per chi la possiede determina una pluralità
di prospettive, di visioni e di idee. Di fronte agli
interrogativi del tipo che cosa è la vita, in che cosa
consiste veramente il vivere, non c’è che rimanere sempre
nel raggio d’azione dell’approssimazione e mai della
definitività.
Traslando uno slogan
jovanottiano, ci pare che l’approssimazione delle risposte
di fronte alla vita sia dovuta al fatto che «nel momento
in cui hai trovato una definizione da dare alla vita
e al vivere, esse sono già cambiate». È il movimento
che dice molto sulla res della vita, movimento
come capacità e potenza di essere e di agire. A fronte
di questa dinamicità che contrassegna il vivere, il
linguaggio zoppica o, meglio, non può che essere consapevole
del fatto che la verbalizzazione del vivere sposta sempre
più in là l’esperienza stessa del vivere rispetto a
quanto di essa possiamo dire.
Ci sembra molto significativo
quando, leggendo alcuni frammenti del primo filosofo noto a tutti, l’elemento naturale dell’acqua
è preso in seria considerazione ma non è assunto – la
storia della filosofia ne è consapevole – solo nella
sua materialità. Cioè, l’acqua è quell’elemento le cui
proprietà sventagliano una pletora di significati, allusioni,
impressioni ed intuizioni, tutti riconducibili alla
vita. Nell’osservazione del macrocosmo il filosofo ha
cercato il principio primo, costruendo impalcature ilozoisticheche hanno fatto da ponte per tutta la grecità.
Ma, scorgendo un microcosmo dentro il macrocosmo, Socrate ha dato il via ad un’osservazione introspettiva
che ha oscillato per tutta la vicenda parabolica dell’occidente
tra il meccanicismo, che ostenta una concezione della vita come
autonoma, ed il volontarismo, che ostenta una concezione della vita come
affermazione di se stessa.
La vita, pertanto,
appare sempre la stessa e sempre diversa. Non pensiamo
di sbagliare se ci limitassimo a dire che essa è capacità
o proprietà fondamentale. O se dicessimo che essa è
un fenomeno, ovvero dato certo, ovvio e incontrovertibile.
Oppure che essa è significato e senso, anche se non
del tutto afferrabili. Proprio perché non si è in grado di dire
tutto della vita, essa rimane un mistero da esplorare,
o meglio, da contemplare. E la sua contemplazione non è staticità,
ma presa sempre più di coscienza della necessità di
cogliere la sua fondamentalità, e per questo di proteggerla,
di custodirla e di promuoverla, perché intuitivamente
è ragionevole l’assunto secondo il quale «è preferibile
vivere che non vivere». La sua fondamentalità, il suo possesso
da parte di tutti e le difficoltà di parlarne a pieno
si traducono sempre nella grande possibilità di narrare
più che descrivere la vita. Filosofeggiare sulla
vita è un approccio, e lo abbiamo visto, ma narrare
è una grande possibilità, quella di trasformare il limite
del linguaggio in forza evocativa e chiarificatrice
di concetti intuiti e in via di elaborazione. Narrare la vita è chiarire meglio quello
che già tutti vivono o hanno vissuto o vivranno.
Pensiamo, per esempio,
alla vita narrata nella forma del sublime romanticocome l’avventura in un mare in tempesta o
sotto una notte stellata, come la consapevolezza che
c’è al di là di ciò che vedono la ragione e i sensi
un mondo infinitamente più vasto e più vero. Oppure
alla vita come arte che diventa lo specchio della personalità
riflessa nelle pagine di sfogo, di effusione e di confessione
di miriadi di diari autobiografici. O, ancora, ai personaggi
di Victor Hugo, divisi tra il bene e il male, viventi
nel contrasto e nel dramma di quel movimento vibrante
date dalle linee e dalle ombre della sua Notre Dame.
Ma questo è solo un assaggio quando si narra la vita!
Essa, a volte, è stata
vissuta fuggendo nei paradisi artificiali beaudelaireani
o in un passato à la
Recherche du temps perdu
proustiano. Altre volte essa si è identificata con il
male da evitare, ricordando Pavese, o come continuo
esercizio di esorcizzazione pascoliana del suo precario
svolgersi o, altresì, come un dovere kafkiano schiacciante.
La vita, altre volte, si è rifugiata nei sogni e/o negli
incubi, sdoppiandosi nella figura del dr. Jekill e del
sig. Hyde oppure si è identificata ora nel decoro e
nella moderazione di Elinor, ora nella passione e nell’ardore
intellettuale di Marianne.
Altre sfumature la vita
acquista se l’attenzione si sposta su chi la vita la
vive. Pensiamo alla vita vista dagli occhi di un adolescente,
come il Torless musiliano o il Werther goethiano, entrambi
accomunati da turbamenti e dolori; o la vita vista dagli
occhi di una donna volta alla ricerca dell’autonomia,
costretta a districarsi in una condizione matrimoniale
subita, come i personaggi di George Eliot e Simon de
Beauvoir. Per non parlare di quel fondo melmoso e insondabile
dell’animo dei personaggi dostoevskijani, caratterizzati,
tutti, da ambivalenza ed ambiguità, tormentati dai dubbi,
dalle idee e dai sentimenti; o di quella metamorfosi
spirituale dell’Ivan Ilic tolstojano di fronte alla
morte; o, ancora, della vita imbrigliata dalla logica
della roba di mastro don Gesualdo, e così via. Potremmo,
veramente, continuare all’infinito a focalizzare quell’aspetto
o quell’altro ancora, uno diverso dall’altro, ora la
gioia, ora l’amore, ora il dolore, ora la morte, ma
sempre avremo narrato la vita e chi la vive.
La vita approcciata
filosoficamente o scientificamente non risulta così
evidente nelle sue caratteristiche più profonde come
lo risulta se essa viene narrata, e la motivazione ultima
di ciò sta nel fatto che essa è un valore da tutti posseduto,
e in quanto tale da tutti intuito ma non completamente
verbalizzato. Il valore vita, in quanto valore, supera
le capacità espressive dell’uomo e si presta ad una
ripresentazione particolare sempre più approfondita
e mai del tutto esauriente la sua realtà. Narrare la
vita è, dunque, accogliere la vita con i suoi innumerevoli
particolari, superando di gran lunga il tentativo solo
di descriverla. Narrare è accogliere ed accogliere è
vivere. “Vivere la vita”, a nostro avviso, è l’espressione
più esplicita sulla vita, quella che nel glossario dei
termini retorici corrisponde alla figura etimologica,
secondo cui nello stesso enunciato vi è l’uso di due
parole aventi la stessa radice, come a dire che non
si può che vivere la vita e non si può comprendere
la vita se non vivendola.
1.2. Il contesto
culturale odierno
Benché tutto ciò sia
più che plausibile, a chi si prefigge di riflettere
in maniera più ampia possibile sulla vita non si può
negare la possibilità, oltre che di
narrare, anche di contestualizzare il fenomeno
della vita nel tempo attuale. E’ fuor di dubbio che
la vita nel contesto culturale odierno è fortemente
caratterizzata da un individualismo esasperante e dalla
mancata percezione della predatità e preesistenza di
un piano dei valori.
Dal
punto di vista storico-sociale
il secolo appena trascorso ha vissuto varie rivoluzioni
di natura economica, sociale, culturale e politica che
hanno, tutte, provocato una crisi delle credenze e dei
presupposti sui quali la società moderna si era fondata,
ossia una crisi dei presupposti umanistici e razionalistici
condivisi sia dal capitalismo sia dal comunismo. Tutti gli eventi, il declino inesorabile
della classe contadina, il tracollo della classe operaia,
il movimento emancipatore delle donne e il movimento
universitario, hanno come comune denominatore la perdita
di un modo di vivere la vita più comunitario e solidale.
