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Quali conseguenze?
A proposito del modello
etico teleologico
adottato in “La vita e l’etica: per una congiunzione
bioetica” di Pietro Cognato
di
Luciano Sesta*
Non è forse meglio che un
solo uomo innocente sia messo a morte piuttosto che tutto
il popolo perisca? (Gv 11, 50)
1. Etica teleologica o
etica deontologica? Validità e limiti di un’alternativa
ricorrente
Il saggio di Pietro
Cognato La vita e l’etica: per una congiunzione
bioetica,
offre un’ampia e apprezzabile sintesi del modo in cui il
“valore della vita” può essere considerato nel dibattito
bioetico. Le riflessioni dell’Autore si muovono su un
doppio registro, oscillando tra considerazioni di etica
fondamentale (o metaetica) e applicazioni di etica pratica
(o etica normativa), senza disdegnare qualche incursione
nel campo dell’antropologia e dell’ormai vexata
quaestio sul concetto di persona in bioetica. Al di là
delle conclusioni proposte da Cognato su singoli problemi
come lo statuto personale dell’embrione, l’eutanasia e
l’aborto, che mi sembrano del resto ampiamente
condivisibili, quello su cui vorrei concentrarmi in questo
contributo è il modo in cui egli giunge a tali
conclusioni. In altri termini, si tratta di analizzare la
generale prospettiva etica dell’Autore, che coincide con
l’assunzione del c.d. modello etico teleologico, e di
verificare quanto essa sia capace di assolvere il duplice
ruolo che qui le viene assegnato: da un lato custodire e
promuovere il valore della vita, e, dall’altro lato,
risolvere i casi controversi meglio di qualsiasi
prospettiva rivale. La mia tesi è che l’etica teleologica
non è in grado, se non parzialmente e in modo incoerente,
di assolvere tale duplice ruolo. Cercherò di mostrarlo
facendo emergere, al tempo stesso, la maggiore
plausibilità del modello etico giusnaturalistico (che
Cognato chiama “deontologico”) rispetto a quello
teleologico. Oltre al saggio citato farò riferimento anche
a un altro contributo, recentemente pubblicato dallo
stesso Autore, dal titolo Assoluto etico e norme
morali. A proposito della struttura dicotomica della
bioetica,
in cui si trovano utili chiarificazioni circa la
fondazione teleologica della norma morale.
Il punto di partenza di
Cognato, e degli autori a cui egli si ispira, è la celebre
distinzione tra etica teleologica ed etica deontologica.
Questa distinzione, a quanto pare, è stata formulata per
la prima volta negli anni Trenta in un testo dal titolo
Five Types of Ethical Theory, scritto da Charlie
Dumbar Broad, il quale, riprendendo e correggendo
parzialmente una precedente classificazione di Henry
Sidgwick,
scriveva: «I would first divide ethical into two classes,
which I will call respectively deontological and
teleological.
Deontological theories hold that there are ethical
propositions of the form: “Such and such a kind of action
would always be right (or wrong) in such and such
circumstances, no matter what its consequences might be”.
[...] Teleological theories hold that the rigtness or
wrongness of an action is always determined by its
tendency to produce certain consequences which are
intrinsecally good or bad».
L’etica
deontologica (da déon = “dovere”) è dunque un’etica
che impone il dovere di agire in un certo modo (o di
astenersi dall’agire in un certo modo) unicamente perché
questo è giusto, senza preoccuparsi delle conseguenze che
possono derivare dalle azioni stesse. Dummodo fiat
iustitia pereat mundus: così reciterebbe l’adagio
emblematico di questo tipo di approccio. L’etica
teleologica (da télos = “fine”), è invece un’etica
che impone, come fine delle azioni (a cui corrisponde
l’intenzione del soggetto agente), quello di produrre
conseguenze positive e di evitare conseguenze negative.
Per l’etica teleologica, pertanto, le azioni in se stesse
non sono né buone né cattive ma lo diventano solo se le
conseguenze che provocano sono buone o cattive. Da quando,
nel corso del XX secolo, alcuni filosofi anglosassoni
appartenenti all’ambito della c.d. “metaetica analitica”
hanno adottato questa terminologia, la distinzione tra
Deontological Theory e Teleological Theory si è
diffusa a macchia d’olio ed è stata recepita anche in
ambito c.d. continentale dove, in realtà, era già stata
formulata da Max Weber nei termini di una contrapposizione
tra un’“etica della convinzione” (Gesinnungsethik)
e un’“etica della responsabilità” (Verantwortungsethik).
Al di là delle diverse sfumature concettuali che la
distinzione può subire (e che di fatto ha subito), si può
dire che un tipico esempio di etica deontologica è l’etica
kantiana, che prescrive il dovere per il dovere, a
prescindere da qualsiasi valutazione delle conseguenze
dell’azione. Un tipico esempio di etica teleologica è
invece l’utilitarismo, che considera moralmente giusto il
comportamento le cui conseguenze garantiscono il maggior
benessere possibile per il maggior numero di persone
coinvolte.
Naturalmente non è
possibile, qui, illustrare tutte le implicazioni, storiche
e concettuali, della classificazione di Broad, dal momento
che la letteratura sull’argomento abbraccia di fatto
l’intera storia dell’etica dello scorso secolo. In questa
sede sarà sufficiente sottolineare l’esistenza di un
problema, teorico e storiografico, che nella prospettiva
di Cognato non sembra sia stato tenuto in debita
considerazione. E infatti, per quanto risulti utile come
schema di riferimento, la distinzione tra etica
teleologica ed etica deontologica è debitrice del contesto
storico (gli inizi dello scorso secolo) e teorico
(l’ambito analitico) in cui è nata, cosicché chiunque
voglia farne un uso filosofico e non solo classificatorio,
deve farlo sempre consapevole di questa circostanza. In
caso contrario il pericolo è di cadere in indebite
generalizzazioni o, peggio, in confusioni concettuali che
rischiano di compromettere tutto il prosieguo
dell’argomentazione.
2. Teleologia,
utilitarismo, valori morali e valori non-morali
Ora, il modello etico
teleologico adottato da Cognato è quello teorizzato per la
prima volta dal teologo gesuita tedesco Bruno Schüller nel
suo importante Die Begründung sittlicher Urteile,
pubblicato nel 1973.
Cognato recepisce la prospettiva di Schüller soprattutto a
partire dalla rielaborazione che ne ha fatto Salvatore
Privitera, un altro teologo morale, di cui Cognato può
essere a buon diritto considerato uno dei migliori allievi.
L’etica teleologica di cui parliamo qui, pertanto, nasce
sul terreno della teologia morale. Più precisamente, come
mostra Giuseppe Abbà in un’accurata ricognizione storica,
essa «è opera di teologi tedeschi sia alle prese con la
teologia luterana sia con la filosofia secolarizzata», e
viene sviluppata con la precisa intenzione «di rendere
razionalmente comunicabile l’etica cristiana nei confronti
della filosofia secolare».
E poiché la filosofia secolare ha da tempo sottoposto a
dura critica l’idea che vi possano essere azioni giuste o
ingiuste “per natura”, la prima mossa della neonata etica
teleologica è quella di sbarazzarsi dell’idea di legge
naturale, sostituendola con quella, tipicamente moderna,
di autonomia.
Certo si tratta di un’autonomia “teonoma”, nel senso che
il teologo non può rinunciare all’idea che la capacità
umana di autodeterminarsi è pur sempre ricevuta da Dio, e
tuttavia si tratta qui di un’autonomia effettiva, nella
misura in cui l’uomo è lasciato a se stesso e alla propria
responsabilità morale, dal momento che non può consultare
Dio per sapere cosa deve fare nelle singole circostanze
della sua vita. Se dunque non è la volontà di Dio né una
ragione aperta alla natura umana a dirci cosa è bene e
cosa è male, bisogna trovare un nuovo modo, che faccia
riferimento all’autonomia del soggetto, per determinare e
per giustificare le norme morali. Il nuovo modo proposto
dall’etica teleologica è la “valutazione comparativa dei
beni” (Güterabwägung), che richiama il famoso
principio utilitarista secondo cui bisogna agire in modo
che le conseguenze dell’azione (o di una regola di azione)
producano il maggior bene per il maggior numero di persone
coinvolte.
Comparazione che va fatta non tra diverse azioni, ma tra
le diverse e prevedibili conseguenze delle azioni o
omissioni a disposizione del soggetto agente. Così,
nell’etica teleologica, scrive Schüller, «il carattere
morale di tutte le azioni e omissioni dell’uomo
viene determinato esclusivamente in base alle loro
conseguenze».
Laddove «per “conseguenze di un’azione” si intende il bene
o il male che essa opera per tutte le persone coinvolte.
Perciò pensa teleologicamente chi è dell’idea che, fra due
modi di agire passibili di scelta, è moralmente corretto
quel modo di agire che, a paragone dell’altro, opera
maggior bene».
Ma che tipo di “bene” è
quello a cui mira l’etica teleologica? Non si tratta
innanzitutto di “bene” ma di “beni” e di beni (o valori,
come preferisce esprimersi Cognato)
c.d. “pre-morali” (o “ontici”), come la vita fisica, il
benessere, la proprietà, la procreazione, la salute e
tutto ciò che riguarda la costituzione psico-somatica
dell’uomo. Questi beni sono contingenti, e la loro
molteplicità li mette spesso in conflitto nelle situazioni
concrete, cosicché spesso non è possibile, per l’etica
teleologica, realizzarli tutti contemporaneamente, ma
occorre sacrificarne qualcuno. Da qui una distinzione tra
ciò che è moralmente «corretto» (richtig) e ciò che
è moralmente «buono» (gut). Agisce in modo
moralmente “corretto” colui che, tenendo conto delle
conseguenze delle sue azioni, realizza un optimum di bene
“pre-morale” per tutti i soggetti coinvolti dalla sua
azione. Agisce moralmente “bene” chi, nel compiere questa
azione, lo fa con un’intenzione buona, e cioè mirando ai
valori propriamente morali della “giustizia”,
dell’“amore”, della “benevolenza” ecc. Volere l’azione che
produce il maggior bene non-morale di tutti i soggetti
coinvolti, volere dunque ciò che è «moralmente corretto»,
rende la volontà «moralmente buona».
Qualche critico ha fatto
notare che l’etica teleologica «ha un notevole fascino,
perché sembra assumere il principio della razionalità.
Razionalizzare è massimizzare qualcosa; in morale, è ovvio
che si tratterà di massimizzare il bene, e a questo scopo
si deve procedere attraverso un’adeguata ponderazione
delle conseguenze. Ma tale attrattiva e quest’avvincente
semplicità hanno il loro prezzo: il degrado sia della
ragione pratica che dell’ideale etico. La prima diventa
ragione calcolatrice; il secondo rischia di essere
limitato alle dimensioni più materiali della vita, perché
soltanto dove c’è materia è possibile calcolare e
massimizzare».
Non a caso, gli autori che sposano il modello teleologico
sono molto sensibili all’accusa di utilitarismo. In
effetti è innegabile che l’etica teleologica recepisca
l’istanza utilitarista ma bisogna anche riconoscere che
essa non è un’etica utilitaristica. E questo non tanto
perché, come afferma Cognato, l’utilitarismo sarebbe
relativista mentre l’etica teleologica non lo sarebbe.
