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Recensioni:
M. Reichlin, Aborto. La morale oltre il diritto, Carocci, Roma 2007, pp. 233
Le implicazioni morali intorno al tema scottante
sull’inizio della vita umana da qualche tempo a questa
parte animano un dibattito che sembra non avere fine.
Sulla carta stampata e sui mezzi di comunicazione di
massa la riflessione bioetica di inizio vita (non di
meno anche quella di fine vita) sembra, ormai, essere
patrimonio di tutti, non solo nel senso che nessuno è
escluso dall’interrogarsi sul mistero della vita, ma
soprattutto che nessuno si sente escluso dalla
possibilità di offrire una soluzione al punto di domanda
centrale: quando ha inizio la vita umana e da qui il
dovere di non sopprimerla? Se per un verso la
partecipazione appassionata su una problematica del
genere palesa una riappropriazione della capacità che
ognuno ha di esercitare la “facoltà di giudizio” senza
l’ausilio di un argomento d’autorità, dall’altro verso
si perde di vista la specificità di competenza del
filosofo e/o teologo della morale, che possiede tutte
quelle conoscenze che gli permettono di sgomitolare una
riflessione “specificamente” morale su un contesto
operativo senza confusioni interdisciplinari e
transdisciplinari. Infatti, proprio sulla problematica
bioetica di inizio vita (ma anche su tutta la
problematica etica) non è raro trovare “riflessioni non
morali” su tematiche morali, così come non è raro
trovare dei professionisti della morale che seguono
metodologie di altre discipline. Sia nel primo che nel
secondo caso dal punto di vista metodologico viene
equivocata la specificità assiologica della riflessione
morale, o riducendola alla sua dimensione descrittiva o
sostituendola con il diritto. Ebbene, in questo contesto
ma stavolta nella direzione di una riflessione
“eminentemente” morale su un tema che prima di tutto è
etico e solo dopo giuridico, arricchisce la
pubblicistica bioetica il preziosissimo volume di M.
Reichlin sulla questione della interruzione volontaria
della gravidanza.
È proprio alla luce di questo scenario che stritola la
riflessione etica tra i non moralisti che fanno i
moralisti e i moralisti che fanno i non moralisti che è
nostra intenzione segnalare quest’ultima fatica del
filosofo della morale M. Reichlin, docente presso la
facoltà di filosofia dell’Università Vita-salute San
Raffaele di Milano. L’autore offre un contributo che vuole
essere tutto etico nella direzione di una estrema
attenzione alle caratteristiche specifiche della
disciplina etica, trattando la problematica dell’aborto
come un professionista della morale. Egli, proprio in
forza di questa attenzione, smaschera il vero significato
di tutte quelle teorie ed impostazioni del discorso morale
che si muovono nella direzione di negare all’etica
qualsiasi possibilità di ancorarsi a delle fondamenta di
tipo assiologico. Il volume si costituisce di sei capitoli
(in realtà i capitoli sono sette, ma l’ultimo tira solo le
conclusioni) abbastanza corposi e fitti, che non
permettono al lettore alcuna distrazione, ma che lo
richiamano ad un’attenzione meticolosa al fine di seguire
il processo argomentativo.
Le tesi esposte e analizzate da Reichlin (tutte di
matrice anglosassone) sono accomunate dall’interesse di
stabilire una o più soglie significative che stabiliscono
un passaggio fondamentale: da un ente che non ha il
diritto alla vita e/o al quale non
si riconosce uno status morale ad un ente che
acquisisce il diritto alla vita e/o uno status morale
ovvero uno stato di considerabilità morale tale da
procacciarsi il diritto a vivere. Queste soglie
significative che determinerebbero il passaggio
fondamentale suddetto oscillano tra quelle che vertono
sull’autocoscienza a quelle che vertono sulla sensibilità,
i cui sostenitori sono, tanto per citarne alcuni, Tooley,
Sumner, Steinbock, ecc… (cap. 2). A questi criteri
Reichlin oppone l’argomento di potenzialità, che non vede
né nell’autocoscienza né nella sensibilità delle soglie
significative di passaggio. Al contrario, si sostanzia di
una continuità ontologica tra feto, embrione, bambino,
adulto, individuando così solamente la soglia tra
l’inesistenza della novità biologica e l’esistenza della
novità biologica scaturita dalla fusione dei nuclei dei
due gameti sessuali (cap. 3). Alla tesi che l’essere umano
ha diritto al rispetto e alla vita solo quando
è persona, M. Reichlin oppone la tesi secondo cui
l’embrione è persona in quanto è un essere umano.
Questa tesi fonda la sua plausibilità innanzitutto nel
considerare assolutamente artificiosa e pretestuosa la
netta distinzione tra persona ed essere umano e in secondo
luogo nell’evidenziare più di quanto sia già evidente la
rilevanza morale della specie. La distinzione tra persona
ed essere umano è assolutamente controintuitiva: se un
embrione non diventa un bambino muore e non può diventare
altro e non potendo diventare altro, non può che essere
quello che solo può essere da vivo ovvero un bambino,
quindi un essere umano. Ciò significa che persona è
un concetto filosofico che «indica ciò che un individuo
non può cessare di essere senza cessare di esistere» (p.
108). Dunque, l’alternativa non è tra essere umano e
persona ma tra essere umano che è già persona e il non
esserlo che equivale a non essere mai esistito o a non
esistere più. Il passaggio da essere umano a persona non è
estrinseco, al contrario è dinamicamente intrinseco.
