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Editoriale
Imprescindibilità
della coscienza morale
Non c’è problema
affrontato dalla bioetica che non chiami in causa la
coscienza morale. Se si getta uno sguardo al dibattito
odierno ci si accorge, tuttavia, che a essere chiamata
in causa è piuttosto la nozione di «autonomia
individuale» o di «autodeterminazione», ciò che rischia
di focalizzare l’attenzione solo sul momento della
libertà di giudizio e di scelta richiesta dalla
situazione in cui si è chiamati ad agire. Ma per quanto
importanti, la libertà da costrizioni e la capacità di
essere legge a se stessi non sono elementi che possano
esaurire il problema, tipicamente bioetico, del giudizio
morale. E infatti, la presenza di sé a se stessi –
propria della coscienza psicologica – e la capacità di
giudicare e di scegliere autonomamente (oltre,
naturalmente, alla conoscenza del caso di volta in volta
in questione) sono condizione necessaria ma non
sufficiente per formulare un giudizio sulla
moralità dell’atto che ci si accinge a porre. Se
l’odierna valorizzazione del principio di autonomia non
vuole smarrire la complessità custodita dall’esperienza
morale, occorre dunque ripensare proprio la classica
nozione di «coscienza morale». Qui valgano, in
proposito, alcune considerazioni preliminari.
Se, in quanto giudizio,
la coscienza ha una natura propriamente razionale, in
quanto giudizio morale, la razionalità della sua
natura è non già calcolante o discorsiva e dimostrativa,
bensì immediata, spontanea e intuitiva. Non a caso
Rousseau l’ha paragonata all’istinto allorché
l’ha descritta come «guida sicura di un essere ignorante
e limitato, ma intelligente e libero; giudice
infallibile del bene e del male». E Kant sembra
commentare proprio questo concetto quando osserva che un
uomo che ha compiuto un atto contrario alla legge morale
può sforzarsi quanto vuole nell’attribuirlo alle
circostanze, e, dunque, nel ritenersi vittima
«innocente» della «necessità naturale»; «tuttavia egli
sente che l’avvocato che parla in suo vantaggio non può
far tacere in lui l’accusatore, se egli è conscio che,
nel tempo che commise l’azione cattiva, egli era in sé,
cioè aveva l’uso della sua libertà». E quand’anche egli
spiegasse la propria mancanza «con una certa abitudine
cattiva contratta per avere a poco a poco trascurato
l’attenzione su se stesso […], ciò, tuttavia, non lo può
salvare dalla disapprovazione e dal rimprovero che egli
fa a se stesso».
La voce
della coscienza è quindi imperativa e inesorabile, sia
quando ci obbliga a seguire il bene e a evitare il male,
sia quando traduce l’effetto della nostra azione
nell’approvazione o nel rimorso.
E tuttavia,
se seguire i dettami della coscienza potesse garantire
la moralità di un atto, ciò significherebbe che essa è
sempre infallibile. Ma in tal caso non si spiegherebbero
i differenti giudizi che due persone esprimono sullo
stesso problema e tanto meno le variazioni di giudizio
che su quel problema vengono esperite da una stessa
persona in momenti diversi. E anzi si arriverebbe a
legittimare qualsiasi atto, persino un genocidio, solo
in quanto compiuto in nome della propria coscienza.
Ne
discendono due conseguenze: 1) il criterio che rende una
coscienza degna d’essere obbedita va ricercato oltre la
coscienza stessa, in una legge non scritta, ma in essa
inscritta e pur trascendente poiché non è l’uomo a
darsela; 2) la coscienza non è un oracolo chiuso nella
sua compiutezza, bensì un organo in costante formazione.
Quanto al
primo punto, il criterio va rinvenuto nella conformità
dell’atto alla retta ragione, a una ragione,
cioè, non subordinata a interessi limitati e parziali,
bensì aperta all’onnidimensionalità dell’essere, a un
assoluto assiologico che la ragione percepisce come
termine di riferimento implicito nella sua stessa
attività giudicante.
Quanto al
secondo punto, il vero problema della coscienza è non
tanto quello d’imbattersi nel dubbio o nell’errore,
quanto piuttosto quello di ottundere se stessa sino a
smarrire la propria capacità di giudizio. E non c’è
compito più arduo di quello che consiste nel mantenere
la coscienza vigile e attenta precisamente nei confronti
del suo stesso esercizio morale. Si tratta infatti di
sciogliere l’aporia per la quale una coscienza ottusa
dovrebbe rinvenire in se stessa le risorse capaci di
renderla avveduta ed accorta fino al punto di tutelarla
dal rischio del proprio fatale smarrimento.
Giuseppe Modica
* * * * *
Apre questo nuovo numero
un contributo di Fulvio Di Blasi, che propone una
riflessione antropologica sulle dimensioni affettive
della sessualità tra i giovani, coniugando, come è nello
spirito della rivista, approfondimento teorico e
considerazione degli aspetti più pratici ed esistenziali
della questione. A seguire, Pietro Cognato offre
un’ampia e articolata sintesi del dibattito bioetico sul
concetto di vita e sul suo valore etico. Infine, una
nota dello scrivente sui rapporti tra medicina e
filosofia. Oltre al consueto spazio dedicato alle
Recensioni, alla Rassegna Stampa e alle
Novità librarie, questo nuovo numero ospita anche
una sezione riservata a Commenti e Reply, al fine
di rendere più fecondo il confronto critico e il
dialogo, anche tra gli stessi studiosi che pubblicano su
“Questioni di Bioetica”.
G. M.
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