Il motivo, piuttosto, va ricercato nel contesto
teologico dell’etica in questione, in cui la
valutazione delle conseguenze viene applicata a una
concezione della vita morale molto diversa da quella
dell’utilitarismo. E infatti, come nota ancora Abbà, «La
teologia morale dà molta importanza alle disposizioni
interiori del soggetto agente, che sono rilevanti per la
sua salvezza eterna, e non considera solo le azioni
esteriori e le loro conseguenze [come nell’utilitarismo].
Inoltre, nella misura in cui considera moralmente corrette
le azioni esteriori in quanto procurano e promuovono il
bene dell’uomo, la teologia ha una concezione della natura
e del bene dell’uomo assai più complessa che non quella
dell’utilitarismo [...]. Perciò il risultato
dell’accoglienza dell’argomentazione [utilitaristica]
nella teologia morale non poteva essere che una modifica
di entrambe, la formazione di un tipo di ricerca morale
originale e inedito, denominata in Europa etica
teleologica e negli Stati Uniti proporzionalismo».
3. Giudizio morale «già
chiaro indipendentemente dalle conseguenze»?
In effetti, come nota
giustamente Cognato, «in ultima analisi, la discriminante
tra pista deontologica e pista teleologica è il problema
se esistono o se possono esistere azioni intrinsecamente
cattive (intrinsece mala)» (A, p. 14). La
tradizione che abbiamo definito giusnaturalistica e che
poi è confluita nel pensiero cristiano, ha sempre
affermato, a partire da Aristotele,
l’esistenza di azioni di tal genere, e cioè di azioni
cattive in se stesse, che dunque non possono diventare
buone in base alle intenzioni soggettive di chi le compie,
dei beni che si ottengono attraverso di esse o delle
circostanze nelle quali sono compiute. L’esistenza di
azioni di questo tipo dà luogo all’esistenza di norme che
le proibiscono in modo assoluto, senza ammettere eccezioni.
Ora, secondo Cognato, che con ciò intende rimarcare la
differenza tra questa tradizione e la moderna etica
teleologica, l’affermazione dell’esistenza di atti
intrinsecamente cattivi dipenderebbe dall’idea che, «in
alcuni contesti operativi», si debba prescindere da ogni
conseguenza. In certe situazioni, cioè, l’etica che qui
viene chiamata deontologica emetterebbe un giudizio morale
«già chiaro indipendentemente dalle conseguenze
dell’azione stessa» (ibidem). Da qui la conclusione di
Cognato, secondo cui affermare l’esistenza di atti
intrinsecamente cattivi significhi sposare un’etica che
prescinde dalle conseguenze, e dunque un’etica
deontologica, alla quale si contrapporrebbe un’etica
teleologica che, contrariamente alla prima, «guarda
sempre» alle conseguenze prima di giudicare buona o
cattiva un’azione (ivi, p. 15). Ma davvero affermare
l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi significa
“prescindere dalle conseguenze”? Più radicalmente: è
davvero possibile affermare l’esistenza di azioni che
“prescindono dalle conseguenze”? La migliore risposta a
questa domanda viene da una pagina di Hegel:
Il
principio “nelle azioni bisogna trascurare le
conseguenze”, e il principio “bisogna giudicare le azioni
dalle conseguenze, e si devono assumere queste ultime come
misura di ciò che è giusto e buono”, sono entrambi
ugualmente frutto dell’intelletto astratto. Le
conseguenze, in quanto sono la configurazione immanente
propria dell’azione, manifestano soltanto la sua natura e
non sono altro che l’azione stessa. Pertanto l’azione non
può ripudiarle e trascurarle. Per converso, però, tra le
conseguenze è compreso anche ciò che vi si frammischia
esteriormente e si aggiunge accidentalmente, e tutto
questo non concerne affatto la natura dell’azione stessa.
Qui Hegel dimostra,
efficacemente, che sarebbe assurdo valutare un’azione
prescindendo da ogni conseguenza, per il semplice motivo
che un’azione è, per definizione, la produzione di una
conseguenza. Agire, infatti, significa produrre un
effetto, una conseguenza. Ciò non esclude che oltre alla
conseguenza direttamente causata – che è l’azione stessa –
vi siano altre conseguenze. Solo che queste altre
conseguenze sono accidentali rispetto alla natura propria
dell’azione. Se si tiene conto di questo, l’etica c.d.
deontologica non differirà dall’etica teleologica per il
fatto di non considerare le conseguenze, ma per il diverso
modo di considerarle, distinguendo conseguenze essenziali
e conseguenze accidentali. Un esempio può rendere più
chiara l’idea. Ipotizziamo un caso in cui si tratti di
comunicare l’infausta diagnosi a un malato di cancro.
Poiché per l’etica teleologica il criterio determinante
consiste nel valutare attentamente le possibili
conseguenze che derivano da un’azione o da un’omissione,
se si prevede che dire la verità al malato gli causerà uno
stato di profonda depressione, allora si deciderà di non
dirgli la verità. Poco importa che dire la verità sia un
valore. Per l’etica teleologica, infatti, nessuna azione,
neanche quella di dire la verità, può essere considerata
sempre giusta senza prima calcolare gli effetti che essa
prevedibilmente produrrà in determinate circostanze. Per
l’etica deontologica, invece, poiché esistono azioni che
sono sempre giuste o ingiuste, si tratterà di comunicare
sempre la verità, preoccupandosi, naturalmente, che ciò
avvenga in modo umano e rispettoso dei tempi e della
sensibilità del malato. Non dire la verità al malato
significherebbe, per l’etica deontologica, privarlo
ingiustamente della possibilità di affrontare il suo
destino in modo consapevole e libero.
Come si può notare, anche
l’etica deontologica valuta le conseguenze. Nel primo caso
evitare la depressione al malato è la conseguenza
dell’azione “non dirgli la verità”. Nel secondo caso, la
possibilità del malato di affrontare coscientemente il suo
destino è la conseguenza dell’azione “dirgli la
verità”. Chi non vuole mentire al malato non prescinde
certo da ogni conseguenza, ma, tra le varie conseguenze
della menzogna in quel contesto, prende in considerazione
soltanto una conseguenza, e precisamente quella che
rende tale il mentire, ovvero il fatto che il malato viene
ingannato in una situazione in cui la verità gli è dovuta.
Senza questa specifica conseguenza non ci sarebbe
menzogna, altrimenti raccontare una favola sarebbe lo
stesso che mentire.
L’etica in questione, dunque, considera soprattutto le
conseguenze che specificano alcune azioni come un certo
tipo di azioni, contrariamente all’etica teleologica,
che invece considera tutte le conseguenze ulteriori
dell’azione già specificata. Se dunque sia l’etica
teleologica sia l’etica deontologica ritengono che le
conseguenze delle azioni siano il metro per giudicarne la
moralità, e se dunque il considerare o il non considerare
le conseguenze non è un criterio per distinguerle, dove
sta allora la differenza?
Il problema
non è considerare le conseguenze o trascurare le
conseguenze, ma domandarsi, da un lato, per quali
conseguenze, di quelle che provochiamo con il nostro
agire, siamo moralmente responsabili e, dall’altro lato,
nei confronti di chi, colui che agisce, deve
innanzitutto rispondere delle sue azioni. Alla prima
domanda l’etica teleologica di Cognato risponde che noi
siamo responsabili di tutte le conseguenze previste
e prevedibili delle nostre azioni; mentre alla seconda
risponde che chi agisce è responsabile di tutti (criterio
dell’imparzialità) anche se di fatto, per cause
contingenti (non morali), vige un “criterio di precedenza”
per cui si è responsabili innanzitutto di coloro che,
nelle singole circostanze, hanno più bisogno di noi. Da
qui la necessità
della Güterabwägung: se infatti chi compie l’azione
è responsabile di tutte le conseguenze e non
principalmente di quella che specifica l’azione nella sua
qualità morale intrinseca, si pone il problema della
comparazione delle conseguenze, allo scopo di raggiungere
uno stato di cose positivo per il maggior numero di
soggetti coinvolti nell’azione. La vera questione a cui
etica teleologica ed etica giusnaturalistica (più che
deontologica) danno risposte diverse è allora questa:
non è lecito, in nessun caso, provocare certe conseguenze
(giusnaturalismo), oppure qualsiasi comportamento può
essere lecito se le conseguenze positive superano quelle
negative? (teleologismo).
4. Valore della vita e
“cura” per la vita: sulle aporie del dualismo tra vita
come valore non-morale e persona
Seguiamo, a questo punto,
l’argomentazione di Cognato, che mette alla prova il
confronto deontologia-teleologia sul campo di quello che
egli definisce “il valore della vita” e della “cura” che
ad essa è dovuta. Cognato osserva giustamente che la vita
non è un valore assoluto ma un valore fondamentale. Lo
scopo della vita, infatti, non è vivere, ma vivere bene:
«Se la vita fosse il valore morale, quindi il valore
sempre da preferire in ogni circostanza, ovvero se fosse
il valore più alto tra i valori non potremmo annoverare il
martirio come un’azione morale» (V § 2). Qui, seguendo
Schüller, si ritiene che la vita sia un valore
fondamentale ma non un valore morale. La vita è un valore
fondamentale perché, senza di essa, non potrebbero
realizzarsi tutti gli altri valori, sia non morali sia
morali. Ma essa è, al tempo stesso, un valore non morale
perché riguarda una dimensione che non dipende da noi, che
non è oggetto di possibile scelta. L’unica scelta
possibile nei confronti della vita è la scelta di
tutelarla, riconoscendone il carattere di fondamento:
«Questo significa, che negli svariati e complessi contesti
normativi il valore vita se entra in concorrenza con altri
valori non morali deve essere sempre preferita, cioè deve
avere la precedenza su tutti gli altri. [...] Senza,
infatti, vita non è possibile realizzare nessun altro
valore e poiché l’uomo ha il diritto-dovere di realizzarsi
come soggetto morale, a lui bisogna dare sempre questa
grande possibilità» (ivi).
Ora, nella prospettiva di
Cognato il modo migliore di custodire «questa grande
possibilità», senza cadere nelle difficoltà in cui sarebbe
caduta la tradizione che qui è definita “deontologica”, è
quello di adottare un modello etico di tipo teleologico.
Vale la pena riportare un intero brano di Cognato, vista
la chiarezza con cui viene illustrata la posta in gioco:
La pista deontologica porta come argomento a sostegno
dell’inviolabilità della vita quello della mancanza di
permesso e si esprime sempre in termini di illiceità:
nessuno ha il diritto di togliere la vita ad altri. La
mancanza di permesso che sostiene sempre l’illiceità di
uccidere esprime a tutto tondo l’inestimabile
considerazione che si nutre nei confronti della vita e
tale considerazione non è altro che la percezione della
fondamentalità del valore vita per ogni uomo. Ma, ed ecco
che subentra la pista teleologica, le situazioni della
vita non sempre possono essere risolte con
un’argomentazione che non prevede eccezioni. Infatti,
l’evidenza di non poter applicare la norma
deontologicamente formulata istruisce la possibilità di
intraprendere un processo di riformulazione teleologica
dell’argomentazione deontologica. E i casi di legittima
difesa, di rischio per la propria incolumità, di uccisione
del tiranno e di guerra giusta ne sono un esempio nella
storia della riflessione etica. Ora, la pista teleologica
non costituisce un ridimensionamento della fondamentalità
del valore vita, chiarissimo nell’argomentazione
deontologica, piuttosto la ricerca di una norma ben
aderente ai diversi contesti operativi problematici, che
valuti tutte le conseguenze ed in base ai valori realizzi
quelli possibili, ridice con più forza la fondamentalità
del valore vita senza alcun ridimensionamento (V § 6).