Niente dall’esterno come i concetti confezionati di
autocoscienza, interesse o sensibilità possono segnare un
passaggio ontologico, semmai è la continuità ontologica
che permette lo sviluppo di queste tre capacità o
caratteristiche. Questa argomentazione contro le tesi
cosiddette funzionaliste o attualiste del concetto di
persona è perfettamente inquadrabile come tesi
sostanzialista del concetto di persona ed ai concetti di
autocoscienza, interesse e sensibilità oppone quello di
potenzialità (cap. 4). Nel merito della discussione tra
tesi della fecondazione e tesi dell’impianto, entrambi
concorrenti a stabilire quando si costituisce
quell’individuo tale da avere quella “forma/potenzialità”
che indirizza il suo sviluppo, Reichlin avalla la tesi
della fecondazione a seguito della quale si realizza una
prima definizione del patrimonio genetico del nuovo
individuo, sebbene si attivi solo il processo che dà luogo
al pronucleo maschile non trovandoci così ancora di fronte
alla prima cellula del nuovo individuo, ovvero lo zigote.
Nonostante ciò, la potenzialità di cui l’embrione dispone
a partire dal momento della fecondazione non è semplice
possibilità, ma preordinamento ed orientamento di sviluppo
precontenuto verso un esito specifico. La possibilità di
svilupparsi fino a diventare un essere umano maturo non è
uno tra i possibili esiti, ma lo specifico risultato cui
l’intero suo essere è intrinsecamente orientato. Se ciò
non dovesse realizzarsi l’embrione non mostrerebbe di
essere altro, ma cesserebbe di esistere in quanto tale
(cap. 5).
Contro l’aborto, dunque, il nostro autore depone
l’argomento di potenzialità che si regge su un più
profondo argomento: l’essere umano come persona e
viceversa. Ma, audacemente Reichlin non si sottrae alla
realtà di un conflitto mai evitabile ovvero il diritto
alla vita dell’embrione (sempre se le argomentazioni fin
qui addotte sono accettabili e ragionevoli, per tale
motivo il diritto rimane un’ipotesi) versus il
diritto della madre alla gestione del proprio corpo (tale
diritto questa volta sembra più effettivo del diritto
dell’embrione a vivere e pertanto non necessiterebbe di
tanto sforzo argomentativo) (cap. 6).
La visione etica che soprassiede a tutta quanta la
riflessione è “l’etica del rispetto per le persone”,
principio etico fondamentale che M. Reichlin ha già avuto
modo di fondare, esplorare ed offrire ai lettori nel suo
precedente lavoro sull’eutanasia, L’etica e la buona
morte. L’impostazione non muta e la continuità ideale
tra le due opere è evidente nell’insistere sulla
rielaborazione in un contesto teorico di derivazione
kantiana del guadagno riflessivo acquisito dal
personalismo. Prestando volutamente più attenzione in seno
all’etica kantiana al rispetto dell’umanità come fine in
sé rispetto alla formalità delle massime, Reichlin
recupera la fecondità del pensiero kantiano in ordine alla
morale lasciandosi alle spalle le obiezioni di formalità
che esso da Hegel in poi non riesce ad evitare. Il
rispetto, così, per la capacità di vivere come un agente
razionale è l’incondizionato per ogni altro precetto
morale, è un fine autosussitente. Il “punto di vista
morale” si produce ordinariamente solo nella
coscienza degli esseri umani, pertanto essi sono gli unici
capaci di comportarsi moralmente perché posseggono la
capacità di scelta.
Ciò è per chi scrive profondamente condivisibile, ma lo
sarebbe molto di più se l’autore ammettesse chiaramente
che, in ultima analisi, il suo modo di argomentare è
teleologico e non deontologico, perché assumere il
principio dell’umanità fine in sé e non mezzo come
fondamento dell’etica kantiana anziché la formalità delle
massime significa fondare teleologicamente la condotta cui
si è moralmente tenuti nei rapporti con gli altri e nei
confronti di se stessi, mostrando come in Kant ciò sia non
del tutto coerente con la sua teoria generale sulla
formulazione delle norme. Non si spiegherebbe altrimenti
il fatto che Reichlin ammetta l’accettazione dell’aborto
«solo nei casi di pericolo per la vita della madre, di
serio pericolo per la sua salute e nel caso di
violenza sessuale» (pag. 172). Anche se c’è da precisare
che la teleologia non mette sullo stesso piano i due casi
citati, perché se nel primo vi è la probabilità di un
rapporto di causa e di effetto tra la cessazione di vita
della madre e la cessazione di vita dell’embrione, nel
secondo la violenza sessuale, per quanto sia un
caso-limite, non giustifica nei termini di causa ed
effetto la soppressione del nascituro. Sebbene l’autore
precisi che la sua prospettiva possiede una concezione
teleologica, perché l’etica del rispetto per la persona
non elimina la nozione di fine (pag. 17), poi in ultima
analisi in Reichlin prevale una concezione distorta della
pista teleologica in base ad un concetto “effettuale” di
conseguenze e non “valoriale”, a seguito della quale egli
deve escluderla dalle piste etico-normative che
garantiscono la incondizionatezza della norma “non
uccidere”. Giungendo in tal modo a giustificare la sua
incondizionatezza in “senso simbolico” e la sua non
condizionatezza (le famose eccezioni alla norma) in “senso
materiale” (pag. 31).
Solo quando si cominceranno a concepire le conseguenze di
un’azione non in termini negativi, estrinseci e “cosalistici”,
bensì in termini di valori da realizzare e di disvalori da
evitare, allora non risulterà così inadeguata
l’argomentazione teleologica anche per tutte quelle norme
tradizionalmente fondate deontologicamente e non ci si
sentirà costretti ad utilizzare strategie linguistiche
poco chiare come “il senso simbolico” e “il senso
materiale” della incondizionatezza di una norma.
Pietro Cognato |
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