La stessa istituzione familiare viene minata da fattori
molteplici: divorzi, nascite fuori dal matrimonio, nuclei
familiari con un solo genitore, tutti fattori riconducibili
ai mutamenti notevoli circa i modelli pubblici che regolavano
la condotta sessuale, il rapporto di coppia, la procreazione. Questi cambiamenti aprono la strada ad
una adesione pubblica a ciò che fino ad allora era stato
proibito, e tutto ciò si riconduce al crollo del controllo
sociale. A partire già dagli anni ’70 le rivoluzioni
sono avvenute sotto la bandiera del trionfo dell’individuo
sulla società. Dice bene Hobsbawn quando afferma: «non
c’era più una comunità che potesse prendersi cura di
loro». Proprio questo venire meno della responsabilità
di ognuno di prendersi cura dell’altro,
della vita dell’altro, è il punto centrale di quello
che vogliamo evidenziare. E non c’è terreno di constatazione
migliore di questa poca responsabilità nei confronti
della vita che lo
scenario tremendo ed affascinante allargato a
dismisura dai passi compiuti dalla scienza medica. Oggi,
leghiamo al termine genetica la parola ingegneria senza
sognare alchimie mai realizzabili, ma di realtà quotidiana.
Gli sviluppi della genetica e della tecnica, infatti,
hanno migliorato l’agricoltura e l’allevamento, hanno
allargato gli orizzonti della farmacologia, ma, soprattutto,
hanno aperto un ampio e complesso, a volte drammatico,
dibattito circa i limiti e la liceità di una serie di
interventi resi possibili dalla scienza. Oggi si parla di biotecnologie, di biodiritto
e di bioetica. Proprio la bioetica è diventata il terreno
comune nel quale si incontrano e si scontrano le diverse
matrici culturali sulla vita del nostro tempo nel momento in cui affronta
i problemi che derivano dalla generazione della vita
nelle varie forme di procreazione assistita o quelli
che investono le possibilità di riproduzione della vita
come nella clonazione.
Da qui
il disagio e l’inquietudine in un contesto di trionfi
scientifici, il desiderio di maternità in un mondo dove
milioni di bambini muoiono di fame o vengono uccisi
prima di vedere la luce, la volontà di istituire a tutti
i costi una famiglia anche senza i presupposti offerti
dall’eterosessualità in una mentalità divorzista. Tutto
questo è spia di un modo di concepire la vita e anche
di viverla solo individualisticamente. La disintegrazione
dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali,
da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni,
fenomeno questo caratterizzante il nostro tempo, è il
risultato a cui i vari avvenimenti del secolo XX abbia
apportato, e che costituisce la causa genetica
di un cambiamento radicale del pensiero e della prassi
riguardanti la vita sociale e personale. Il mutare dei
tempi identificato, nella fattispecie, con il crollo
del controllo sociale e con il trionfo dell’individualismo
non sono, però, le uniche cause.
Dal
punto di vista filosofico-pratico per i più il nostro
tempo è caratterizzato dalla necessità di continue
interpretazioni della realtà, per il fatto che essa
è complessa e poco gestibile da una ragione onnicomprensiva. Questa complessità porterebbe all’evidenza
di una frammentarietà, riflesso del fronte antimetafisico,
le cui matrici intellettuali sono riconducibili alle
figure di Nietzsche e Heidegger. Nel tempo attuale, dunque, risulta pacifico
che la metafisica è stata superata e che ricercare un
principio primo regolatore del nostro vivere sia assolutamente
fuori luogo, addirittura non scientifico né filosofico,
ma solo religioso. Ciò che è venuta meno è la capacità
teoretica di cogliere dei principi che possono rendere
meno problematica l’esistenza. L’ermeneutica nella forma
di quello che oggi viene indicato con l’espressione
“pensiero debole”, la negazione delle visioni onnicomprensive
e il nichilismo sono le più significative decostruzioni
all’interno dello scenario filosofico attuale. Le ripercussioni
sul modo di concepire la vita non sono indifferenti
perché la ragione è stata privata della capacità di
percepire e fondare domande di senso e di valore ed
è stata conseguentemente imprigionata nella cella della
strumentalità e della calcolabilità. In tal modo la
vita e la verità di essa, mi sembra vengano assolutamente
eluse da un pensiero che dice che c’è solo il nulla,
e nient’altro. Un pensiero che non riesce a formulare
domande di senso sulla vita, sull’esistenza è quello
che non ascolta la realtà stessa e procura danni incalcolabili.
Questi sono più evidenti se dalla liquidazione del problema
Dio e della fondazione razionale della verità si passa
alla debolezza o leggerezza che il problema morale oggi
sta acquisendo.
Infatti, la decostruzione
filosofica di cui abbiamo detto non si arresta solo
nell’alveo della teoreticità. L’impossibilità della
ragione di raggiungere la verità, di non oltrepassare
i limiti della finitudine e di rimanere vittima della
sua stessa debolezza, si traduce, in pratica, nell’esistenza
retta da un consenso sempre provvisorio e revocabile
secondo come le situazioni si presentano. L’indebolimento della ragione è in seno
alla problematica morale la causa del relativismo imperante
della nostra società, vale a dire l’impossibilità di
conoscere e di affermare i valori.
È
innegabile quanto questo sia vero! Quanto i filosofi hanno
detto, tanto il modo di percepire eticamente ha subìto,
plasmando modi di fare e mentalità. A causa
dell’indebolimento della ragione e dell’avanzamento dello
scetticismo in ogni campo è rimasto spazio solo
all’autoaffermazione del soggetto nel suo solitario mondo
di significati convenzionali e consensuali, e ciò in campo
etico si è tradotto in un soggettivismo dei valori morali
nella vita della gente, causa, a sua volta, di tensioni e
di smarrimenti tra libertà individuali.
Il
terreno di scontro della percezione di valori diversi
è naturalmente la vita umana nella sua integralità,
dai primi stadi dello zigote agli ultimi istanti del
malato terminale. Ecco perché il campo della bioetica
diventa, oggi, il tavolo di laboratorio, dove vengono
monitorate le convinzioni morali dei singoli. Oggi si
vive e si intende in modo individualistico l’autonomia,
in modo relativistico la qualità della vita, la tolleranza
e il pluralismo. In altre parole, l’uomo, oggi, dà alla
sua vita degli orientamenti che nascono e muoiono all’interno
di scelte individualistiche opponendosi anche aggressivamente
ad ogni ordine naturale o di fede, in nome della libertà.
L’idea di ordine morale oggettivo è causa di allergie
collettive e di malesseri o di riso. Il singolo uomo
sceglie solo per conto proprio ciò che ritiene più conforme
al proprio bene, bene che attiene al vivere e al morire.
Questo individualismo è solo capace di leggere il
fenomeno morale come insieme di tradizioni culturali,
sociali, di uso e costumi e di codici socio-culturali
e non come regno ideale dei valori. Inoltre il fatto che si pensi che il fenomeno
morale sia solo oggetto possibile di una descrizione
esclude in partenza un modo di porsi analitico sull’ethos
vigente.
Questo
attuale intendimento del fenomeno morale è, a nostro
avviso, il terreno di approdo di quella parabola
novecentesca che presenta un repentino susseguirsi di
disintegrazioni dei vecchi modelli delle relazioni umane e
sociali, di scoperte sconvolgenti nel campo della scienza
e della tecnica e di decostruzioni filosofiche. Se questi
fenomeni di disintegrazione, scoperte nuove e
decostruzioni sono le cause genetiche di un cambiamento
radicale del pensiero e della prassi riguardanti la vita
sociale e personale dell’odierno contesto culturale, il
fenomeno morale attuale, inteso solo come ethos
socio-culturale, è l’osservatorio privilegiato per
individuare il quid qualificante tutta la cultura
contemporanea, ossia la non più percezione della
dimensione valutativa che orienti e innervi le scelte
della vita, di una vita.
2.
Il valore vita
Contrariamente a quanto oggi si pensa, è fondamentale
nell’uomo la capacità di sentire i valori, di comprendere
il fatto che tutto ciò che nel mondo gli riguarda appare
riferito ai valori. E la forma in cui appare questa
relazione è la sua posizione nei confronti della realtà
che lo circonda sia in termini di sentimento sia in
termini di parola e/o di azione.