Qui Cognato ritiene che la
norma deontologica “non uccidere” sia fondata sulla
“mancanza di permesso”. L’espressione è ripresa da
Schüller, anche se qui è privata del contesto teologico a
cui lo studioso tedesco l’aveva riferita per definire la
morale cattolica tradizionale, secondo la quale alcune
azioni sarebbero proibite perché “Dio non ci dà il
permesso di compierle”. A prescindere dalle riserve che si
possono avere su questa idea della morale tradizionale,
che in realtà, come abbiamo visto, è debitrice della
concezione occamista e legalista dell’etica,
qui Cognato ritiene che la maggiore plausibilità del
modello teleologico, rispetto a quello deontologico,
dipenda dal fatto di essere un modello più realistico,
perché capace di adattarsi flessibilmente alle varie
circostanze senza con ciò sacrificare il valore
fondamentale della vita. E, anche qualora questo valore
dovesse essere sacrificato, si tratterebbe di un
sacrificio moralmente connotato, dal momento che sarebbe
giustificato dal fatto di promuovere il valore morale
della persona, che trascende quello non-morale della vita.
La vita infatti, come si diceva, è valore fondamentale,
sì, ma non assoluto. Così, mentre l’etica deontologica
tradizionale afferma una norma assoluta ma poi è
costretta, nel tentativo di applicarla, a formulare una
serie di eccezioni alla norma, l’etica teleologica
riconosce, fin dall’inizio, che l’unica norma assoluta è
quella che, una volta considerate le conseguenze,
configura un’azione come moralmente doverosa perché
produce il maggior bene, sia morale, sia pre-morale. Una
norma del tipo “non si devono mai uccidere esseri umani
innocenti” sarebbe inadeguata, pertanto, non solo perché
farebbe della mera vita fisica un valore morale
(assoluto), ma anche, e soprattutto, perché risulterebbe
di fatto inapplicabile nei «diversi contesti operativi
problematici».
Così, secondo Cognato «le
cosiddette eccezioni alla sacralità della vita, come
uccisione per legittima difesa, pena di morte, guerra
giusta e rischio per la propria incolumità, non potrebbero
trovare alcuna giustificazione fuori della considerazione
secondo la quale la vita non è un valore morale» (ivi). Ma
è davvero così? Davvero se, nel difendersi, si uccide un
ingiusto aggressore lo si può fare legittimamente solo a
condizione di considerare la vita un valore non-morale?
Per comprenderlo ci si dovrebbe domandare quale è,
nell’ottica teleologica, il valore che giustifica, in
questo caso, il sacrificio del valore non-morale “vita”
dell’aggressore. A rigor di logica dovremmo dire che
l’unico valore che autorizza a uccidere l’aggressore è qui
il valore non-morale “vita” della potenziale vittima. Ma
perché il valore non-morale “vita dell’aggressore”
dovrebbe qui valere di meno del valore non-morale “vita
della potenziale vittima”? Uccidendo l’aggressore, la
potenziale vittima non rischia qui di assumere un
atteggiamento parziale, funzionale alla salvaguardia dei
propri interessi a scapito di quelli altrui? Non si
rischia, uccidendo l’aggressore, di chiudere la sua
avventura esistenziale in un momento in cui la sua volontà
è moralmente disordinata, e di farlo solo per salvare il
valore non-morale della propria vita? In effetti, se la
vita è un valore non-morale la cui importanza, come
sostiene Cognato, consiste nel rendere possibile la
realizzazione morale dell’uomo, qui si dovrebbe concludere
che, teleologicamente, sarebbe giusto e doveroso
lasciarsi uccidere. Solo in questo caso si
otterrebbero le migliori conseguenze morali e non-morali:
salvando il valore non-morale “vita dell’aggressore”
anziché quello proprio si terrebbe infatti aperta la
possibilità di pentimento dell’aggressore realizzando, nel
voler rendere possibile questo pentimento, anche la
propria moralità.
Cognato rigetterebbe
senz’altro simili conseguenze, che, tuttavia, sembrano
sfociare necessariamente da un certo dualismo sotteso al
modello teleologico: da un lato una piattaforma neutra, la
vita come valore non-morale, dall’altro la possibile
realizzazione morale delle persone, che dipenderebbe dalla
capacità di calcolare e di distribuire equamente i valori
non-morali resi possibili dalla vita. Capacità che
dovrebbe essere esercitata da una posizione di
imparzialità, e dunque da un’ottica che astrae dalla
concreta situazione del soggetto agente, che non agirebbe
più in prima persona ma a partire da uno sguardo neutrale
sulla situazione.
Cognato riconosce, onestamente, che il rischio di questo
rapporto estrinseco tra vita e persona è connaturato
all’etica teleologica e, nel tentativo di superarlo,
precisa: «Dire che il valore vita è il più fondamentale
perché proprio se c’è vita è possibile realizzare tutti
gli altri valori non significa ritenere il valore vita
come strumentale. Significa, al contrario, che la vita è
il luogo dove i valori si inabitano, compreso quello
morale. Dice bene Cattorini:«la vita non è oggetto che
possiedo, ma realtà che sono», soprattutto realtà morale»
(ivi). Questo lodevole tentativo di recuperare l’unità
della persona si scontra, però, con il dualismo
antropologico a cui si è costretti dall’assunzione del
modello teleologico, con la sua distinzione netta tra
dimensione pre-morale e dimensione morale. E infatti, se
la vita non è oggetto che possiedo ma realtà che sono, e
se questa realtà che io sono, come scrive Cognato, è
soprattutto realtà morale, allora la vita dovrebbe essere
anch’essa considerata come un valore morale. Se invece,
nonostante l’identità tra la mia vita e la persona che
sono, non consideriamo la vita un valore morale, rischiamo
di farne un mezzo neutrale, distinto dalla persona che la
vive, e di cui la persona potrebbe disporre liberamente:
non ci sarebbe differenza tra chi si uccide e chi muore
per salvare la vita altrui o tra l’eutanasia e il
martirio. Mi sembra che questa differenza, a cui
giustamente Cognato tiene, non possa essere garantita né
dal criterio del “moralmente buono” né da quello del
“moralmente corretto” e nemmeno, infine, dalla
combinazione di entrambi. Se “moralmente buona” è una
volontà che persegue i valori autenticamente morali
dell’imparzialità, della giustizia, della benevolenza
ecc., e se “moralmente corretta” è l’azione con cui si può
anche rinunciare al valore non-morale della vita in nome
di un valore morale più alto, deve esserci un criterio,
diverso sia dall’intenzione con cui rinuncio al
valore-vita sia dal valore “vita”, che mi consenta di
stabilire la differenza tra un modo moralmente buono e
uno moralmente cattivo di rinunciare alla vita. In
effetti, in base a quale ragione un malato che si uccide
per sollevare i parenti da un peso non utilizzerebbe
correttamente il valore non-morale “vita” mentre il
martire, che invece si fa uccidere pur di non tradire
quella che egli ritiene la verità, lo utilizzerebbe
correttamente? Se entrambi vanno incontro alla morte con
spirito di carità e altruismo, rinunciando liberamente a
un valore non morale che serve a esprimere il valore
morale della persona, perché mai ci dovrebbe essere una
differenza?
Il principio secondo cui
la vita andrebbe sempre rispettata, difesa e promossa «per
il fatto che essa è il luogo dove tutti gli altri valori
possono realizzarsi» (V § 4) non è in grado di fornire
alcuna risposta. Anzi, un tale principio, che se
considerato parzialmente è senz’altro condivisibile, crea
problemi non appena diventa “il” principio. Mi pare
infatti che alla luce di questo principio la vita assuma
davvero l’aspetto di un contenitore neutro, il cui unico
scopo sarebbe quello di essere funzionale a una sorta di
“prestazione morale della persona” che, sola, avrebbe
valore assoluto. L’idea che la vita sia un valore
non-morale non sconta, qui, una dipendenza eccessiva da
una visione puramente scientifica della vita, che la
concepisce solo come base biologica della persona? Se
davvero fosse così, da un lato avremmo senz’altro motivi
per rispettare la vita di un embrione umano, nella
prospettiva che egli, un giorno, potrà grazie a ciò
realizzarsi moralmente, ma, dall’altro lato, non avremmo
forse alcun motivo di mantenere in vita un soggetto in
stato vegetativo persistente o affetto dal morbo di
Alzheimer, le cui possibilità di realizzazione morale sono
minime, per non dire del tutto assenti. In effetti la
decisione di mantenere in vita un anziano affetto dal
morbo di Alzheimer non può essere giustificata facendo
appello al fatto che la vita è il luogo in cui tutti gli
altri valori possono realizzarsi: quali valori può
realizzare un soggetto in queste condizioni? A meno di non
affermare che i valori che la vita di tale soggetto
consente di realizzare sono quelli che realizzano coloro
che, facendosene carico, esercitano in tal modo la loro
solidarietà. Solo che, in questo caso, si finirebbe per
rispettare la vita del malato non per il valore che essa
ha in se stessa ma per il valore che può avere per gli
altri. O, peggio, si finirebbe per usare la vita del
malato come un mezzo per raggiungere il proprio
perfezionamento morale. Davvero la vita è un valore
non-morale? Non ci sono casi in cui, invece, la vita umana
è in se stessa presenza morale, anche se chi vive
non è capace di realizzarsi moralmente?
5. Sull’autentico
significato degli atti intrinsecamente cattivi
Come si può vedere, anche
l’idea che la vita sia il più fondamentale dei valori
non-morali non è priva di difficoltà una volta che,
ragionando teleologicamente, la si applichi a situazioni
controverse. Forse tali situazioni sono meglio affrontate
e infine risolte da un approccio giusnaturalistico? Come
abbiamo visto, Cognato lo esclude, ribadendo che l’idea
che esistano atti intrinsecamente cattivi «non tiene in
considerazione il fatto che il valore vita possa entrare
in conflitto con altri valori, come avviene nei casi di
eccezione al principio di inviolabilità della vita, e ciò
la rende non adeguata ad affrontare tutte le situazioni
che la vita può presentare» (V § 5). Per discutere questo
punto, è necessario fare due precisazioni sul modo in cui
la tradizione a cui Cognato si riferisce ha definito le
norme che riguardano gli atti intrinsecamente cattivi.
Una prima
precisazione riguarda il rapporto che viene istituito tra
i beni o i valori coinvolti nell’azione in questione e le
corrispondenti norme morali. Limitandoci al valore della
vita umana, possiamo dire che la tradizione
giusnaturalistica ha formulato, riferendosi a questo
valore, una norma assoluta di tipo negativo, che
proibisce, sempre e comunque, l’uccisione diretta e
volontaria di un essere umano innocente. Contrariamente a
questa e ad altre (poche) norme di tipo negativo e
assoluto, che dunque prescrivono di astenersi sempre
dal compiere certe azioni,
le norme morali positive, che prescrivono un certo atto da
compiere, pur essendo sempre valide, non sono sempre
obbligatorie, ma devono essere sottoposte a una
valutazione delle circostanze, per verificare che non vi
siano, nel singolo caso, altri doveri più importanti e più
urgenti. Bisogna allora precisare che mentre non osservare
le norme negative assolute significa violarle, non
applicare le norme positive, che pure sono sempre valide,
non significa violarle. Per esempio, “nutri i tuoi figli”
è una norma morale positiva, vera e cogente, ma non è
assoluta.
