Home About International University Project Conferences Courses Lectures Projects Publications Readings Contribute Contact      

home \ associazione thomas international \ questioni di bioetica \ settembre 2007 \ g. modica - medicus ac philosophus ...

Home

Redazione

Presentazione

Numero in corso

Archivio

Informazioni bibliografiche

Rassegna stampa

Contatti

Link utili

 

ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 4 - Settembre 2007 
     
 

Medicus ac philosophus

Esigenza d’interdisciplinarità in medicina*

di Giuseppe Modica**

 

 

 

«Quando il medico riflette come un filosofo sugli avvenimenti e sui valori umani, è simile a un dio». L’icastica considerazione ippocratica intende riferirsi a quella scintilla d’infinito che sprigiona dalla personalità del medico allorché si affaccia sul mondo con la forma mentis del filosofo e che, viceversa, resta nell’ombra allorché il medico si chiude dentro il bozzolo asfittico del proprio sapere scientifico. Ora, assumere la forma mentis del filosofo, ossia di colui che ricerca il principio, e che, perciò, guarda all’universale, al totale, al globale, significa considerare la medicina non come una mera scienza, bensì come un’arte olistica, ossia come una pratica di comprensione interale. Non dunque un sapere che guardi solo alla parte, ma che riconduca la parte al tutto, all’insieme dell’organismo e, quindi, anche ai farmaci, alla dieta, all’igiene, ai fattori ambientali e psicologici della situazione in cui vive il malato. Contro la tendenza della medicina moderna a farsi sempre più analitica, perdendo di vista quel rapporto con l’intero che sta alla base d’una relazione interpersonale col paziente, bisogna perciò far valere la categoria della complessità: sia la complessità delle cause cui bisogna risalire per formulare una diagnosi, sia la complessità del paziente stesso.

La medicina è oggi dunque chiamata a un compito arduo e delicato: riappropriarsi delle sue antiche origini per riscoprire la sua intima relazione con la filosofia. Come già notava Platone nel Fedro, medicina e filosofia sono «saperi della totalità vivente» [1] : non è possibile prendersi cura del corpo se non si cura anzitutto l’anima. Ansi, la «cura dell’anima» (psychès therapèia) va considerata come il fine cui ricondurre la cura del corpo: solo perseguendo i valori di quella è possibile conseguire i valori di questo [2] . Non a caso, il senso dell’affermazione galeniana secondo cui «chi è un vero medico è sempre anche un filosofo», va ricercata nel monito etico: colui che vorrà diventare medico, «non solo disprezzi le ricchezze, ma sia estremamente amante delle fatiche […], compagno della temperanza come della verità» [3] , abbia, in altri termini, un habitus morale come condizione imprescindibile della sua professione.

Nell’ambito di tale equivalenza il concetto di «paziente» va considerato non nell’accezione di colui che «patisce» la malattia e l’intervento del medico, ma nel significato di soggetto di diritti e di rispetto. Per un verso, il fisiologico complesso d’inferiorità che affligge il paziente va costantemente combattuto attraverso la chiarezza affettuosa che il medico ha il dovere di adottare nel suo eloquio affinché il paziente possa far valere il proprio diritto alla comprensione e all’informazione. Per un altro verso, il rispetto dovuto al paziente va ricondotto al riconoscimento del valore intrinseco della persona. Esso implica l’imperativo categorico di kantiana memoria: nessuno deve mai trattare se stesso o gli altri semplicemente come mezzo, ma sempre anche come fine.

Ne consegue la differenza sostanziale che intercorre tra il valore come «prezzo» e il valore come «dignità». Infatti, quando una cosa ha un prezzo, possiede un valore relativo e perciò è commerciabile e può essere comprata, costasse pure tutto l’oro del mondo. Viceversa, quando una cosa ha dignità, non è commerciabile, perciò non può essere comprata e ha un valore assoluto e incondizionato. Ed è proprio la dignità e non il prezzo ciò che contrassegna la persona morale. [4]

Riduttivi e perniciosi appaiono, da questo punto di vista, i due presupposti della visione scientifica del mondo che il fisico Schrödinger ha individuato nell’intellegibilità e nell’oggettività, ossia nella rimozione del soggetto. Infatti, se si prova ad applicare tali presupposti allo statuto epistemologico della medicina, ci s’imbatte in una difficoltà insormontabile: quella dell’impossibilità di rimuovere il soggetto, dal momento che la medicina, benché tenda - specie quella ospedaliera - a ridurre il soggetto a un numero e a un corpo, non può occultare il fatto che si occupa pur sempre di corpi dotati di autocoscienza, e quindi di soggetti, di spiriti incarnati. Ed è proprio il concetto d’intrascendibilità della dimensione soggettiva che medicina e filosofia hanno anzitutto in comune.Il soggetto non è un numero e non si misura quantitativamente; è una persona e, come tale, si misura qualitativamente. Se, come osserva Pascal, «l’uomo oltrepassa infinitamente l’uomo» [5] , l’antropologia filosofica contemporanea ha implicitamente fatto propria la definizione pascaliana quando, con Plessner, ha sottolineato che l’uomo è un essere eccentrico, fuori cioè da quel centro nel quale piuttosto è l’animale ad essere totalmente immerso e imprigionato. Perciò, mentre l’animale è ciò che è, e dunque è governato dalla necessità, l’uomo è sempre al di là di ciò che è, e dunque è connotato dalla libertà. In altri termini, mentre l’uomo è soggetto alienato, l’animale è soggetto integrato; ma, per ciò stesso, mentre l’animale in-siste e non ex-siste, l’uomo in-siste ed ex-siste. E, proprio in quanto trascende sempre se stesso, di esso può dirsi che è un animale metafisico.