Ma,
l’uomo non è solo capace di percepirli bensì anche di
percepirli nella loro distinguibilità. Percepire i valori
senza saperli distinguere l’uno dall’altro in termini di
fondamentalità o di importanza significherebbe non
riuscire mai a trovare la soluzione alla legittima
domanda: “che fare”?
Stando
alla discriminante tra il valore morale e i valori non
morali, quale è la volontà della persona umana, e alla classica distinzione dell’uno dagli
altri, la vita non può essere il valore morale,
cioè ciò verso cui tendere sempre, comunque e dovunque
con la volontà. Se la vita fosse il valore morale, quindi
il valore sempre da preferire in ogni circostanza, ovvero
se fosse il valore più alto tra i valori non potremmo
annoverare il martirio come un’azione morale. Ci chiediamo
come sarebbe stato possibile nell’ottica della fede
contemplare la volontà di farsi uccidere in nome di
Dio, se Dio stesso, bontà infinita, fosse contrario
a tutto ciò. Il martirio non risulterebbe l’unica azione
incomprensibile. Anche le cosiddette eccezioni alla
sacralità della vita, come uccisione per legittima difesa,
pena di morte, guerra giusta e rischio per la proprio
incolumità, non potrebbero trovare alcuna giustificazione
fuori dalla considerazione secondo la quale la vita
non è un valore morale. Dire che la vita non è un valore
morale significa che essa non è un valore assoluto,
pur rimanendo un valore. È proprio tra i valori non
morali che la vita deve essere ben compresa. Mentre
essa non è il più alto valore in relazione al valore
morale, è certamente il valore più fondamentale in relazione
ai valori non morali. In etica, allora, la vita deve
essere custodita, preservata, difesa in quanto valore
non morale il più fondamentale. Questo significa che
negli svariati e complessi contesti normativi il valore
vita se entra in concorrenza con altri valori non morali
deve essere sempre preferita, cioè deve avere la precedenza
su tutti gli altri. Valore fondamentale più di tutti
gli altri significa che se non si agisce per preservare
la vita dai pericoli, abusi, soprusi e quant’altro si
mette a repentaglio la realizzazione di tutti gli altri
valori non morali ed anche del valore morale. Senza,
infatti, vita non è possibile realizzare nessun altro
valore e poiché l’uomo ha il diritto-dovere di realizzarsi
come soggetto morale, a lui bisogna sempre dare questa
grande possibilità. Oltraggiare la vita, peccare contro
di essa, misconoscere il suo valore, significa proprio
privare l’uomo della sua stessa realizzazione.
Questo
rapporto di fondamentalità che il valore vita deve
assumere nel quadro valoriale di riferimento deve
orientare tutti i dibattiti nei quali la vita come valore
è direttamente coinvolta, senza avere la necessità di
trincerarsi dietro vessilli e manifesti che dicono poco o
niente sul corretto modo di argomentare in etica e si
limitano solo ad affermare.
Percepire la fondamentalità del valore vita in rapporto a
tutti gli altri beni e la sua non assolutezza visto il
valore morale della bontà della persona aiuta a rileggere
il rapporto tra concezione sacrale della vita e concezione
qualitativa della vita, oggi spesso considerate come
alternative e inconciliabili. Le argomentazioni che
portano a promuovere la qualità della vita non si
scontrano con quelle che pretendono di fondarne la
sacralità, se consideriamo le due categorie,
qualità-sacralità, come punti di vista diversi che possono
perfettamente integrarsi reciprocamente. I due punti di
vista o le due categorie, insieme, focalizzano, alla luce
della fondamentalità del valore vita, il rapporto della
vita con tutti gli altri beni e la caratteristica di
fondamentalità di cui il valore vita gode. La qualità, in
altre parole, fa riferimento al rapporto del valore vita
con tutti gli altri valori non morali, i quali dovrebbero
arricchirla e, pertanto, renderla veramente degna di
essere vissuta al fine di realizzare anche il valore
morale; la santità, invece, mette l’accento sulla
fondamentalità del valore vita rispetto a tutti gli altri
beni. La caratteristica di fondamentalità e il suo
inevitabile rapporto con i valori non morali e con il
valore morale non sono assolutamente separabili. Finché
distinguiamo il processo che porta ad affermare la qualità
della vita da quello che porta ad affermarne la sacralità
non stiamo facendo altro che riflettere scientificamente
sui due aspetti del valore vita: il suo rapporto con gli
altri beni e la sua fondamentalità. Oggi i due processi,
l’uno che porta all’affermazione della “santità”, l’altro
alla “qualità”, non possono che essere inconciliabili
visto che se il primo può essere ricondotto alla figura
argomentativa di tipo deontologico, quindi avente come
fine ultimo quello di formulare una norma, il secondo è
riconducibile ad un modo di procedere relativistico,
perché viene esclusa ogni forma di rimando ad un ordine
morale oggettivo, quindi non viene realizzato in nome
della qualità lo stesso valore vita e lo stesso valore
morale. Allora, il procedere alternativo, santità o
qualità, risulta, alla luce della percezione del rapporto
di fondamentalità del valore vita con tutti gli altri
valori non morali, relativistico. Ma, il procedere
alternativo di tipo relativistico si insinua sempre anche
in altri ambiti della vita personale e sociale allorché
non è chiara la fondamentalità del valore vita e la sua,
al contempo, non assolutezza. Per fare degli esempi basta
riprendere qualche caratteristica del tempo attuale sopra
menzionata. Quante volte, infatti, la libertà è
contrapposta alla vita nel contesto di un’interruzione
volontaria della gravidanza? Quante volte la propria
realizzazione viene fatta contrastare con l’istanza
morale? Quante volte l’antropocentrismo etico è scambiato
per individualismo? Quante volte, ancora, la tolleranza è
scambiata e confusa con il relativismo etico?
3.
Esigenza del valore vita: “care”
Percepire la fondamentalità della vita è un po’ dire
diversamente quanto è contenuto sinteticamente nell’affermazione:
«è meglio vivere che non vivere». E’ preferibile vivere
perché in esso trasborda un senso, ciò per cui non comprendiamo
chi decide di suicidarsi, ciò per cui vale sempre la
pena sobbarcarsi di fatiche e di delusioni, di sconfitte
e di dolori. La fondamentalità della vita, diremmo,
è il suo senso, che non si limita nella misura di conquiste
materiali, ma nella dedizione a ciò che si intuisce
essere buono, giusto, meritevole. La sua fondamentalità
che concilia sacralità e qualità è ciò che indichiamo
anche con il termine dignità. La vita è degna di essere vissuta,
ha una sua dignità. La dignità è il suo valore e ciò
è la cosa più fondamentale. Il valore del vivere è dunque
radicale ed indipendente dalle stesse qualità materiali
del vivere, e questo lo diciamo per evitare che si fraintenda
la stessa fondamentalità. Dire che il valore vita è
il più fondamentale perché proprio se c’è vita è possibile
realizzare tutti gli altri valori non significa ritenere
il valore vita come strumentale. Significa, al contrario,
che la vita è il luogo dove i valori si inabitano, compreso
quello morale. Dice bene Cattorini:«la vita non è oggetto
che possiedo, ma realtà che sono», soprattutto realtà morale. La percezione
della dimensione valutativa, dunque, deve muovere l’uomo
ad assumere tutta la sua responsabilità nei confronti
della vita, nonché tenere sempre presente la sua dignità.