E infatti, nel caso in cui l’unico cibo disponibile fosse
il corpo di un figlio altrui, ancora vivo, quella norma
non potrebbe moralmente essere applicata. O, per
riprendere un esempio già citato nella Repubblica
di Platone e ripreso da Tommaso d’Aquino, la norma
“restituisci i prestiti” non dovrebbe essere osservata se,
essendomi stata prestata un’arma, colui che me l’ha
prestata è impazzito o è diventato un criminale. In
entrambi questi casi non osservare la norma non significa
violarla.
Una
seconda precisazione riguarda il concetto di “eccezione”.
Il sospetto è che le eccezioni di cui parla Cognato siano
in realtà azioni di genere diverso da quelle proibite
dalla norma. E infatti, l’assoluto morale non è «come un
bicchiere di cristallo che non sopporta incrinature: o
resta intatto o si sbriciola in mille pezzi»,
non è cioè un contenuto normativo indifferente alle
circostanze concrete nelle quali dovrebbe essere
applicato. Al contrario: sono proprio le circostanze che
definiscono la sua fattispecie morale.
La fattispecie morale “omicidio”, per esempio, non si
identifica con l’azione che materialmente causa la morte
di una persona, considerata astrattamente e applicata a
tutte le situazioni, ma fa riferimento alla particolare
circostanza che vede nella vittima una persona
innocente piuttosto che, per esempio, un ingiusto
aggressore. Allo stesso modo, la fattispecie morale
“adulterio” non fa riferimento alla copula fisica, ma alla
circostanza che una delle due persone che compiono
fisicamente l’atto sessuale è sposata con un’altra
persona. Una volta che si sia verificata la circostanza
decisiva tutte le altre circostanze diventano moralmente
irrilevanti per definire la fattispecie dell’azione. O,
diversamente detto, una volta che si siano verificate le
circostanze che identificano un certo tipo di azione per
es. come “omicidio”, allora tale azione non dovrebbe mai
essere compiuta, quali che siano le ulteriori
circostanze.
Quanto
detto dovrebbe chiarire perché nel caso della legittima
difesa, per esempio, non c’è un conflitto tra il valore
della vita dell’aggressore e quello dell’aggredito. Questo
conflitto esiste solo per l’etica teleologica, in cui
l’aggredito si colloca al di fuori di se stesso (fuori
delle circostanze) per soppesare i due valori “vita” e per
decidere, imparzialmente, quale dei due debba essere
sacrificato a beneficio dell’altro. Una visione del
genere, trattando astrattamente l’aggressore e l’aggredito
come ricettacoli neutri di qualcosa come “il valore vita”,
vede nel tentativo di uccidere da parte dell’aggressore e
nel tentativo di difendersi da parte dell’aggredito un
conflitto tra valori pari (dal momento che entrambi sono
soggetti del “valore vita”), conflitto che potrebbe essere
risolto solo ammettendo un’eccezione alla regola che
impone di rispettare sempre la vita. Nella tradizione
giusnaturalista, invece, in cui il giudizio morale non è
formulato dal punto di vista dello spettatore imparziale
ma dal punto di vista del soggetto agente, non si dà qui
un vero e proprio conflitto di valori, cosicché la
legittima difesa non è intesa come un’eccezione al divieto
di uccidere. E infatti, già per Tommaso d’Aquino,
l’assolutezza del “non uccidere” riguarda ogni atto
direttamente finalizzato alla soppressione di un essere
umano innocente, ciò che, propriamente, si definisce
“omicidio”. La legittima difesa è ritenuta tale, invece,
perché essa non è un’azione finalizzata all’uccisione di
un essere umano innocente ma alla sua difesa. La legittima
difesa potrebbe essere presentata come un’eccezione se il
precetto fosse: “promuovi sempre (in positivo) la vita (in
generale)”. Ma poiché il precetto in questione è invece:
“non uccidere direttamente (volontariamente) l’essere
umano innocente”, quando in una peculiare circostanza
l’essere umano è nocente, e tale è l’aggressore, allora ci
si può difendere (se si è aggrediti) e si deve difendere
(se aggrediti sono gli altri) anche provocando la morte
dell’aggressore. Si badi: qui la morte dell’aggressore non
è propriamente voluta, e nemmeno è un mezzo che si
sceglie di utilizzare per conservare la vita
propria o altrui. Piuttosto: si vuole propriamente
conservare la propria o l’altrui vita, laddove la morte
dell’aggressore, benché materialmente causata dall’azione
che si è deciso di compiere, è, dal punto di vista morale,
una conseguenza che si tollera (effetto indiretto) e non
uno scopo che si vuole o un mezzo che si sceglie (effetto
diretto). Senza voler qui entrare nella complessa tematica
del “principio del duplice effetto”, ci si può limitare a
ricordare che affinché la morte dell’aggressore non sia
voluta come mezzo al fine di difendersi ma sia solo
accettata come conseguenza collaterale, è necessario
che essa si verifichi simultaneamente all’atto
mediante cui si ottiene il fine di salvare la propria o
l’altrui vita. Cercando di rendere più chiara questa
implicazione, Tommaso d’Aquino afferma che se non è mai
lecito uccidere per difendersi può essere lecito
uccidere difendendosi.
Che sia così è dimostrato dal fatto che se la mia o
l’altrui vita potesse essere conservata in altro modo,
evitando la morte dell’aggressore, lo si farebbe. Che si
arrivi invece a provocarne la morte per conservare la
propria o l’altrui vita è circostanza da addebitare alla
scelta dell’aggressore stesso e non alla scelta di chi, in
questo modo, esercita il proprio legittimo diritto/dovere
di difesa. Se dunque l’azione intrinsecamente cattiva
riguarda solo la scelta deliberata di uccidere un’altra
persona o come fine o come mezzo in vista del fine, allora
la legittima difesa non è un’eccezione al precetto “non
uccidere” e non c’è nessun bisogno di rivedere
l’assolutezza della norma.
Alla
prospettiva appena delineata viene mossa, dal punto di
vista teleologico, l’accusa di ritenere impropriamente
assoluta una norma che si riferisce a un bene (la vita
fisica, la fedeltà coniugale ecc.) che non è assoluto.
Assolutizzare un bene finito tutelandolo con una norma
morale assoluta, si dice, non equivale a una forma di
idolatria?
Come spiega molto chiaramente Finnis, questa obiezione si
fonda «su un equivoco circa il significato del termine
“assoluto”. “Norma morale assoluta” non significa nulla
più che “norma morale inderogabile”. Norme di questo
genere sono proposte come vere non perché i beni che
tutelano siano assoluti, ma perché “non può” essere
ragionevole avere nei confronti di essi determinate
disposizioni della volontà, per esempio intendere la loro
distruzione, il loro danneggiamento o impedimento».
A questo chiarimento, ricavato da una corretta lettura
della dottrina tradizionale, si può aggiungere l’odierna
valorizzazione, da parte di autori come Emmanuel Lévinas e
Hans Jonas, del rapporto tra l’assolutezza dell’istanza
morale e la contingenza del bene a cui tale istanza fa
riferimento. Rimangono proverbiali, da questo punto di
vista, le pagine di Lévinas sulla fragilità del volto e
quelle di Jonas sul rapporto tra i genitori e il neonato.
In entrambi i casi la fragilità e la povertà dell’altro, e
dunque la radicale contingenza del bene, non escludono ma
piuttosto esigono una totale e incondizionata dedizione
morale.
6. Quale problema?
Quale soluzione? Dall’agire morale al fare tecnico
Come abbiamo visto, uno
dei difetti dell’etica che ammette l’esistenza di atti
intrinsecamente cattivi è, secondo Cognato, quello di non
essere in grado di risolvere i problemi che «tutte le
situazioni della vita» possono presentarci. Una buona
cartina di tornasole per verificare la pertinenza di
questa obiezione è il caso, citato spesso nei dibattiti di
filosofia e di teologia morale (soprattutto dello scorso
secolo),
di un uomo a cui viene chiesto di uccidere un bambino
sotto la minaccia che, se egli si rifiuta, verranno uccisi
altri dieci bambini. Questo tragico caso è a mio avviso
particolarmente interessante perché dimostra, in modo
efficace, le aporie del modello etico teleologico. E
infatti, dal punto di vista teleologico sarebbe non solo
lecito ma addirittura doveroso uccidere un bambino qualora
le conseguenze di questa uccisione fossero la salvezza
della vita di altri dieci bambini e il perfezionamento
morale delle loro persone. In questo caso le conseguenze
sia non-morali sia morali dell’uccisione sarebbero
nettamente migliori del danno causato, che è quello
dell’eliminazione del valore non-morale “vita di un
bambino” e del valore morale “possibile perfezionamento
morale del bambino ucciso”. A voler valutare le
conseguenze, la realizzazione morale di dieci bambini
divenuti adulti, in effetti, è meglio della morte e del
mancato perfezionamento morale di un solo bambino. Il
criterio della valutazione delle conseguenze, applicato
alla distinzione tra beni morali e beni pre-morali, ci
porta pericolosamente vicini a questo esito. A meno di non
riconoscere che non tutte le azioni sono suscettibili di
essere valutate moralmente sulla base delle conseguenze,
ammettendo l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi,
che non possono mai essere compiuti, come sostiene la
dottrina classica della legge naturale.
Ora, invece, i sostenitori
dell’etica teleologica ritengono che l’affermazione di
atti intrinsecamente cattivi, considerati tali a
prescindere dalla valutazione comparativa delle
conseguenze, sia di ostacolo in situazioni estreme come
queste. Identificare una certa azione come intrinsecamente
cattiva, come scrive per esempio Schüller, significa non
«tener conto di quali catastrofiche conseguenze la sua
omissione possa avere».
Da questo punto di vista, si potrebbe dire che rifiutarsi
di uccidere un bambino equivarrebbe all’atto egoistico di
chi, pur di non macchiarsi la coscienza, manderebbe a
morte dieci bambini, benché potesse evitarlo. Il problema
sarebbe invece risolto – nonostante il teleologo riconosca
che non si tratta certo di una soluzione ideale ma di una
soluzione imposta da uno stato di necessità – una volta
che si sia valutato che la morte di un bambino (sia in
termini non-morali che morali) è meglio della morte di
dieci bambini. E infatti, anche optando per l’uccisione di
un bambino innocente, il teleologo non verrebbe meno alla
sua idea di tutelare la vita, per il semplice fatto che,
valutando tutti i valori e i disvalori in gioco e non
essendoci altre vie d’uscita, opterebbe per la salvezza
del numero maggiore di vite (il «maggior bene» di cui
parla appunto Schüller).
In questa proposta di
soluzione tutta l’attenzione si concentra su ciò che il
soggetto intende ottenere compiendo la sua azione.
L’azione, in se stessa, è considerata un evento moralmente
neutro, il cui significato morale può rivelarsi solo dopo
aver valutato intenzioni, circostanze e conseguenze. Così,
per esempio, mentre per l’etica teleologica avere un
rapporto sessuale con una persona diversa dal proprio
coniuge sarebbe un evento materiale, eticamente neutro,
che diventa moralmente valutabile non appena consideriamo
le circostanze, le intenzioni di chi compie l’azione e le
conseguenze che ne derivano, per l’etica giusnaturalistica,
al di là delle intenzioni con cui lo si fa, delle
circostanze e delle conseguenze, nella misura in cui si
sceglie di compiere un atto sessuale con una persona
diversa dal proprio coniuge, si è già di fronte a
un’azione moralmente cattiva. In effetti il motivo in base
a cui si compie un’azione non può concentrarsi
esclusivamente sulle conseguenze, rendendo del tutto
irrilevante l’azione. Ciò che faccio, qui e ora,
non può essere del tutto separato dal motivo per cui
lo faccio, perché anche per ciò che faccio devo avere un
motivo: anche per ciò che faccio, in altri termini, devo
compromettere la mia volontà. Come ha mostrato Tommaso d’Aquino
con la sua fenomenologia dell’atto morale, mirare a un
fine e volere il mezzo costituiscono un unico e medesimo
atto della volontà.
