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Medicus
ac philosophus
Esigenza d’interdisciplinarità in medicina*
di
Giuseppe Modica**
«Quando il
medico riflette come un filosofo sugli avvenimenti e sui
valori umani, è simile a un dio». L’icastica
considerazione ippocratica intende riferirsi a quella
scintilla d’infinito che sprigiona dalla personalità del
medico allorché si affaccia sul mondo con la forma
mentis del filosofo e che, viceversa, resta nell’ombra
allorché il medico si chiude dentro il bozzolo asfittico
del proprio sapere scientifico. Ora, assumere la forma
mentis del filosofo, ossia di colui che ricerca il
principio, e che, perciò, guarda all’universale, al
totale, al globale, significa considerare la medicina non
come una mera scienza, bensì come un’arte olistica, ossia
come una pratica di comprensione interale. Non dunque un
sapere che guardi solo alla parte, ma che riconduca
la parte al tutto, all’insieme
dell’organismo e, quindi, anche ai farmaci, alla dieta,
all’igiene, ai fattori ambientali e psicologici della
situazione in cui vive il malato. Contro la tendenza della
medicina moderna a farsi sempre più analitica,
perdendo di vista quel rapporto con l’intero che sta alla
base d’una relazione interpersonale col paziente, bisogna
perciò far valere
la categoria della complessità: sia la complessità
delle cause cui bisogna risalire per formulare una
diagnosi, sia la complessità del paziente stesso.
La medicina
è oggi dunque chiamata a un compito arduo e delicato:
riappropriarsi delle sue antiche origini per riscoprire
la sua intima relazione con la filosofia. Come già notava
Platone nel Fedro, medicina e filosofia sono
«saperi della totalità vivente»: non è possibile prendersi
cura del corpo se non si cura anzitutto l’anima. Ansi,
la «cura dell’anima» (psychès therapèia) va considerata
come il fine cui ricondurre la cura del corpo: solo
perseguendo i valori di quella è possibile conseguire
i valori di questo. Non a caso, il senso dell’affermazione
galeniana secondo cui «chi è un vero medico è sempre
anche un filosofo», va ricercata nel monito etico: colui
che vorrà diventare medico, «non solo disprezzi le ricchezze,
ma sia estremamente amante delle fatiche […], compagno
della temperanza come della verità», abbia, in altri termini, un habitus
morale come condizione imprescindibile della sua professione.
Nell’ambito di
tale equivalenza il concetto di «paziente» va considerato
non nell’accezione di colui che «patisce» la malattia e
l’intervento del medico, ma nel significato di soggetto di
diritti e di rispetto. Per un verso, il fisiologico
complesso d’inferiorità che affligge il paziente va
costantemente combattuto attraverso la chiarezza
affettuosa che il medico ha il dovere di adottare nel
suo eloquio affinché il paziente possa far valere il
proprio diritto alla comprensione e all’informazione. Per
un altro verso, il rispetto dovuto al paziente va
ricondotto al riconoscimento del valore intrinseco della
persona. Esso
implica l’imperativo categorico di kantiana memoria:
nessuno deve mai trattare se stesso o gli altri
semplicemente come mezzo, ma sempre anche come fine.
Ne consegue la differenza
sostanziale che intercorre tra il valore come «prezzo»
e il valore come «dignità». Infatti, quando una cosa
ha un prezzo, possiede un valore relativo e perciò
è commerciabile e può essere comprata, costasse pure
tutto l’oro del mondo. Viceversa, quando una cosa ha
dignità, non è commerciabile, perciò non può
essere comprata e ha un valore assoluto e incondizionato.
Ed è proprio la dignità e non il prezzo ciò che contrassegna
la persona morale.
Riduttivi
e perniciosi appaiono, da questo punto di vista, i due
presupposti della visione scientifica del mondo che
il fisico Schrödinger ha individuato nell’intellegibilità
e nell’oggettività, ossia nella rimozione del
soggetto. Infatti, se si prova ad applicare tali presupposti
allo statuto epistemologico della medicina, ci s’imbatte
in una difficoltà insormontabile: quella dell’impossibilità
di rimuovere il soggetto, dal momento che la medicina,
benché tenda - specie quella ospedaliera - a ridurre
il soggetto a un numero e a un corpo, non può occultare
il fatto che si occupa pur sempre di corpi dotati di
autocoscienza, e quindi di soggetti, di spiriti
incarnati. Ed è proprio il concetto d’intrascendibilità
della dimensione soggettiva che medicina e filosofia
hanno anzitutto in comune.Il soggetto non è un numero
e non si misura quantitativamente; è una persona e,
come tale, si misura qualitativamente. Se,
come osserva Pascal, «l’uomo oltrepassa infinitamente
l’uomo»,
l’antropologia filosofica contemporanea ha implicitamente
fatto propria la definizione pascaliana quando, con
Plessner, ha sottolineato che l’uomo è un essere
eccentrico, fuori cioè da quel centro nel quale
piuttosto è l’animale ad essere totalmente immerso e
imprigionato. Perciò, mentre l’animale è ciò che è,
e dunque è governato dalla necessità, l’uomo è sempre
al di là di ciò che è, e dunque è connotato dalla libertà.