Dignità, fondamentalità, qualità e sacralità, ci sembra
dicano aspetti e assumano prospettive, tutti generati
dall’esigenza che la stessa vita richiede, quella di
prendersi cura di essa. La vita esige per il
senso che possiede in sé la predisposizione di ognuno
a prendersene cura. Il termine inglese care distinto
da cure rimarca proprio l’esigenza di prendersi
cura della vita anche là dove non è possibile più una
guarigione. La distinzione è stata molto utilizzata
per cercare attraverso la semantica una identità ben
precisa delle cure palliative, e pensiamo che ancora
c’è molto da fare perché il concetto di cure palliative
sia incisivo culturalmente. Al di là di ciò, qui interessa
rimarcare come la bioetica è tale se proprio si prende
cura della vita, e non solo di quella giunta allo stadio
terminale. È necessario allargare il concetto di
care a tutta la bioetica perché è un’esigenza della
vita, la quale è oggetto della bioetica. È interessante notare come questa esigenza
incida nel tempo e nello spazio prima ancora che la
vita nasca o dopo che essa si sia spenta. Pensiamo a
tutto ciò che precede l’attesa dell’evento di una nascita
oppure a ciò che segue l’ultimo respiro. È necessario farsi carico di questa esigenza
che ha mille sfaccettature, ora della tutela, ora dell’aiuto,
ora della riconoscenza, ora della promozione, ora dell’accoglienza,
ora del rispetto, ora dell’attestazione. Ognuna di esse
potrebbe essere così approfondita da portare in luce
molti elementi di questa esigenza. Ma, tutte sono accomunate
dal criterio unico che costituisce l’avvio per ogni
riflessione etica in campo normativo ovvero l’approccio
imparziale alla realtà. Il care fondamentalmente
se vuole essere eticamente indirizzato e dimensionato
non può che armarsi di imparzialità. Nel care
assumere il punto di vista della morale non significa
assumere un qualsiasi punto di vista, ora identificabile
con un’idea ora con un’opinione ora con una concezione
particolare, ora con una filosofia di vita o con un
credo religioso. Se fosse così, un punto di vista varrebbe
allo stesso modo di un altro punto di vista e il soggetto
che decide di assumerne uno rispetto agli altri per
leggere la complessa realtà non potrebbe dire ad un
altro soggetto che il suo punto di vista è più giusto.
Il punto di vista della morale che deve rivestire
il care è un criterio non identificabile con
questa o con quell’altra idea, con questo credo o con
quest’altro. Esso come imparzialità non è identificabile
a niente se non a se stesso, e dunque per nulla scalfibile
da una pretesa soggettiva assoluta suscettibile a prestarsi
facilmente ad una confronto paritetico con un’altra
pretesa soggettiva assoluta. Semplicemente, l’imparzialità
non è stabilita dal soggetto, ma si presenta per quella
che è. Allora, solo nell’imparzialità è possibile promuovere
un’attenzione alla vita in tutte le sue potenzialità;
solo nell’imparzialità è possibile un’autentica accoglienza
della vita; solo nell’imparzialità è possibile realizzare
una tutela alla vita, soprattutto a quella più debole;
solo nell’imparzialità il rispetto della vita e il suo
riconoscimento risultano credibili.
L’imparzialità nel “prendersi cura della vita” fa emergere
la necessità sempre di agire in maniera tale che per
ogni azione compiuta bisogna far valere come criterio
di riflessione e giudizio non soltanto il “proprio”
interesse ma anche quello degli “altri”. La stessa vita richiede ciò perché nel
rispetto della dignità umana altrui si decide anche
della propria; ma anche la normativa ne trae vantaggio,
e cioè se si passa da una pura individualità, qual è
la parzialità, alla generalità, qual è l’imparzialità,
si ha la possibilità di fondare una norma salda. In altre parole, di fronte ad un contesto
in cui il valore vita è coinvolto bisogna seguire quel
principio che bisognerebbe accettare come regola di
comportamento per tutte le situazioni simili.
Da
quando è stata avvertita l’esigenza di prendersi cura di
tutta la vita, visto l’incombente avanzamento della
scienza e della tecnica, essa si districa tra la difesa
della vita e la libertà della morte, tra un fondamento
etico e le norme morali, tra un’etica delle virtù ed
un’etica delle norme.
4.
“Care” tra la difesa della vita e la libertà della morte
L’evidenziazione dell’esigenza che il valore vita richiede
e l’imparzialità con la quale questa esigenza deve essere
assecondata non è solo un’impostazione teorica. Il campo
della normativa deve farsene carico, diventando terreno di
constatazione della bontà di tale impostazione. Riteniamo
che prendere consapevolezza dell’unica argomentazione sul
valore vita, qual è quella sinora utilizzata, permetta di
superare alcune difficoltà date da schieramenti
preconcetti.
Un
argomento bioetico fra i più discussi è certamente il
problema se è lecito o no interrompere una gravidanza.
La discussione ormai protratta da anni ha portato gli
studiosi, ed anche la gente comune, ad interrogarsi
in ultima analisi sulle possibilità di uno statuto personale
dell’embrione umano. Si parla di statuto personale
perché il problema centrale è innanzitutto capire
se l’embrione è persona umana e in secondo luogo come
diretta conseguenza affermare tutta una serie di diritti
inalienabili che ineriscono solo alla persona. Tutte
le argomentazioni, infatti, vertono a stabilire se e
fino a che punto si possa parlare di persona umana.
Da qui l’ipotesi secondo la quale l’embrione umano sarebbe
persona sin dal concepimento o solo a partire dal quattordicesimo
giorno dalla fecondazione. Alla base di queste ipotesi l’interrogativo
centrale è il seguente: se,
dove e quando si può parlare di persona umana? È, infatti,
il concetto di persona che in ultima analisi ha polarizzato
tutte le ipotesi e ha guidato tutte le argomentazioni. È risultato così centrale questo concetto
che ad esso si lega la dignità umana e i diritti inalienabili
che ne seguono. Alcuni autori di matrice anglosassone hanno ipotizzato la possibilità addirittura
che vi siano alcuni umani non persone e alcuni non umani
persone, tale per cui il concetto di persona, e solo
questo, richiede all’altro il rispetto e il riconoscimento.
Avremo così uomini verso i quali a nessuno è richiesto
il loro riconoscimento e il rispetto dovuti ed animali
per i quali, invece, tale riconoscimento e tale rispetto
sono richiesti.
A
noi sembra che il concetto di persona più che risolvere
abbia complicato e fuorviato il discorso etico da svolgere
sulla vita nascente. Il concetto di persona è di matrice prima
teologica e poi filosofica, però gli elementi dai quali
spesso si adduce per confermarlo sono di matrice biologica.
Questo dato, a nostro avviso, dice già molto della verità
che il concetto di persona cela. Inoltre, dietro alla
parola persona i concetti sono innumerevoli. Pensiamo
alla concezione di persona che proprio quegli autori
di matrice anglosassone hanno, concezione cerebrale,
se così si può dire, visto che persona è colui che è
capace di intendere e di volere e, pertanto, capace
di stipulare in forza di queste capacità un contratto
con gli altri membri della comunità morale, e alla concezione,
diametralmente opposta, di matrice personalista.
Il
care – indichiamo ormai così tutto quello che abbiamo
detto sulla vita come valore non morale il più
fondamentale – che luce apporta in questo contesto
bioetico? Io penso che sia di grande aiuto perché mina
alla radice tutte le ipotesi che si legano anche con un
filo sottile a qualsiasi concetto che il termine persona
cela. Anzi, per di più fa palesare l’ambiguità del
concetto di persona, la sua insufficienza a difendere la
vita umana dagli approcci parziali ad essa. Il care
ci permette di sostenere che la vita umana non può
dipendere da alcuna concezione che di essa si ha, ma per
il fatto che essa è il luogo dove tutti gli altri valori
possono realizzarsi, non può non essere difesa, promossa,
sostenuta, aiutata, accolta, rispettata, accettata,
tutelata. E non c’è niente che possa dimostrare che esiste
uno stadio di pre-embrione o in cui la vita umana non sia
umana. Proprio in questo anche la biologia lo sostiene, ma
anche se non fosse in grado di sostenerlo con certezza,
una seria riflessione etica che tenga conto della
dimensione valutativa oltre che descrittiva, non può che
affermare il fatto che di fronte ad un processo continuo,
articolato ed organico, come quello compreso tra il
concepimento e la nascita, l’azione corretta è quella che
non interrompe tale processo, anzi che lo agevola se è
necessario perché ad ognuno come a noi bisogna dare la
possibilità di realizzarsi. Pensare così per ogni embrione
come se pensassimo a noi è proprio a partire da un
approccio imparziale e pensare di ragionare in questo modo
per tutte le situazioni simili con gli stessi elementi
moralmente rilevanti significa specificare ulteriormente
nel criterio dell’universalizzabilità quello
dell’imparzialità. Non si può, cioè, prendersi cura di una
vita nascente e non di un'altra, non si può volere un
bambino a tutti i costi e al contempo sperimentare sugli
embrioni, non si può, allargando il nostro orizzonte
contestuale, fare battaglie sociali per estirpare la pena
di morte e, al contempo, per la libertà della donna ad
abortire.