Anche il mezzo, infatti, assume il carattere di fine, nel
senso che è pur sempre qualcosa che si vuole e che ci si
sforza di raggiungere (per questo il “mezzo” è anche
definito “fine prossimo”). L’etica teleologica, invece,
riserva l’autentica responsabilità morale solo
all’intenzione che si porta sul fine remoto, sganciandola
totalmente dalla volontà del mezzo (fine prossimo). Ma
forse il rapporto tra la mia libera volontà e ciò che
faccio qui e ora, quello che classicamente è definito l’oggetto
dell’atto, non può essere facilmente accantonato. Non sarà
inutile ripetere, contrariamente a quanto pensano i
sostenitori dell’etica teleologica, che l’oggetto
dell’azione non è, in prima battuta, il “comportamento”
esteriore e materiale dell’azione, ma ciò che una
persona liberamente sceglie.
L’oggetto dell’atto “rubare un cavallo”, per intenderci,
non è il cavallo, ma la libera scelta di rubarlo, e dunque
ciò che viene fatto nella misura in cui esprime la
volontà di chi agisce e attraverso cui,
naturalmente, si concretizza l’intenzione di raggiungere
un qualche bene (vista l’unità del volere, che intende
tanto il fine quanto il mezzo). La volontà dunque, non
coincide con l’intenzione. Chi sotto pressione uccide un
bambino per evitare che ne vengano uccisi altri dieci, per
dirla con Tommaso d’Aquino, «agisce con buona intenzione,
ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà».
Ed ecco il punto decisivo:
chi ha l’intenzione «di tutelare la vita»,
può volere, qui e ora, l’uccisione di una persona
umana innocente? Può l’intenzione di salvare dieci bambini
rimanere buona quando, per realizzarsi, costringe a
volere un atto che comporta l’uccisione di un bambino?
Perché voler salvare la vita degli uni dovrebbe
qualificare moralmente la volontà più di quanto non faccia
il voler sopprimere la vita dell’altro? Perché un medico
che espianta gli organi di una persona viva e sana, per
salvare altre tre persone, dovrebbe essere meritevole di
aver salvato la vita di tre persone al prezzo di una
piuttosto che essere responsabile di omicidio?
Dal punto di vista
teleologico si potrebbero denunciare queste domande come
domande puramente retoriche, che presuppongono ciò che
invece deve essere dimostrato. Per l’etica teleologica, in
effetti, uccidere l’innocente non significa fare il male
per ottenere il bene (e dunque accettare il principio che
il fine giustifica i mezzi), dal momento che prima di
definire un “male” l’uccisione di una persona bisogna
appunto valutare le conseguenze. E, in questo caso, alla
luce della valutazione comparativa delle conseguenze in
vista del maggior bene, l’uccisione non è affatto un male.
Tuttavia, se, come lo stesso Cognato riconosce, «l’atto di
togliere la vita non può mai essere un’azione azzardata»
(V § 4), mi chiedo se in questo caso ci siano le
condizioni per non definire azzardata questa uccisione.
Certo, se in base al primato delle conseguenze in termini
di comparazione dei beni un’etica ammette, fin
dall’inizio, che tra le possibilità di azione di un uomo
moralmente buono c’è anche l’omicidio volontario di un
bambino innocente, allora nel caso in questione «non ci
sono vie d’uscita» che quella di uccidere il bambino. Ma
davvero l’omicidio di un innocente è una via d’uscita? E
una via d’uscita verso dove? Forse verso la disperazione
se, dopo aver ucciso il bambino, gli altri dieci bambini
vengono uccisi lo stesso. Del resto non si può escludere
che, anche se mi rifiuto di uccidere, quei dieci bambini
non vengano uccisi.
Qualunque combinazione
possiamo immaginare, oltre a evidenziare l’imprevedibilità
delle conseguenze della nostra azione (su cui tornerò),
mette in luce l’inadeguata concezione dell’atto morale
propria dell’etica teleologica. Rimuovendo la fondamentale
distinzione aristotelica tra praxis e poiesis,
tra agire immanente al soggetto e agire produttivo di
stati di cose esterni,
l’etica teleologica riduce l’agire morale a un fare
tecnico, che concentrandosi esclusivamente sulle
conseguenze esterne dell’azione, finisce per addossarsi la
responsabilità anche delle conseguenze non volute. E
infatti: se in conseguenza del mio rifiuto di uccidere
vengono uccisi dieci bambini, non sono io che, con
il mio rifiuto di ucciderne uno, ho causato e voluto la
loro morte, ma sono stati altri a farlo contro il mio
volere. Invece, pensare, come fa il teleologo, che la
morte di quei dieci bambini sia da attribuire al mio
rifiuto di ucciderne uno significherebbe cancellare il
concetto di atto morale: la mia azione morale, infatti,
diventerebbe qui un accadimento fisico che mette in moto
una serie di eventi, tra i quali rientrerebbe anche quello
della morte di dieci bambini. Ma poiché la morte di questi
dieci bambini sarebbe causata, prima ancora che dal mio
rifiuto di ucciderne uno, dalla scelta deliberata dei miei
ricattatori, per dire che io sono responsabile della morte
di questi bambini dovremmo concludere, assurdamente, che
la vera causa delle scelte degli altri sono le mie
scelte. Ad essere veramente libero e responsabile sarei
solo io e non anche i ricattatori che, in conseguenza
delle mie azioni o omissioni, scelgono di uccidere i dieci
bambini. Anzi: i ricattatori non sceglierebbero
affatto, limitandosi ad eseguire passivamente qualcosa le
cui premesse sono io ad aver creato. Le scelte morali
degli altri, essendo solo gli effetti di una catena
causale messa in moto dalle mie scelte morali, sarebbero
ultimamente imputabili a me.
Come dimostrano queste osservazioni, quello che rimane
decisamente problematico, nell’ottica teleologica, è il
concetto di responsabilità morale. Lo si vede
chiaramente proprio nell’esempio di chi si rifiuta di
uccidere un bambino sotto la minaccia che ne verranno
uccisi dieci: per quanto attiene alla responsabilità delle
sue azioni, se una persona si rifiuta di uccidere sotto
ricatto, fa la sola cosa giusta, anche se altri
uccideranno dieci bambini in conseguenza di questo
suo rifiuto. Per l’etica teleologica, invece, quest’uomo
sarebbe responsabile della morte di quei dieci
bambini perché l’ha comunque prevista come possibile
conseguenza del suo rifiuto di uccidere. Ma se è così,
dobbiamo trarre la strana conclusione che egli è
responsabile delle azioni degli altri. Sono gli altri,
infatti, e non lui, che hanno deciso di uccidere quei
dieci bambini. Più radicalmente: sono gli altri, e non
lui, che hanno creato una situazione in cui il rifiuto di
uccidere un bambino dovrebbe causare la morte di altri
dieci bambini: di questa situazione sono responsabili
coloro che l’hanno deliberatamente creata e non chi vi si
trova costretto. Ciò di cui è propriamente responsabile
colui che viene ricattato sono le sue azioni o omissioni,
e non quello che altri, in conseguenza delle sue azioni o
omissioni, minacciano di fare contro il suo volere. Si
parla, per questo, di novus actus interveniens:
quando in conseguenza di una mia azione o omissione vi sia
un nuovo atto compiuto liberamente da un altro soggetto,
ha inizio una nuova serie di effetti che dovranno essere
moralmente attribuiti a questo secondo soggetto e non al
primo.
Certo non si vuole escludere, qui, che la responsabilità di
un soggetto che cedesse al ricatto sarebbe fortemente
ridotta dalle circostanze tragiche della situazione e, in
soggetti particolarmente fragili, potrebbe addirittura
essere del tutto assente. Ma qui non è in gioco il grado
di responsabilità soggettiva di chi agisce, ma la moralità
del gesto: si tratta di capire, in altri termini, se
nonostante la forte pressione di un ricatto del genere si
possa conservare la libertà di compiere o di non compiere
l’azione e, dunque, si possa far rientrare l’azione in
oggetto tra le azioni moralmente valutabili come giuste o
ingiuste. A questo proposito è interessante una pagina di
Aristotele, che conviene citare integralmente:
Tutte le azioni che si compiono per paura di mali maggiori o
in vista di qualche bene è dubbio se siano involontarie o
volontarie: ad esempio se un tiranno che sia padrone dei
nostri genitori e dei nostri figli ci comanda di fare
qualcosa di turpe, sì che se lo facciamo essi si salvano,
se non lo facciamo essi devono morire. Un caso simile
accade anche quando durante le tempeste si gettano in mare
le proprie cose: senza motivo infatti nessuno le getta
volontariamente, bensì chiunque abbia senno lo fa per
salvare se stesso e gli altri. Tali azioni sono dunque
miste, ma sono più simili a quelle volontarie. Esse
infatti sono deliberatamente volute nel momento in cui si
compiono [...]. Per siffatte azioni talora si viene anche
lodati [...]. In alcuni casi poi non si ottiene la lode,
ma il perdono, quando qualcuno abbia compiuto cose che non
si debbono compiere per motivi tali che oltrepassano la
natura umana e che nessuno potrebbe sopportare. Alcune
cose tuttavia non è lecito farle neppure se costretti
[...].
Come si
può vedere, Aristotele esclude che la forte pressione
psicologica che inclina a compiere una certa azione
giustifichi, di per sé, tale azione. Soprattutto quando si
tratta di azioni che posseggono una moralità intrinseca,
che non può essere annullata nemmeno dalle circostanze più
problematiche, al soggetto viene riconosciuta quella
capacità di volere che rimane condizione necessaria perché
l’azione sia moralmente valutabile. Ora, poiché il
teleologo ritiene che anche in casi tragici il soggetto
possa gestire moralmente la situazione, può essere utile
fare qualche altro esempio di azione “mista”, per
verificare se davvero l’etica teleologica sia in grado di
risolvere, in modo adeguato, i «problemi che la vita può
presentare».