In altri termini, mentre l’uomo è soggetto alienato,
l’animale è soggetto integrato; ma, per ciò stesso,
mentre l’animale in-siste e non ex-siste,
l’uomo in-siste ed ex-siste. E, proprio
in quanto trascende sempre se stesso, di esso può dirsi
che è un animale metafisico.
È in forza dell’imprevedibilità
prodotta dalla libertà che l’uomo è stato di volta in
volta definito «misterioso» (Guardini), «discontinuo»
(De Finance), «squilibrato» (Sciacca), «non inventariabile»
(Marcel), «animale non fissato» (Nietzsche). L’uomo
è del resto l’unico ente che ha l’onore e l’onere di
appartenere contemporaneamente a due mondi: il
sensibile e l’intellegibile.
Benché il comportamento umano sia sottoposto a una certa
meccanicità, l’uomo, insomma, non è una macchina, un
meccanismo prevedibile che può essere avviato con un
pulsante e spento con un interruttore; e quand’anche
il pulsante di avvio e l’interruttore di spegnimento
fossero utilizzati come rispettive metafore dell’inizio
della vita e della cessazione della vita con la morte,
l’uomo rivendicherebbe pur sempre il diritto-dovere
di prendere posizione nei confronti della nascita e
della morte. L’uomo nasce e muore senza essere consultato:
gettato nel mondo, ma come progetto; estirpato
dal mondo, ma con la capacità di anticipare la
morte attraverso il compito di vincerne la rappresentazione
oggettiva per farne una realtà intrinseca alla
vita.
Pertanto, benché
sia sempre anche un fenomeno biologico, l’uomo non è
né un vegetale né un mero animale: è, sì, fragile come
e più di un vegetale, e può essere roso dagli appetiti
come e più di un animale; ma, a differenza dell’uno
e dell’altro, ha consapevolezza di tutto ciò.
L’uomo - osserva Pascal - è come una canna, ma è una
«canna pensante». Non c’è bisogno che s’armi l’universo
intero per schiacciarlo: una goccia d’acqua basta per
ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse,
l’uomo è pur sempre superiore all’universo, perché sa
di dover morire, mentre l’universo, che pure l’uccide,
non lo sa.
È questa concezione
antropologica che la medicina deve tener costantemente
presente se non vuole ridursi ai parametri asettici
e impersonali dello scientismo. La medicina deve poter
essere intesa e praticata come una «scienza umana»:
non una scienza della natura (Naturwissenschaft),
ma una scienza dello spirito (Geisteswissenschaft).
L’atarassia e il distacco del medico, classicamente
considerati garanzia di oggettività, devono potersi
flettere e coniugare con la personalizzazione del rapporto:
il medico – come dice Gadamer – deve riuscire a essere
un «guaritore ferito» e, quindi, considerare la contaminazione
e l’affezione non come ostacoli da evitare, ma come
condizioni da sposare. In tal senso, egli deve riuscire
a esercitare l’arte della com-prensione: il verstehen,
che evoca l’empatia e la solidarietà, non l’erklären,
che evoca, invece, la mera conoscenza teorica. In altri
termini, il paziente esige dal medico non l’esercizio
d’una ragione (logos) autoreferenziale a autoritaristica,
bensì la dedizione d’una ragione eteroreferenziale,
ovvero di un diàlogos tanto autorevole quanto
aperto e franco, nonché pronto a tradursi in costante
ed attenta capacità di ascolto e, quindi, di
cura dell’anima.
Tutelare la soggettività
è, insomma, la prima condizione che fa della scienza
medica sempre anche un’arte terapeutica: arte, come
si evince proprio dal termine tedesco di «cura» (Behandlung),
poiché curare vuol dire palpare, tastare con la mano
(die Hand) il corpo del malato; terapeutica,
poiché se dià-gnosis significa conoscenza
che si acquisisce attraverso la valutazione dell’anamnesi,
dei sintomi e delle analisi di laboratorio, therapeìa
significa «servizio» di soccorso umano prima che farmacologico e, quindi, ancora
una volta, cura dell’anima.
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