Assumere il care, allora, significa iniziare a
pensare eticamente senza pregiudizi concettuali, senza
schieramenti filosofici, senza manifesti ideologici.
Assumere il care nel contesto dell’interruzione
volontaria della gravidanza significa in ultima analisi
rivestirsi della virtù della prudenza. Essere prudenti di
fronte al processo prenatale significa essere imparziali e
che persona sia una realtà immediata o ritardata non fa
assolutamente nessuna differenza. La differenza sta solo
in etica nell’essere parziali o imparziali, prudenti o
avventati.
Se
l’interruzione volontaria della gravidanza pone degli
interrogativi non appena ci si affaccia alla vita,
l’eutanasia mostra come l’interrogativo etico accompagna
tutta la vita dell’uomo sino agli ultimi istanti. Il
contesto eutanasico nella riflessione bioetica necessita,
ci sembra, più di quello sopra discusso, una previa
chiarificazione concettuale, altrimenti rischiamo
nell’applicare il care fraintendimenti e confusioni
con l’impostazione della inviolabilità della vita a tutti
i costi.
Etimologicamente il termine fa riferimento alla
possibilità di vivere una morte connotata dall’assenza di
insopportabile sofferenza e dolore. In parole povere,
l’eutanasia prima facie vuol dire “dolce morte” e
designa l’esperienza universale, quella della morte, che
aspira a realizzarsi nel migliore dei modi. È il sogno
dell’uomo quello di vivere beatamente e quindi anche di
morire senza molta sofferenza. Stando a questo
significato, noi ci chiediamo: chi non vorrebbe fare
l’esperienza eutanasica?
Il
linguaggio, però, come ogni manifestazione dello spirito
umano, è suscettibile di cambiamenti, adattamenti,
torsioni, ridimensionamenti. Il linguaggio umano, cioè, si
nutre anche della realtà e ad essa si coestende. Quello
che vogliamo dire è che la dolce morte, così designata da
Francis Bacon, filosofo inglese, che colse a pieno
l’esperienza da sempre nel cuore dell’uomo, negli ultimi
tempi ha smesso di significare solamente questo. Lo
sviluppo della medicina, della biologia e della tecnica e
il loro sempre continuo e stretto rapportarsi, hanno
modificato radicalmente l’idea dei limiti dell’uomo sul
creato e su se stesso. L’eutanasia non poteva rimanere
fuori da questo vortice e se prima era la semplice ed
anche legittima aspirazione di ogni uomo, attualmente è
una pretesa da parte dell’uomo, anche il più sprovveduto,
e un laboratorio di applicazione per medici che non si
rassegnano all’impotenza della loro scienza di fronte
all’incalzare della morte. Oggi, e non ieri, dire
eutanasia significa anche abbreviazione della vita come
effetto secondario della somministrazione di analgesici,
astensione dalle cure, azione deliberata per porre fine
alla vita di una persona. Per non parlare di tutta una
serie di distinzioni, quali l’eutanasia eugenetica,
solidaristica, diretta, indiretta, passiva, attiva, ecc..
. In questo contesto di intendimenti molteplici, chiariamo
che con il termine eutanasia intendiamo l’azione
compiuta deliberatamente al fine di togliere la vita ad
una persona su richiesta esplicita o presunta o per
compassione nei riguardi di chi si trova in una penosa
condizione terminale. L’eutanasia così intesa investe
molto evidentemente il divieto di “non uccidere” o,
voltando la medaglia, “la difesa ad oltranza della vita”.
Ora,
se dichiarassimo l’eutanasia illecita perché il valore
vita è sempre da difendere, non saremmo più coerenti con
quello che finora abbiamo sostenuto. Inoltre, la difesa ad
oltranza della vita mistificherebbe il care
trasformandolo in accanimento terapeutico.
Ma,
ancora, se dichiarassimo l’eutanasia illecita perché lede
la dignità dell’uomo in quanto persona, cadremmo nella
rete di quell’ambiguità che il termine persona trascina
con sé e dovremmo, così, spiegare quando come e perché un
malato afflitto da gravi dolori è sempre persona e, poi,
in che senso, per es., è persona un uomo in stato
vegetativo persistente. Il concetto di persona, si è già
detto, non è idoneo a risolvere casi concreti nei quali,
invece, sono le conseguenze a fare le differenze,
conseguenze sempre riconducibili alla capacità che esse
hanno di manifestare imparzialità e universalizzabilità
Il
care ancora una volta ci può aiutare a districarci
nel caso concreto. Il care scaturendo dall’esigenza
del valore vita inteso nella sua fondamentalità non
può che cozzare con i due presupposti sui quali si regge
l’argomentazione a favore dell’eutanasia. Il primo è
la considerazione che il desiderio di morire espresso
da un moribondo è assolutamente libero; il secondo è
la convinzione che l’eutanasia sia l’aiuto unico e reale
al moribondo. Riguardo al primo, il care mostra
la sua forza prudenziale, in quanto un’azione quale
quella di togliere la vita non può mai essere azzardata.
Come nessuno conosce il mistero che avvolge il tempo
della fecondazione, nonostante la biologia osservi tutto
quello che avviene, così nessuno conosce il tempo che
un uomo vive di fronte alla morte. Quest’ultima dovrebbe
essere recuperata dalla vita e non da questa disattesa.
Ma la prudenza se è l’aspetto unico del care
nel contesto dell’aborto, nell’eutanasia ad esso se
ne aggiungono altri: care come riconoscimento
dei limiti a tutti i livelli; come accettazione di tutta
la vita compresa la morte; come accompagnamento. Se
il primo aspetto inquadra la problematica dell’accanimento
terapeutico e ne presagisce già un giudizio etico e
il secondo invita ad inquadrare la vera dolce morte
non nell’assenza di dolore e nella rimozione della morte
bensì nella libertà di vivere ancora la vita morendo,
il terzo aspetto prospetta il grande movimento di umanizzazione
della medicina nella fattispecie delle cure palliative. Proprio le cure palliative come una zumata
focalizzano il cuore del care, che dice che non
esistono persone da non poter curare, anche tra quelle
che sono inguaribili. Questa sollecitudine alla cura
se è valida per i malati terminali, è anche valida per
tutti, bambini, adolescenti, adulti ed anziani, per
i deboli, per i poveri di ogni povertà. La cura,
il care, è vera se è imparziale ed universalizzabile
e la filosofia delle cure palliative mostra la genuinità
di ciò perché contempla proprio quelli che la società
ritiene essere spacciati.
Ricapitolando, l’eutanasia è un approccio parziale perché
mostra che non vi sia altra via per prendersi cura di un
malato che quella dell’uccisione e che non dice la verità
sulla richiesta di morire da parte del moribondo,
contraddicendo molto superficialmente la stessa prassi
clinica che securizza sul fatto che il desiderio di morire
è solamente una velata richiesta di aiuto. Sia
l’accanimento terapeutico sia l’eutanasia tentano un
rinvio dell’incontro con la morte, ma non tengono conto
che essa fa parte della vita perché solo i vivi possono
morire. Sarebbe necessario un progetto di aiuto globale
all’uomo che investe la sua esistenza dalla nascita alla
morte, e il care a questo vuole tendere. Le cure
palliative come accompagnamento alla morte, frutto di una
sinergia che si potrebbe realizzare tra medico, paziente,
parenti e società sarebbero la prova della lungimiranza e
della forza del care. L’eutanasia rivisitata dal
care non è la richiesta di morte come decisione
libera, ponderata e razionale ma quella che mantiene viva
la possibilità di lasciar vivere la morte, chiaramente
contemplando i dovuti controlli di sedazione del dolore.