Immaginiamo che io sia sposato, e sia così attraente che una
donna minaccia di uccidersi se mi rifiuto di avere un
rapporto sessuale con lei. Ora, poiché dal punto di vista
teleologico io sono responsabile innanzitutto delle
conseguenze previste delle mie azioni e omissioni, se mi
rifiuto di fare l’amore con questa donna sono responsabile
della sua morte (sono colpevole di omissione di
soccorso!). Dovremmo concludere che ci sono casi in cui il
tradimento della propria moglie è un atto non solo
moralmente lecito ma addirittura doveroso, poiché è
doveroso salvare la vita di una persona quando lo si può
fare a prezzo di un bene minore, quale è la fedeltà
coniugale. Teleologicamente, la persona che sceglie
l’adulterio, essendo l’unica che può evitare la morte di
questa donna, eserciterebbe il valore della carità nel
modo più pieno e imparziale, dal momento che non si
farebbe condizionare dal proprio interesse di
salvaguardare il suo matrimonio, che comunque potrà essere
conservato tenendo nascosto alla moglie quello che è
successo. In effetti, anche in questo caso le conseguenze
dell’azione “confessare alla propria moglie di aver fatto
l’amore con un’altra donna per salvarle la vita” sarebbero
probabilmente dannose per il bene morale dell’unione
matrimoniale. Né vale obiettare che dal punto di vista
teleologico l’adulterio sarebbe comunque sbagliato perché
la vita della donna è un valore non-morale mentre la
fedeltà coniugale è un valore morale: se infatti vi
fossero buone probabilità che mia moglie mi perdonerà,
incrementando il valore affettivo e morale della nostra
unione, l’adulterio potrebbe rimanere un atto
teleologicamente doveroso in situazioni di crisi
coniugali. Questo non significa che dal punto di vista
teleologico sia impossibile dichiarare illecito
l’adulterio. Dipende dalle circostanze. Per rimanere al
nostro caso, se la donna che minaccia di uccidersi è una
prostituta che, continuando a vivere, porterà alla
perdizione morale centinaia di uomini, allora sarebbe
doveroso rifiutarsi di avere un rapporto con lei, in modo
da provocarne la morte. Qui l’adulterio verrebbe
dichiarato moralmente illecito non perché tradisce la
fiducia che un coniuge ripone nell’altro, ma perché le
conseguenze prevedibili in termini di “maggior bene”
(non-morale e morale per tutte le persone coinvolte)
sarebbero nettamente migliori di quelle che provocherebbe
la scelta dell’adulterio.
Ma anche un medico che guarisce un suo
paziente che notoriamente maltratta moglie e figli sarebbe
responsabile di questi maltrattamenti, visto che questi
ultimi sarebbero previsti dal medico come conseguenze
della sua azione di guarigione. Un medico che in questo
caso adottasse un punto di vista teleologico avrebbe il
dovere di non curare il suo paziente o addirittura di
danneggiarlo.
Ancora: da un punto di vista teleologico, di fronte alla
prospettiva di sacrificare un certo numero di embrioni
umani per aumentare le probabilità di successo delle
tecniche di fecondazione artificiale, ci sarebbe il
dovere di farlo, perché i benefici ottenuti in termini
di autorealizzazione morale dei genitori compensano la
morte di embrioni che tra l’altro, privati del valore
non-morale della vita a beneficio dei loro genitori,
sarebbero insigniti della palma del martirio.
Ma si possono fare esempi ancora più estremi, che dimostrano,
una volta che accettiamo il modello etico teleologico, che
non disponiamo più di un criterio che ci protegge dalle
conclusioni più sconcertanti: nel caso in cui Giuda avesse
saputo che solo consegnando Cristo al Sinedrio si sarebbe
potuta realizzare la redenzione dell’umanità, rifiutarsi
di tradire Cristo sarebbe stato, da parte sua, un atto
intrinsecamente cattivo: se un’azione o un’omissione è
intrinsecamente cattiva non in se stessa ma in base alle
conseguenze, cosa può esserci di più intrinsecamente
cattivo del rifiuto di tradire Gesù, sapendo che in questo
modo si ostacola la “redenzione dell’umanità”?
Risulta evidente che il modello teleologico, per quanto
elegante e filosoficamente attrezzato, sfocia nelle
conclusioni più imbarazzanti, rischiando di distruggere
non tanto una astratta morale deontologica, ma la morale
stessa, quella che giace nel fondo della coscienza di ogni
uomo di buona volontà.
Per quanto possa sembrare in prima battuta un modello
d’azione convincente e flessibile, soprattutto se
paragonato a un’etica che affermando norme morali assolute
appare rigida, l’etica teleologica ha delle implicazioni
fortemente controintuitive. In effetti c’è qualcosa che
non funziona nell’idea che per sapere se l’adulterio,
l’aborto e lo spaccio di droga sono atti moralmente buoni
o cattivi, devo prima calcolare quali conseguenze positive
o negative possono derivare dal compierli o
dall’ometterli.
A questo punto, il
sospetto è che la soluzione del teleologo sia una falsa
soluzione, probabilmente perché falso è il problema che
egli crede di dover risolvere. E infatti, per il teleologo
il problema non è più quello, propriamente etico,
di trovare il modo in cui si può agire conformemente
al bene morale, ma è quello, tecnico, di
garantire al massimo un insieme di beni non-morali. Il
modello teleologico, da questo punto di vista, sembra
soffrire di un malcelato senso di inferiorità nei
confronti del sapere scientifico, che esso cerca di
emulare quando sposta il centro della questione dal
discernimento del bene morale al calcolo delle conseguenze
empiricamente apprezzabili delle nostre scelte. Da qui la
difficoltà di giustificare il punto di vista propriamente
morale, che rischia di ridursi a un calcolo quantitativo
di beni materiali. Per il teleologo, infatti, morale
sarebbe garantire l’ottimizzazione di qualcosa che
non è morale. Il che però significa, come molti hanno
rimproverato a Schüller e ai suoi seguaci, che l’etica
teleologica cade palesemente in una naturalistic
fallacy. E infatti, affermare l’esistenza di beni
non-morali che possono essere lecitamente sacrificati se
il bilancio dei beni massimizzati rispetto a quelli
sacrificati è positivo, significa pensare che dei beni
non-morali diventino morali solo per il fatto di essere
massimizzati. Ma «sommando dei fatti non morali non si
ottiene come risultato qualcosa di morale».
Certo, si «potrebbe obiettare che è l’atto della
massimizzazione ciò che conferisce valore morale alle
cose, ma questa risposta non pare convincente, perché per
il consequenzialismo nessun atto ha valore morale prima
che abbia prodotto delle conseguenze, perciò neanche
l’atto della massimizzazione lo possiede. Pertanto, non è
chiaro in che modo un atto, che non ha valore morale,
intervenendo su fatti, che a loro volta non hanno valore
morale, possa produrre un risultato che sia moralmente
connotato».
Le aporie
evidenziate dipendono, come molti hanno fatto notare nel
dibattito etico e teologico, da numerosi fattori, che
corrispondono ad altrettante debolezze dell’impianto
teorico e della prospettiva pratica propria dell’etica
teleologica. Su alcune di esse ci siamo già soffermati. Ci
concentreremo ora su altri due elementi, sui quali
Cognato, seguendo il maestro Privitera, insiste parecchio:
la prevedibilità delle conseguenze dell’azione in
relazione alla scelta morale e il criterio
dell’imparzialità della scelta e dell’azione
corrispondente.
7. Quali conseguenze?
Come si è visto, l’etica
teleologica individua e fonda le norme solo in base alle
conseguenze di un’azione. Alla domanda “quali
conseguenze?” la risposta è: “tutte le conseguenze
prevedibili”, tenendo conto che ci sono anche conseguenze
non prevedibili delle quali però non ci si deve
preoccupare, appunto perché non rientrano nelle nostre
possibilità di previsione. Cognato ci tiene a precisare
che, così fondate, le norme non sarebbero affatto
relativizzate, anzi, conserverebbero comunque la loro
assolutezza. E infatti, una volta che si prevede che
un’azione sarà capace di produrre le migliori conseguenze,
avremmo l’obbligo morale di compierla o, se si prevede che
produrrà, in base alla ponderazione dei beni, conseguenze
cattive, dovremmo astenercene con la stessa fermezza con
cui l’etica deontologica raccomanda di astenersi da azioni
intrinsecamente cattive a prescindere dal calcolo delle
conseguenze (cfr. A, p. 12).
Ora, però, come già aveva
fatto notare Kant nella Fondazione della Metafisica dei
costumi, ciò che rimane inadeguato è il concetto
stesso di “previsione” delle conseguenze una volta che lo
si elegge a fondamento dell’azione morale. Noi non
possiamo mai sapere quali saranno le conseguenze
effettive delle nostre azioni né possiamo sapere se alcune
di queste conseguenze, che prevediamo, si verificheranno
davvero.
Si badi, non si dice che non potremo mai prevedere
tutte le conseguenze delle nostre azioni, perché, come
lo stesso Cognato riconosce, ci sono anche conseguenze
imprevedibili. Il fatto è che anche le conseguenze
prevedibili non si verificano necessariamente e, se si
verificano, non si verificano sempre nel modo in cui le
abbiamo previste: «tutti gli effetti positivi e negativi
impliciti, per esempio, nel mettere al mondo un bambino
vanno ben oltre quelli che una coppia può prefigurarsi nel
tentare un confronto fra il non avere un figlio e l’averlo
e crescerlo per i vent’anni successivi».
Per tornare al caso del ricatto, possiamo uccidere un
bambino non perché è certo, ma solo perché è
possibile che così facendo altri dieci bambini si
salveranno. Il che significa che non disponiamo di un
sapere, anche solo probabile, del rapporto di successione
temporale o di causa ed effetto tra le nostre azioni e le
loro conseguenze. E anche qualora disponessimo di un tale
sapere, non potremmo ulteriormente sapere quali saranno le
ulteriori conseguenze: il bambino che ora viene ucciso,
infatti, «in futuro potrebbe scoprire il vaccino per il
cancro, salvare una nazione da una catastrofe ecc., o
potrebbe influenzare, in qualche modo, colui che, grazie a
questa influenza, potrebbe scoprire il vaccino contro il
cancro [...] ecc.»
Si arriverebbe alla paradossale situazione di uccidere una
persona convinti di salvarne dieci senza sapere che quella
persona, mantenuta in vita, ne avrebbe potute salvare
magari migliaia.
Certo, il teleologo
potrebbe correre ai ripari limitandosi alle conseguenze
che, di volta in volta e a breve termine, sono prevedibili
con una certa sicurezza. Ma questo finisce per scusare
chiunque per qualunque conseguenza non prevista. Di
qualsiasi conseguenza non prevista chi agisce non
porterebbe alcuna responsabilità: un anestesista che
provoca la morte di un paziente perché, non essendosi
aggiornato, non ha previsto un particolare effetto
collaterale del farmaco utilizzato, non sarebbe imputabile
della morte del paziente.
La strutturale difficoltà
di un concetto come quello della previsione delle
conseguenze comporta, dal punto di vista teleologico, che
non potremo mai avere certezza circa ciò che dobbiamo
moralmente fare: e infatti, se ciò che dobbiamo fare
dipende da una valutazione ponderata delle conseguenze e
se le conseguenze non sono totalmente prevedibili, allora
ci manca ogni condizione di base per poter capire cosa
dobbiamo fare: varrebbe anche qui l’adagio nemo ad
impossibilia tenetur. Ma ciò che più colpisce, in
questo, è che la pretesa imparzialità e oggettività del
modello teleologico sfocia davvero nel suo contrario, e
cioè nel relativismo: e infatti, poiché non esiste nessuna
certezza di quali saranno le conseguenze effettive di
un’azione né esiste, di rimando, la possibilità di
valutarle comparativamente in funzione della scelta da
compiere, di fatto agire teleologicamente significa
agire arbitrariamente. Così, la norma di cui l’etica
teleologica non prevede eccezioni è in realtà una generica
e astratta norma del tipo “rispetta sempre il valore della
vita”, la cui applicazione, a causa del peso attribuito
alla previsione delle conseguenze, finisce per essere
sempre a discrezione dell’arbitrio soggettivo. La
mancanza di un pieno controllo delle conseguenze, per una
morale che fonda le proprie norme sulla previsione delle
conseguenze, equivale ad autorizzare il soggetto ad agire
sulla base di quelle che egli, di volta in volta, crede
soggettivamente essere le migliori
conseguenze. Appunto, relativismo.