È in forza dell’imprevedibilità prodotta dalla libertà che l’uomo è stato di volta in volta definito «misterioso» (Guardini), «discontinuo» (De Finance), «squilibrato» (Sciacca), «non inventariabile» (Marcel), «animale non fissato» (Nietzsche). L’uomo è del resto l’unico ente che ha l’onore e l’onere di appartenere contemporaneamente a due mondi: il sensibile e l’intellegibile [6] . Benché il comportamento umano sia sottoposto a una certa meccanicità, l’uomo, insomma, non è una macchina, un meccanismo prevedibile che può essere avviato con un pulsante e spento con un interruttore; e quand’anche il pulsante di avvio e l’interruttore di spegnimento fossero utilizzati come rispettive metafore dell’inizio della vita e della cessazione della vita con la morte, l’uomo rivendicherebbe pur sempre il diritto-dovere di prendere posizione nei confronti della nascita e della morte. L’uomo nasce e muore senza essere consultato: gettato nel mondo, ma come progetto; estirpato dal mondo, ma con la capacità di anticipare la morte attraverso il compito di vincerne la rappresentazione oggettiva per farne una realtà intrinseca alla vita.

Pertanto, benché sia sempre anche un fenomeno biologico, l’uomo non è né un vegetale né un mero animale: è, sì, fragile come e più di un vegetale, e può essere roso dagli appetiti come e più di un animale; ma, a differenza dell’uno e dell’altro, ha consapevolezza di tutto ciò. L’uomo - osserva Pascal - è come una canna, ma è una «canna pensante». Non c’è bisogno che s’armi l’universo intero per schiacciarlo: una goccia d’acqua basta per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo è pur sempre superiore all’universo, perché sa di dover morire, mentre l’universo, che pure l’uccide, non lo sa [7] .

È questa concezione antropologica che la medicina deve tener costantemente presente se non vuole ridursi ai parametri asettici e impersonali dello scientismo. La medicina deve poter essere intesa e praticata come una «scienza umana»: non una scienza della natura (Naturwissenschaft), ma una scienza dello spirito (Geisteswissenschaft). L’atarassia e il distacco del medico, classicamente considerati garanzia di oggettività, devono potersi flettere e coniugare con la personalizzazione del rapporto: il medico – come dice Gadamer – deve riuscire a essere un «guaritore ferito» [8] e, quindi, considerare la contaminazione e l’affezione non come ostacoli da evitare, ma come condizioni da sposare. In tal senso, egli deve riuscire a esercitare l’arte della com-prensione: il verstehen, che evoca l’empatia e la solidarietà, non l’erklären, che evoca, invece, la mera conoscenza teorica. In altri termini, il paziente esige dal medico non l’esercizio d’una ragione (logos) autoreferenziale a autoritaristica, bensì la dedizione d’una ragione eteroreferenziale, ovvero di un diàlogos tanto autorevole quanto aperto e franco, nonché pronto a tradursi in costante ed attenta capacità di ascolto e, quindi, di cura dell’anima.

Tutelare la soggettività è, insomma, la prima condizione che fa della scienza medica sempre anche un’arte terapeutica: arte, come si evince proprio dal termine tedesco di «cura» (Behandlung), poiché curare vuol dire palpare, tastare con la mano (die Hand) il corpo del malato; terapeutica, poiché se dià-gnosis significa conoscenza che si acquisisce attraverso la valutazione dell’anamnesi, dei sintomi e delle analisi di laboratorio, therapeìa significa «servizio» di soccorso umano [9] prima che farmacologico e, quindi, ancora una volta, cura dell’anima.

 

 

 


 


*  Il presente articolo è apparso come Editoriale nella rivista «Decidere in medicina», 5, ottobre 2005.

** Professore Ordinario di Filosofia Morale all’Università di Palermo

 

[1] Cfr. Fedro, 270 b-c.

[2] Cfr. Apologia di Socrate, 29 e.

[3] Galeno, Opere scelte, a cura di I. Garofano e M. Vegetti, UTET, Torino, 1978, pp. 98-101.

[4]Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari, 1997, p. 103. Il rispetto implica una revisione del rapporto tra autorità e libertà: si tratta d’una implicazione reciproca nella misura in cui per autorità s’intende ciò che è degno di rispetto e per libertà l’autocritica, ossia il riconoscimento dei propri limiti (cfr. H.-G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano, 1994, p. 133). Nel caso della relazione medico-paziente, paradossalmente è il paziente a incarnare l’autorità, laddove il medico incarna la libertà.

[5] B. Pascal, Pensieri, 434 (ed. Br.).

[6] Cfr. I. Kant. op. cit., p. 141.

[7] Cfr. Pensieri, 347 (ed. Br.).

[8] H.-G. Gadamer, op. cit., p. 43.

 
 
     
     
 
 
Confezionando