Abbiamo voluto prendere in considerazione due contesti
bioetici capitali, quello dell’inizio della vita e quello
della sua fine, consapevole del fatto che avremmo anche
toccato dei fili che stanno nel mezzo, come l’accanimento
terapeutico e le cure palliative, trattando buona parte
della problematica bioetica. Siamo consapevoli altresì che
non c’è esaustività in queste pagine, ma il nostro intento
era solo quello di esemplificare in contesti normativi la
forza che il care, a nostro avviso, possiede. Esso
assumendo ora l’aspetto della prudenza, ora
dell’accettazione di tutta la vita, ora del riconoscimento
dei limiti, ora dell’accompagnamento del malato, ci può
senz’altro aiutare a districarci nelle varie situazioni, a
non soprattutto assolutizzare valori che non sono per
niente assoluti, a considerare le conseguenze di ogni
azione e ad assumere come criteri e punti di avvio sempre
l’imparzialità e l’universalizzabilità. Lo ripetiamo, la
differenza in etica non sta nell’accentuare la qualità a
discapito della sacralità o viceversa o nello scegliere un
ben preciso concetto di persona da attribuire ad un essere
vivente o nell’essere cattolici o laici. La differenza sta
semplicemente nell’essere parziali o imparziali e nel
considerare un giudizio vero per una singola situazione
sempre vero comunque dovunque e per chiunque in un’altra
situazione simile.
5.
“Care” tra fondamento etico e norma morale
L’argomentazione della fondamentalità del valore vita
permette di conciliare qualità e sacralità come due
prospettive che dicono ora il rapporto che il valore vita
deve avere con tutti gli altri valori, ora la sua
fondamentalità nei confronti di essi, e che questo binomio
dice in fondo la dignità della vita, una dignità prima
intuita e poi compresa, dignità che comporta
riconoscimento reciproco, appello, promozione, aiuto,
tutela. Tutto questo esige che della vita se ne debba
prendere cura con un progetto che non lasci nessuna
categoria fuori, dai piccoli agli anziani, dai malati ai
disadattati, dai deboli ai più deboli.
Tutto
ciò, però, nel dibattito bioetico contemporaneo non
si evince nel momento in cui, da una parte, si sente
l’esigenza di volere a tutti i costi una tematizzazione
della nozione stessa della vita umana, come se qualsiasi
oltraggio ad essa potesse
essere giustificato lì dove non c’è proprio chiarezza
che si tratti di vita umana; dall’altra, nel momento
in cui si rimpolpa la nozione di dignità o con l’idea
di qualità o con l’idea di santità oppure, addirittura,
con un “oltre” le due idee. Così facendo, invece di valutare un’azione
con i criteri di imparzialità ed universalizzabilità,
come si richiede in un autentico care, si valuta
un’azione corretta o scorretta in campo normativo a
partire solo dalla concordanza o discordanza con le
impostazioni di fondo di matrice filosofica, antropologica
e teologica. Portiamo alcuni esempi.
Un
primo appello alla dignità umana rivendica la santità
della vita. L’argomentazione è per lo più teologica
e così si articola: «il Dio creatore è l’unico signore
assoluto di se stesso. Di conseguenza, all’uomo spetta
soltanto il diritto di usare, ma non il diritto di disporre
in substantiam della propria vita. Chi si appropria
della sua vita usurpa i diritti di sovranità di Dio». Questo modo di argomentare ad un’attenta
analisi delle premesse e della conclusione risulta debole.
Le due premesse – sovranità di Dio e sottomissione dell’uomo
– giungono ad una conclusione diversa da esse sostanzialmente
se essa è «l’uomo non ha il diritto di disporre»? Il
fatto che l’uomo non abbia alcun diritto di disporre
della propria vita è terminologicamente espressione
diversa ma sostanzialmente identica con la premessa
che l’uomo non è sovrano della sua vita. Questo significa che il comportamento che
si prescrive non deriva dalle premesse poste, ma è un’affermazione
ripetuta di ciò che già le premesse dicono. Siamo di
fronte, cioè, ad una tautologia e non certamente ad
una formulazione sufficiente del giudizio morale. La
ripetizione o tautologia tra premesse e conclusione
non costringe alla obbligazione morale così come apparentemente
appare nella formulazione del giudizio. Oltre alla debolezza
del sillogismo, l’argomento teologico risulta anche
insufficiente se si scorge la via deontologica da esso
intrapresa. Questa via non tiene in considerazione il
fatto che il valore vita possa entrare in conflitto
con altri valori, come avviene nei casi di eccezione
al principio dell’inviolabilità della vita, e ciò la
rende non adeguata ad affrontare tutte le situazioni
che la vita può presentare.
Un
secondo appello alla dignità umana rivendica la qualità
della vita. L’argomentazione oggi è intesa in termini
fortemente controversiali nei riguardi del mondo cattolico è riconducibile ad un utilitarismo che propone
un eguale considerazione degli interessi con la massimizzazione
del piacere e la minimizzazione del dolore. In particolare,
questa forma di utilitarismo di cui parliamo stabilisce
una condizione minimale di uguaglianza stante nella
capacità di percepire il piacere e il dolore; stabilisce,
inoltre, che questa uguaglianza deve essere riportata
alla ricerca della massimizzazione del piacere e alla
minimizzazione del dolore. Quanto detto presenta due
livelli problematici: il primo è quello che ritiene
l’uguaglianza non come scaturente dalla vita umana stessa,
ma dal possesso del sistema nervoso centrale che permette
di provare piacere e dolore; il secondo, concatenato
al primo, è quello di un’impostazione che non dimostra
affatto di percepire la vita nella sua dimensione valoriale,
ma solo nella sua costituzione fisiologica.
Alla
luce del care, innervato nella dimensione
valutativa quale elemento la cui percezione è decisiva
nella vita etica, le conseguenze sono riconducibili a due
livelli di parzialità: innanzitutto il valore di un essere
vivente (non si può più parlare di esseri umani soltanto,
perché anche gli animali possiedono un sistema nervoso
centrale) è percepito solo nella misura in cui il soggetto
è capace di sentire piaceri e dolori, solo cioè se è
senziente, risultando non un dovere rispettare la vita di
un embrione, di un handicappato, di uno che si trova in
uno stato vegetativo persistente; il secondo livello di
parzialità specifica più ulteriormente il primo. Se il
valore è da attribuire ai senzienti, poiché si deve
tendere alla massimizzazione del piacere e alla
minimizzazione del dolore, la sofferenza di un senziente
non deve mai superare il piacere, quindi nei confronti di
chi soffre il dovere primo è quello di sopprimerlo.
Un
terzo appello alla dignità ritiene di poter disporre della
vita umana in base alle circostanze contingenti, le cui
conseguenze non sono per niente differenti da quelle
dell’utilitarismo succitato. Questo terzo modo fonda la
dignità umana sul “contratto”, e per questo è indicato con
il termine “neocontrattualismo”. Il soggetto morale è
colui che è capace di autodeterminazione, coscienza e
razionalità. Perché si possa realizzare un contratto è
necessario che non manchino l’autonomia e la beneficenza.
La prima prerogativa è indispensabile perché senza
autonomia non vi è soggettualità morale. Ho già fatto
notare che l’autonomia intesa come valore assoluto e non
come postulato della vita morale esula da una possibile
percezione dei valori e della loro gerarchia e, in questa
prospettiva neocontrattualista, legittima forme di
intervento soppressivo per gli altri e per sé. La seconda
prerogativa, meno importante della prima perché non
indispensabile, auspica un atteggiamento benevolo nei
confronti dei soggetti morali sia interni sia esterni alla
comunità di appartenenza. Essendo subordinata
all’autonomia come valore assoluto, la beneficenza (il
bene facere) è solo un auspicio, un’esortazione e non
una riformulazione prescrittiva di un giudizio morale,
qual è una vera norma morale per il comportamento. Così i
soggetti che non sono autonomi, embrioni,
feto, neonati,
anziani individui cerebro lesi o in coma, non
rientrano nella comunità morale e a loro non è attribuita
la realtà di persona.