Ora, da tutto ciò
scaturisce un esito teleologicamente controproducente,
visto che, come è stato notato, «La situazione del mondo
sarebbe peggiore di quanto lo è attualmente, se ognuno si
sentisse autorizzato a fare tutti ciò che gli sembra utile
per migliorarlo».
8. Quale telos?
Le aporie dell’imparzialità tra “valore della vita” e
“dignità di ogni singola persona”
La conclusione appena
raggiunta mette in questione la validità universale, non
relativistica, che l’etica teleologica rivendica
attraverso il criterio dell’«imparzialità» (V § 3). In
effetti l’«imparzialità» prescrive, secondo Cognato, che
«di fronte ad un contesto in cui il valore vita è
coinvolto bisogna seguire quel principio che bisognerebbe
accettare come regola di comportamento per tutte le
situazioni simili» (V § 3). In questo caso forse sarebbe
stato più opportuno distinguere da un lato l’universalità
del giudizio morale, che esprime una corrispondente regola
di comportamento normativa per tutte le situazioni simili,
e, dall’altro lato, l’imparzialità, che riguarda
invece l’atteggiamento del soggetto agente. In ogni caso,
Cognato sembra consapevole del fatto che l’imparzialità è
una sorta di abito virtuoso del soggetto più che una
caratteristica della norma, quando scrive:
solo nell’imparzialità è possibile promuovere un’attenzione
alla vita in tutte le sue potenzialità; solo
nell’imparzialità è possibile un’autentica accoglienza
della vita; solo nell’imparzialità è possibile realizzare
una tutela della vita, soprattutto di quella più debole,
solo nell’imparzialità il rispetto della vita e il suo
riconoscimento risultano credibili. L’imparzialità
nel “prendersi cura della vita” fa emergere la necessità
sempre di agire in maniera tale che per ogni azione
compiuta bisogna far valere come criterio di riflessione e
giudizio non soltanto il “proprio” interesse ma anche
quello degli “altri” (V § 3).
Certamente il criterio
dell’imparzialità ha un suo insostituibile ruolo in etica.
Ci sono situazioni, per esempio quando un’apparecchiatura
per la rianimazione o un rene artificiale non bastano per
tutti coloro che ne avrebbero bisogno, in cui bisogna
mettere a confronto una vita con un’altra e decidere in
base a criteri obiettivi e imparziali.
Ma, ancora una volta, se eleviamo questo criterio a
principio fondamentale dell’etica sorgono problemi. Il
fatto stesso di scegliere di tutelare “soprattutto” la
vita più debole, per esempio rispetto a quella più forte,
non è già un superamento dell’imparzialità? E ancora: se
nel far valere non solo il proprio interesse ma anche
quello degli altri bisogna poi fare inevitabilmente
l’interesse di alcuni altri e non di tutti gli altri, come
facciamo a parlare ancora di imparzialità? Piuttosto che
di imparzialità, non dovremmo parlare dell’esigenza di
tutelare la vita come di una parzialità giustificata?
Un esempio può chiarire la
cosa. Se mi trovo nelle condizioni di poter salvare solo
una di due persone in pericolo di vita e una di queste è
mio figlio, come si agisce secondo l’imparzialità? In
questo caso, se dovessi essere l’unico potenziale
soccorritore, alla luce del «criterio di precedenza»
sostenuto da Cognato, sarei «l’unico adatto per assolvere
il compito e l’unico che può essere obbligato ad
affrontarlo».
Ma chi devo salvare se il valore morale della persona è
identico per tutti? Si potrebbe rispondere: uno qualsiasi
dei due, poiché l’impossibilità di salvare entrambi è una
contingenza non-morale che non dipende da me. Tuttavia,
questa non sembra una risposta soddisfacente: c’è qualcosa
che non funziona, infatti, se, dopo aver lasciato morire
il proprio figlio salvando un altro, si adduce la
motivazione che “tutti gli uomini hanno la stessa
dignità”. Se il fatto che una delle due persone è mio
figlio è considerata una semplice contingenza non-morale,
se dunque la responsabilità di un padre nei confronti del
figlio non è una “parzialità giustificata” (morale) e io
scelgo di salvare mio figlio anziché l’estraneo, non
rischio di fare del criterio della “precedenza” una forma
di egoismo parentale travestito da imparzialità? E se
scelgo invece di salvare l’altro, non vengo meno al mio
dovere di padre facendo del criterio della precedenza un
criterio non morale, ma empirico, poiché fondato sulla
mera contingenza di una situazione che mi vede fisicamente
(e dunque casualmente) più vicino all’estraneo? Forse il
criterio della precedenza dovrebbe essere letto come
parzialità giustificata (morale), altrimenti si rischia di
affermare un’imparzialità altisonante e astratta per poi
doverne restringere gli orizzonti non in modo morale, ma
sulla base di contingenze casuali.
Ma ciò che risulta più
problematico è il modo in cui il teleologo utilizza il
criterio dell’imparzialità, combinandolo con quello delle
conseguenze.
Questa peculiare combinazione, infatti, finisce per
stravolgere il genuino significato morale
dell’imparzialità, che diventa dapprima neutralità e, poi,
addirittura indifferenza nei confronti della dignità di
ogni singola persona. E infatti, come hanno mostrato
alcuni degli esempi riportati (supra § 6),
considerando le conseguenze dell’azione in modo
imparziale, il teleologo abbandona la sua posizione di
soggetto responsabile di coloro che gli stanno di fronte,
assumendo “uno sguardo da nessun luogo” che rende tutti
gli uomini dei mezzi intercambiabili da utilizzare a
beneficio del maggior bene pre-morale per il maggior
numero di persone. Sembra confermarlo la decisione di
parlare di un generico “valore della vita” (umana),
piuttosto che della concreta “dignità di ogni singola
persona”.
Certamente la vita, in
generale, ha un “valore”, e tutto ciò che Cognato espone a
questo proposito è degno di nota. Tuttavia, il semplice
“valore della vita” non è in grado di tenere testa ai
problemi morali, bioetici e non. Se l’elemento decisivo
fosse il “valore della vita”, allora non ci sarebbe altra
strada che la strada teleologica: essere morali
significherebbe tutelare e promuovere la vita come luogo
del maggior bene per il maggior numero. Ma il prezzo da
pagare, come abbiamo visto, è forse troppo alto: in
effetti l’uomo non è un semplice esemplare della specie,
cosicché si possa sacrificarlo nell’interesse della specie
la cui vita avrebbe “valore”. Il divieto di sacrificare
una persona umana nell’interesse della collettività, come
scrive Robert Spaemann,
non
deriva dal fatto che il valore dell’uomo è maggiore di
quello di ogni altro essere vivente, ma dal fatto che esso
è in generale incommensurabile, anche in relazione a tutti
gli altri uomini. Per questo non parliamo del valore (Werth)
dell’uomo, ma della sua dignità (Würde). Il valore
della vita di dieci uomini può essere maggiore di quella
di un solo uomo, ma la dignità di dieci uomini non
significa qualcosa di più della dignità di uno solo. Le
persone non sono addizionabili.
Vengono qui in mente le
parole kantiane della Fondazione della metafisica dei
costumi: «Ciò che ha un prezzo può essere sostituito
con qualcos’altro come equivalente. Ciò che invece
non ha prezzo (Preis), e dunque non ammette alcun
equivalente, ha una dignità (Würde)».
Così, se anziché di
“dignità della persona” parliamo di “valore della vita”,
rischiamo di fare di ogni persona un ente con “valore di
scambio” alla luce di criteri quantitativi, dove il
soggetto morale è il soggetto che massimizza il valore
non-morale “vita” anche a spese delle persone che vivono.
Come è stato giustamente osservato, e da un punto di vista
che riconosce, come l’etica teleologica, grande importanza
all’atteggiamento prima che al comportamento, «Il fatto
che un’azione contribuisca a determinare un certo stato di
cose, che può essere ritenuto positivo e benefico da
molti, non giustifica che, per produrre tale risultato, si
assuma un atteggiamento strumentale nei confronti di
un’altra persona; non solo ciò significa trascurare i suoi
legittimi interessi e frustrare le sue preferenze, ma
soprattutto implica assumere nei suoi confronti un
atteggiamento di indifferenza, come se la sua esistenza
non contasse in quanto tale: un atteggiamento che la
riduce al rango di cosa, di strumento per la realizzazione
di certi scopi, violandone la dignità».
Ora, è proprio questa
implicazione che, a mio avviso, fa emergere la maggiore
plausibilità dell’etica giusnaturalistica rispetto a
quella teleologica. Il rifiuto di compiere certe azioni,
nella tradizione giusnaturalistica, corrisponde infatti al
principio kantiano secondo cui non dobbiamo mai trattare
l’altro (e noi stessi) come semplice mezzo ma sempre anche
come fine.
Qui è interessante far notare che il fine di cui parla
Kant non è un fine da promuovere per mezzo del nostro
agire, ovvero un «fine da attuarsi» (zu bewirkenden
Zwecke), ma un «fine a sé stante» (selbständiger
Zweck).
Il fine di cui si parla, dunque, non è un insieme di
conseguenze positive da provocare mediante l’azione – come
intende l’etica teleologica – ma la stessa persona umana
come condizione limitativa di ogni azione.
“Fine in se stesso” non significa scopo da realizzare ma
limite da «rispettare» (achten). In altri termini,
proprio perché è il contenuto specifico delle norme che
vietano gli atti intrinsecamente cattivi, la dignità di
ogni persona possiede un carattere moralmente negativo,
nel senso che indica in modo determinato e assoluto
solo ciò che non dobbiamo mai fare per non violarla e non
ciò che dobbiamo fare per promuoverla. E questo per il
semplice motivo che mentre le condizioni minimali al di
sotto delle quali l’uomo non è trattato degnamente sono
facilmente riconoscibili, le condizioni ottimali verso le
quali la dignità umana dovrebbe essere promossa sono
maggiormente esposte a fraintendimenti e
strumentalizzazioni, potendo giungere fino alla
giustificazione della violazione della dignità umana in
vista di una sua migliore e futura promozione.
Da ciò deriva la già richiamata asimmetria tra azioni
buone (norme positive) e azioni cattive (norme negative):
mentre ci sono azioni intrinsecamente immorali che non
devono mai essere compiute in nessuna circostanza
(torturare, uccidere l’innocente ecc.) ci sono azioni
intrinsecamente buone (guarire, liberare prigionieri
ingiustamente incarcerati ecc.) che, non per questo,
devono sempre, in qualunque circostanza, essere compiute.
Il principio kantiano non è allora una norma positiva che
prescrive il fine del maggior bene, ma una norma negativa
che proibisce di violare, nel pur legittimo e spesso
doveroso tentativo di perseguire il maggior bene, la
dignità della persona destinataria dell’azione. In tal
senso i fini dell’azione, quelli che l’etica
teleologica chiama “beni” o “valori”, non possono mai
essere perseguiti a scapito del fine dell’azione,
rappresentato dalla persona umana. Che non ci siano
circostanze e conseguenze che potrebbero giustificare le
azioni che violano la dignità umana è dovuto al fatto che
la qualità morale di queste azioni non si basa sulla
previsione delle loro conseguenze empiricamente
apprezzabili, ma sul fatto di essere un certo tipo
di azioni, che esprimono in se stesse il mancato rispetto
dell’altro e della sua dignità. Il bene che potremmo
ottenere compiendo queste azioni non potrà mai
riscattare il danno che deriva dal compiere l’azione
stessa, dal momento che, come si è visto, ogni persona ha
una dignità intrinseca e non solo un valore
comparabile con altri valori. Si può allora dire che,
nella prospettiva giusnaturalistica, l’applicazione
delle norme morali positive prevede eccezioni perché è
subordinata al rispetto della dignità di ogni persona,
dignità che è protetta dalle norme morali negative,
ovvero da norme che, facendo riferimento ad azioni
intrinsecamente cattive, non ammettono eccezioni.