Dal
punto di vista finora assunto, questo approccio mostra
molte parzialità già messe in evidenza nell’approccio
utilitaristico, ed in più l’argomentazione contrattualista
risulta ambigua proprio per la sua dipendenza dal concetto
di persona che pregiudizialmente si è confezionato.
I tre
approcci menzionati mostrano che da una determinata
impostazione di fondo – prospettiva teistica, concezione
cerebrale della persona, morale come contratto – ci si
catapulta in campo normativo. Non ci si rende conto che la
formulazione di norme morali non può prescindere dal punto
di avvio di ogni processo normativo ovvero
dall’imparzialità. Essa è l’imparzialità nell’assunzione
dei valori e nella percezione del loro rapporto gerarchico
e della loro distinguibilità. Tale imparzialità mostra
l’insufficienza dell’argomentazione teologica, la
parzialità dell’argomentazione utilitaristica, l’ambiguità
dell’argomentazione contrattualista. E sempre la stessa
parzialità in riferimento
al valore vita si traduce nel non considerarla come valore
fondamentale, e se l’argomentazione teologica ha
dimostrato sempre di avere coscienza della fondamentalità
del valore vita, però assolutizzandolo, le altre due
argomentazioni si sono caratterizzate per la loro completa
non percezione del piano valutativo, quindi anche e prima
di tutto del valore vita.
6.
“Care”
tra etica delle virtù ed etica delle norme
In
ogni trattazione etica è inevitabile chiedersi se il
discorso sviluppato si situa a livello dei soli valori o a
livello delle norme, e il discorso sul care finora
articolato non può dirsi solo caratterizzato da un
riferimento ai valori o solo intento a cercare delle norme
e delle strategie per le situazioni più disparate della
vita. L’interrogativo non è oziosamente accademico.
Oggi
si parla molto di un ritorno ad un’etica delle virtù quasi a far fronte ad un’inflazione normativa
proveniente da un mondo culturale come quella anglosassone
dove la bioetica ha mosso i suoi primi passi, e l’orientamento
attuale è impostato sempre nella prospettiva dell’aut-aut:
«Mentre l’etica aristotelica è impostata dal punto di
vista della I persona che desidera vivere bene, l’etica
moderna è impostata dal punto di vista della III persona,
dell’osservatore imparziale alle prese col problema
di determinare norme universali, principi e regole di
giustizia, oppure azioni corrette relativamente ai risultati
prodotti in uno stato di cose». Ma, non ci si rende conto che costruire
un’etica delle virtù come fosse un discorso altro da
contrapporre ad un’etica delle norme contraddice la
verità del discorso etico.
Esso
si caratterizza per una composita struttura che presenta
non una sola logica ma più logiche corrispondenti ai
piani in cui il linguaggio umano si sedimenta. Il discorso sui valori costituisce la dimensione
più propria dell’etica e ad essi ci si può riferire
o esortando coloro che già li hanno conosciuti a interiorizzarli
ancora più incisivamente nella loro vita o realizzandoli
nel modo migliore possibile attraverso norme. I due
piani, quello dei valori e quello delle norme, non possono
essere separabili anche se è possibile distinguerli,
e la loro inseparabilità è spiegabile per il semplice
fatto che la possibilità di normare presuppone un quadro
valoriale di riferimento e i valori quali giudizi morali
vengono riformulati prescrittivamente attraverso le
norme. Parlare, come di fatto si fa, di un’etica di
prima persona ed un’etica di terza persona è possibile
logicamente ma risulta erronea l’assunzione dei due
punti di vista in termini alternativi e di contrapposizione.
Il
care nell’ambito delle virtù, poiché esse non sono
altro che le reificazioni possibili nell’uomo, unico
soggetto morale, è riconducibile ad un pressante appello
ai valori, ad un certo orientamento verso di essi, ad un
atteggiamento rivolto alle cure, al rispetto e alla
valorizzazione di ogni vita, soprattutto la più debole;
nell’ambito delle norme il care significa, invece,
formulare norme per giudicare il comportamento, cioè
giudizi morali più aderenti alle varie realtà attraverso
le argomentazioni più convincenti.
Mentre
prendersi cura della vita in riferimento ai soli valori
significa assumere il punto di vista della morale
nell’assunzione e nella considerazione dei valori in
generale e del valore vita in particolare in quanto valore
fondamentale, in riferimento alle norme prendersi cura
della vita si traduce nella capacità di ripercorrere le
piste etico-normative più convincenti per giustificare le
norme relative al comportamento nei confronti della vita.
Il valore fondamentale della vita dice la possibilità che
ogni individuo ha di realizzare gli altri valori, e il
valore morale, di realizzare, in ultima analisi, se
stesso. Dal punto di vista etico-normativo il discorso
sulla fondamentalità della vita – che esorta, come si è
detto sopra, alla virtù della prudenza, al riconoscimento
dei propri limiti, all’accettazione di tutta la vita
compresa la morte, all’accompagnamento dei malati e dei
più deboli, insomma esorta ad un atteggiamento benevolo
contrassegnato dalla sollecitudine alla cura, alla tutela,
alla promozione, al recupero, al rispetto di se stessi ed
agli altri escluso nessuno – equivale alla inviolabilità
della vita se la pista argomentativa intrapresa è quella
deontologica. Lo stesso discorso sulla fondamentalità è
perfettamente rinvenibile nell’altra argomentazione
contrapposta alla prima, quella teleologica, anche se non
con la stessa chiarezza ostentata da un giudizio sempre di
illiceità di uccidere formulato dall’argomentazione
deontologica.
La
pista deontologica porta come argomento a sostegno
dell’inviolabilità della vita quello della mancanza di
permesso e si esprime sempre in termini di illiceità:
nessuno ha il diritto di togliere la vita ad altri. La
mancanza di permesso che sostiene sempre l’illiceità di
uccidere esprime a tutto tondo l’inestimabile
considerazione che si nutre nei confronti della vita e
tale considerazione non è altro che la percezione della
fondamentalità del valore vita per ogni uomo. Ma, ed ecco
che subentra la pista teleologica, le situazioni della
vita non sempre possono essere risolte con
un’argomentazione che non prevede eccezioni. Infatti,
l’evidenza di non poter applicare la norma
deontologicamente formulata istruisce la possibilità di
intraprendere un processo di riformulazione teleologica
dell’argomentazione deontologica. E i casi di legittima
difesa, di rischio per la propria incolumità, di uccisione
del tiranno e di guerra giusta ne sono un esempio nella
storia della riflessione etica. Ora, la pista teleologica
non costituisce un ridimensionamento della fondamentalità
del valore vita, chiarissimo nell’argomentazione
deontologica, piuttosto la ricerca di una norma ben
aderente ai diversi contesti operativi problematici, che
valuti tutte le conseguenze ed in base ai valori realizzi
quelli possibili, ridice con più forza la fondamentalità
del valore vita senza alcun ridimensionamento. Il care,
dunque, deve esibire un’etica delle virtù ed un’etica
delle norme mai scisse tra loro nel senso che ad una
percezione di un quadro valoriale nel quale la vita
risulta essere il valore non morale il più fondamentale
deve seguire una pista argomentativa la più idonea per
giungere alla formulazione di una norma più possibilmente
aderente alla realtà che si sta giudicando.
7.
“Care” come razionalità etica
L’esigenza di prendersi cura della vita corrisponde
all’esigenza etica che scaturisce dall’intimo stesso
della persona. Questa esigenza presuppone una realtà
pre-data, oggettiva, oggi poco percepita o percepita
in parte, ieri percepita in un modo, in un epoca o in
un luogo sperduto del globo diversamente. Tutto ciò
poco importa, quello che conta è che ciò che si riesce
a percepire rimane sempre l’al di qua dell’al di là
ideale che è l’ordine morale oggettivo.
Non
prendersi cura della vita, non assecondare, cioè, un’esigenza
intima a noi stessi significa entrare in contrasto con
la prospettiva dell’imparzialità, ma anche in rapporto
contraddittorio con il punto di vista logico secondo
il quale non si può formulare un giudizio che sia, al
tempo stesso, vero e falso. In questa prospettiva risulta
centrale il concetto di razionalità etica consistente
nella «capacità razionale dell’uomo di leggere nella
sua stessa realtà umana l’orientamento etico da imprimere
alla sua esistenza come orizzonte di senso ed al suo
agire quotidiano, come singole norme operative».
La razionalità etica
così intesa implica il fatto che ogni uomo ha l’obbligo
di vivere moralmente in quanto uomo e non in quanto
avente un tessuto simbolico e interpretativo religioso.
La razionalità etica comporta il fatto che i contenuti
del vivere moralmente sono uguali per tutti. L’obbligo
morale di vivere moralmente in quanto uomini esclude
una razionalità creatrice di norme, recupera, al contrario,
una razionalità ricercatrice di giudizi morali già iscritti
nella realtà stessa dell’uomo corrispondenti al regno
dei valori e presuppone, anche, una chiarificazione
dei vari livelli da considerare, quello descrittivo
distinto da quello valutativo.
Ora,
il care non può prescindere dal concetto di
razionalità etica perché la stessa negazione di quest’ultimo
e di conseguenza di ciò che esso dovrebbe essere capace di
conoscere, il regno dei valori, apre la strada all’idea
che ogni uomo è legge a se stesso, quindi che il valore
vita è in balia di scelte arbitrarie. La negazione di
questa razionalità e di conseguenza del contenuto da
conoscere minaccia il valore vita prima di tutti gli altri
valori. Se, invece, si considerasse una pre-datità scorta
nella realtà dell’uomo, si ragionerebbe nel seguente modo:
se la vita è il valore non morale il più fondamentale,
allora è sempre il primo a dover essere salvaguardato, e
la difesa della vita diventa dovere fondamentale e
prioritario di ogni branca che viene coinvolta nel
dibattito bioetico.
Se di
questo si tratta quando ci si riferisce alla razionalità
etica, chi si colloca all’interno di una prospettiva
teistica non aggiunge un di più normativo a quanto già è
possibile carpire con la sola ragione, bensì reinterpreta
questa razionalità come volontà creatrice di Dio e la
ripresenta attraverso il proprio tessuto simbolico
religioso.
Quanto
stiamo affermando ci permette di impostare
metodologicamente il discorso teologico. Riflettere
teologicamente sull’etica della vita non comporterà dal
punto di vista normativo un’aggiunta o un
ridimensionamento, in quanto l’esigenza stessa di una
giustificazione razionale è contenuta nella riflessione
etica; piuttosto la prospettiva teologica conferma quanto
razionalmente si percepisce e offre a chi crede il
fondamento ultimo del regno dei valori.
8.
“Care” e la prospettiva teologica
Il
discorso teologico sul care deve partire dalla
corrispondenza di esso alla stessa esigenza etica che
scaturisce dall’intimo più intimo della persona ovvero
dalla capacità che l’uomo possiede di cogliere in se
stesso un orientamento etico. È di estrema importanza
porre nella dovuta attenzione questo punto di avvio perché
illumina sul “come”, sul “se” e sul “quando” il discorso
teologico si può e si deve inserire in un discorso
eminentemente etico. Tra il discorso etico e il discorso
teologico non si può instaurare un rapporto di tipo
et-non o aut-aut oppure et-et, nel
momento in cui si è consapevoli della razionalità etica
dell’uomo. Proprio a partire da questa consapevolezza il
rapporto che deve legare i due discorsi deve essere
interpretato secondo il semplice tipo et. Mentre
l’espressione «il discorso etico è l’unico discorso
possibile sul “the care” e non il discorso
teologico», o viceversa, implicherebbe l’esclusione
necessaria di uno dei due discorsi, l’espressione, invece,
«o il discorso etico o il discorso
teologico» esprimerebbe non certamente l’esclusione da
parte del soggetto che riflette, ma l’inconciliabilità
oggettiva dei due discorsi; mentre, ancora, l’espressione
«sia il discorso etico sia il discorso
teologico» porrebbe ulteriori problemi in ordine
all’importanza dei due discorsi, al contrario,
l’espressione «il discorso etico e il discorso
teologico» opererebbe una congiunzione o un accoppiamento
presupponendo le dovute distinzioni. Ora, poiché la
razionalità etica soprintesa implica l’obbligo di vivere
moralmente perché si è uomini e non perché si è credenti,
ma, allo stesso tempo, la medesima razionalità è, in
ultima analisi, la stessa volontà creatrice di Dio perché
l’uomo è stato da Lui creato, ne consegue che è errata sia
l’impostazione che considera la scelta di escludere uno
dei due discorsi sia quella che ritiene i due discorsi
oggettivamente inconciliabili sia quell’altra che
necessita sempre che si risolva il problema
sull’importanza dei due discorsi visto che l’uno viene
semplicemente aggiunto all’altro. L’unica
impostazione corretta coerentemente con il concetto di
razionalità etica profondamente umano e profondamente
religioso è quella che unisce i due discorsi, che li
congiunge senza esclusione, senza inconciliabilità, senza
indistinzione conoscitiva. Congiungere i due discorsi
significa considerarli entrambi fondamentali ed
imprescindibili, però svolgenti un ruolo diverso tra loro.
Il discorso teologico, cioè, non nega le conoscenze morali
alle quali il discorso etico perviene perché ritiene tale
discorso fondamentale ed imprescindibile, piuttosto le
accetta come complete in se stesse e, al contempo, le
completa maggiormente con la luce della Rivelazione
dalla quale scaturisce. Mentre, in altre parole, il
discorso etico fornisce una completezza di conoscenza sul
piano del suo discorso specifico, il discorso teologico
aggiunge a tale completezza una maggiore completezza
proveniente dalla fede.
*
Istituto di Studi Bioetici “Salvatore Privitera”.
Vicedirettore della rivista “βio-ethoς”
Se pensiamo che anche in Italia, paese cattolico, il
divorzio fu legalizzato nel ’70 e confermato con un
referendum nel ’74, che la vendita dei contraccettivi
e l’informazione per il controllo delle nascite furono
legalizzate nel ’71 e, infine, che nel ’78 l’aborto fu
legalizzato e confermato con il referendum dell’81,
non si può che pensare che le cose stavano cambiando,
e di molto.
Se le matrici del nichilismo imperante sono i noti
filosofi tedeschi, l’autorevole interprete sostenitore
e fautore in Italia delle loro idee è indubbiamente
Gianni Vattimo. Per il professore torinese il tempo in
cui viviamo è ciò che Nietzsche ha proclamato per
bocca del suo Zarathustra: Dio è morto. Tale proclama
è il vessillo dell’esperienza finale della storia,
ossia della concentrazione moderna della storia come
corso unitario e progressivo di eventi. La morte di
Dio nietzscheana è per Vattimo equivalente all’oltrepassamento
metafisico heideggeriano, e non semplicemente la
teorizzazione dell’ateismo: «Nietzsche non sta
proponendo una metafisica ateistica […] sarebbe ancora
una forma di fede nel Dio morale, cioè in un ordine
oggettivo del mondo che lui fonda e garantisce. Solo
tenendo presente questo si può riconoscere l’analogia,
ma meglio ancora la stretta continuità, tra la morte
di Dio nietzscheana e la fine della metafisica di cui
parla Heidegger […] L’evento «fine della metafisica»
ha, nel pensiero di Heidegger, lo stesso senso della
morte di Dio» (Dopo la cristianità…, o.c., 17).
Sulle cure palliative come prevenzione dell’eutanasia
attiva cfr. R.JANSSENS – H. TEN HAVE, Le cure
palliative in Olanda, in «Bioetica e Cultura» VIII
(1999) 23-31; B. GORDIJN, Cure palliative e
prevenzione dell’eutanasia attiva, in S. PRIVITERA
(a cura di), Vivere “bene” nonostante tutto. Le
cure palliative in Europa e in Italia, ISB,
Acireale 1999, 63-80.
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