Vale forse la pena di
ricordare, anche qui, che le azioni proibite dal principio
kantiano non sono azioni considerate a prescindere dalle
conseguenze, ma azioni la cui conseguenza diretta è quella
di rendere l’altra persona un semplice mezzo, violandone
la dignità. Di fronte a questa conseguenza tutte le altre
conseguenze sono poste in secondo piano. L’etica
teleologica, invece, assumendo tutte le conseguenze
prevedibili come un materiale moralmente indifferente,
opera una comparazione tra le diverse conseguenze e,
qualora scoprisse che le conseguenze positive superano in
quantità pre-morale quelle negative, raccomanda come
moralmente doverosa l’azione in questione. Ora, però,
visto che le conseguenze positive sarebbero considerate
tali tenendo conto di tutte le persone coinvolte e
non solo della persona che subisce l’azione, il principio
ultimo dell’etica teleologica finisce per essere il
seguente: “Agisci in modo da trattare l’altro mai come
fine ma sempre come potenziale mezzo da sacrificare per il
bene pre-morale o morale degli altri”. Che questo
strano principio sia inevitabilmente presente nella
prospettiva teleologica, è dimostrato dal fatto che
perfino quando si cerca di evitarne le applicazioni più
tragiche, come l’uccisione dell’innocente o lo stupro,
esso riemerge inesorabilmente, facendo dell’altro un
semplice mezzo al servizio dell’ottimizzazione delle
conseguenze. Così, per esempio, Schüller e altri teleologi
hanno cercato di aggirare l’imbarazzante conseguenza di
dover giustificare l’uccisione di un innocente, a cui
sembra costringerli la loro dottrina, ipotizzando che, a
lungo termine, uccidere persone innocenti potrebbe
produrre una quantità di conseguenze negative maggiore di
quelle positive.
Ma il problema rimane: in questo modo infatti la vita
dell’innocente sarebbe rispettata non per la sua
intrinseca dignità ma come un puro mezzo per
garantire a lungo termine il miglior saldo di conseguenze
positive sulle conseguenze negative.
Insomma, il rischio è che,
assumendo il calcolo delle conseguenze come criterio
regolativo, una persona che si ispira all’etica
teleologica diventi un Leviatano che strumentalizza tutto
e tutti, pur di creare il migliore dei mondi possibili per
il maggior numero di persone. Il teleologo sarebbe,
paradossalmente, la persona meno affidabile del mondo:
sarebbe infatti disposto a tutto, se, in
circostanze che non possiamo prevedere, le conseguenze di
quello che fa sono da lui giudicate migliori delle
conseguenze di ogni azione alternativa. Sarebbe inoltre
facilmente ricattabile: a un teleologo si può chiedere di
uccidere un bambino per salvarne dieci, a un
giusnaturalista no. Se il ricattatore sapesse che ha di
fronte un giusnaturalista non tenterebbe neanche di
ricattarlo.
Il che significa, ancora una volta in modo
controproducente rispetto alle intenzioni del teleologo,
che in un mondo che si ispira all’etica teleologica le
conseguenze sarebbero quelle di un aumento del rischio
di essere ricattati e strumentalizzati.
9. Dai “beni per la
persona” al “bene della persona”
Come si è cercato di
mostrare e come hanno già denunciato numerosi studiosi, il
principale difetto dell’etica teleologica è quello di
dimenticare che «l’uomo non dispone di una capacità
sovrumana di anticipazione e non è in grado di onorare una
responsabilità per tutte le conseguenze del suo agire».
Non rimane che tornare a Tommaso d’Aquino: per poter
specificare moralmente un’azione non bisogna assumere
l’astratta posizione di un osservatore imparziale, giudice
della situazione e profeta capace di prevederne le
conseguenze, ma bisogna, più realisticamente, rimanere
nella concreta prospettiva della persona che agisce qui e
ora. L’azione morale, infatti, è l’azione che noi
scegliamo di compiere qui e ora. Il motivo per cui
la compiamo e le conseguenze che scaturiscono da ciò che
facciamo, su cui insiste l’etica teleologica, sono
certamente importanti, ma non possono rendere moralmente
indifferente ciò che facciamo. Insomma, se è vero
che in molte circostanze occorre valutare teleologicamente
il fine dell’azione in termini di conseguenze, è anche
vero che ci sono mezzi che è sempre sbagliato scegliere,
perché sceglierli comporta una violazione della dignità
umana e, dunque, un disordine della volontà, un male
morale. Non c’è conseguenza positiva che possa
giustificare certe azioni, poiché il fatto stesso di
compierle esprime un disprezzo per il bene della
persona, anche se si raggiungono tramite essa dei
beni per la persona. La persona a cui ci si riferisce
è qui sia la persona che compie l’azione sia quella che ne
è destinataria. Per l’etica giusnaturalistica classica non
si può abusare sessualmente di un bambino per salvarne
altri dieci: si distruggerebbe la propria dignità e quella
della vittima. Per l’etica teleologica, invece, in cui il
soggetto agente abbandona la propria concreta
responsabilità per assumersi quella di Dio, e cioè di un
giudice universale e imparziale, si dovrebbe abusare
sessualmente di un bambino se le conseguenze fossero
quelle di evitare che vengano violentati altri dieci
bambini. Ma il compito dell’uomo non è quello, titanico,
di garantire il migliore stato-di-cose possibile (a
questo, se è nei suoi progetti, ci pensa Dio) ma quello di
rispettare e amare ciascuna singola persona. Se si
limiterà a questo, e non è poco, le conseguenze a lungo
termine saranno davvero quelle del migliore stato-di-cose
possibile. Noi non possiamo evitare che nel mondo ci sia
il male. Ma possiamo evitare di compierlo. Il teleologo
che ammette l’uccisione volontaria di un solo bambino
innocente, invece, nella pretesa prometeica di evitare il
male pre-morale presente nel mondo non solo fallisce –
perché può sbagliare il calcolo delle conseguenze e perché
il male ci sarà sempre – ma finisce per distruggere, con
la sua scelta, l’unico bene che era chiamato a rispettare
con la sua azione.
È davvero una soluzione?
Mi sembra di poter
concludere che rispetto all’etica teleologica, l’etica
giusnaturalistica classica sembra corrispondere
maggiormente alle nostre più elementari intuizioni etiche,
quando considera la responsabilità morale riferita
innanzitutto alla persona toccata direttamente dall’azione
e non alle conseguenze remote che l’azione può provocare
nei confronti di terzi. Anche l’etica giusnaturalistica,
da questo punto di vista, può essere definita un’etica
teleologica, a patto di vedere nel telos in
questione non solo l’ottimizzazione di beni e valori
soppesati gli uni nei confronti degli altri, ma anche, e
soprattutto, la persona umana considerata nella sua
incomparabile dignità. Tutelare il “valore della vita”, da
questo punto di vista, può significare soltanto rimanere
fermamente convinti che mentre non possiamo salvare la
vita di tutti in ogni circostanza, possiamo però, in ogni
circostanza, astenerci dall’uccidere. Forse mai come in
questo caso torna opportuno l’antico adagio secondo cui
“il meglio è nemico del bene”: il compito dell’etica non è
“trovare soluzioni” in vista del maggior bene, ma
illuminare la nostra esperienza del bene affinché
possiamo manifestarlo fedelmente con la nostra libera
scelta, onorando e promuovendo, più che il “valore della
vita”, la dignità di ogni singola persona umana.
Per quanto possano essere
risultate particolarmente severe, queste riflessioni
critiche non avevano alcuno scopo distruttivo. Anzi:
proprio il rispetto e la stima nutriti nei confronti di
Cognato e del suo impegno teorico, a cui va aggiunta, come
dichiaravo all’inizio, la condivisione dei suoi interessi
tematici e delle conclusioni etiche di fondo, mi hanno
indotto a esprimere senza riserve le mie perplessità.
Rispettare un interlocutore non significa accettare tutto
ciò che egli sostiene o, se non si accetta tutto,
nascondere o edulcorare i disaccordi. Significa,
piuttosto, entrare in dialogo con la sua prospettiva,
prendendone radicalmente sul serio la pretesa di verità.
Con tutti i limiti, è questo che ho cercato di fare. Non
escludo, pertanto, che alcune delle divergenze evidenziate
e delle obiezioni sviluppate possano essere fuori
bersaglio, magari perché frutto di incomprensioni o
fraintendimenti. Ma questo lo si può scoprire, appunto,
solo entrando in merito alle questioni.
È stato infatti Max Weber che, nella celebre
conferenza intitolata La politica come professione,
tenuta nel 1919 a Monaco di Baviera, parlò della prima
come di un’etica in cui si tratta di rispettare in
modo incondizionato, al di là delle conseguenze,
alcuni valori considerati assoluti, e della seconda
come di un’etica in cui, invece, «bisogna rispondere
delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni».
Cfr. M. WEBER, Politik
als Beruf, Duncker & Humblot, Berlin 1919, tr. it.
Il lavoro intellettuale come professione,
Einaudi, Torino 1976, pp. 109-110.
Combinando il criterio delle conseguenze con quello
dell’imparzialità, Cognato ritiene tra l’altro di
poter superare la vexata quaestio sul concetto
di persona in bioetica: «Il concetto di persona [...]
non è idoneo a risolvere casi concreti nei quali,
invece, sono le conseguenze a fare le differenze,
conseguenze sempre riconducibili alla capacità che
esse hanno di manifestare imparzialità e
universalizzabilità» (V § 4). L’idea di Cognato
secondo cui bisognerebbe rinunciare al concetto di
“persona” è comprensibile, visto il fraintendimento e
l’uso discriminatorio fattone da larga parte della
bioetica anglo-americana di matrice liberale e
utilitarista. Qui, però, si potrebbe far notare che
l’imparzialità deve pur essere esercitata nei
confronti delle “persone umane”, per cui, di fronte a
chi nega che l’embrione e il soggetto in stato
vegetativo persistente siano persone umane bisogna
dimostrare (e certo non è facile anche se non è
impossibile) che essi invece lo sono. Se infatti ci
limitassimo a considerare le conseguenze imparziali
delle azioni che compiamo nei loro confronti, ci si
potrebbe a buon diritto obiettare perché mai dovremmo
essere imparziali proprio nei confronti
dell’embrione e del comatoso e non, parimenti, nei
confronti del gatto, della pianta o del minerale
prezioso. Insomma, se, come auspica Cognato, si
dovrebbe rinunciare al concetto di persona, il
problema non sarebbe risolto ma solo spostato:
bisognerebbe infatti trovare un equivalente di
“persona” – per es. “uomo” – che giustifichi il fatto
che la nostra imparzialità è riservata innanzitutto
(se non esclusivamente) a embrioni e comatosi prima
ancora che a gatti, piante e minerali preziosi.
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