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Editoriale
Il
Papa e l’Università
Scoprire
le ragioni di una vicenda controversa
Il dibattito sulla laicità delle istituzioni e sul ruolo
della Chiesa, oltre che sul rapporto tra scienza, ragione
e fede, è stato rilanciato in Italia dall’invito che il
Rettore dell’Università “La Sapienza” di Roma ha rivolto a
Papa Benedetto XVI, in occasione dell’inaugurazione
dell’anno accademico. Come è noto, il dibattito si è
acceso soprattutto quando 67 docenti dell’Ateneo,
prevalentemente appartenenti alla Facoltà di Fisica, hanno
indirizzato una lettera di protesta al Rettorato
dell’Università, auspicando l’annullamento dell’incontro
con il Pontefice.
Le polemiche che si sono sviluppate in seguito, a cui si è
aggiunta anche l’occupazione del Rettorato da parte di
alcuni gruppi di studenti, hanno infine convinto Benedetto
XVI a rinunciare all’invito. Poiché è stato detto e
scritto tanto sull’argomento, spesso sotto la pressione di
spinte emotive e poco ragionate e in un clima di aspra
contrapposizione ideologica, è opportuno ricostruire
attentamente la vicenda, cercando di coglierne l’autentico
significato.
Partiamo dalle ragioni che hanno spinto il Papa a
rinunciare all’invito. Durante l’Angelus in Piazza
san Pietro, Ratzinger si è limitato a dire: «Avevo accolto
molto volentieri il cortese invito, ma il clima che si era
creato ha reso inopportuna la mia presenza alla cerimonia
e ho rinunciato mio malgrado».
Alcuni, come Paolo Flores d’Arcais, direttore della
rivista Micromega, hanno commentato l’episodio
dicendo che il Papa, essendo abituato ad avere di fronte a
sé folle festanti e compiacenti, appena ha sentito odore
di contestazione, se ne è rimasto a casa.
Un’affermazione del genere non aiuta però a comprendere
l’accaduto, limitandosi ad attribuire al Papa un
atteggiamento di fuga dal confronto. Dispiace, del resto,
che l’insinuazione venga proprio da Flores d’Arcais, al
quale Joseph Ratzinger aveva dimostrato apertura e
disponibilità, accogliendone l’invito per un dibattito
pubblico, svoltosi il 21 settembre del 2000 al teatro
Quirino di Roma.
Nella lettera a Flores d’Arcais, con cui confermava la sua
presenza al dibattito, Ratzinger scriveva: «Nei rari
momenti liberi sto leggendo Micromega 2/2000 e
trovo estremamente interessante il vasto panorama di
posizioni. Sotto molti aspetti è il commento più
importante, che io conosco, alla Fides et ratio,
perché qui l’Enciclica entra realmente in dialogo col
mondo culturale di oggi».
Il numero di Micromega a cui Ratzinger si riferiva
ospitava anche un suo contributo, che lo stesso Flores gli
aveva richiesto, ottenendo questa risposta: «Sono
senz’altro d’accordo per la pubblicazione su Micromega
del mio saggio. Trovo interessante che esso sia
ospitato sulle pagine di una rivista filosofica di stampo
laico, con una prevalenza di contributi di non credenti,
per stimolare il dibattito [...]. La saluto con stima».
Come si può vedere, parole di ordinaria cordialità che
esprimono tutt’altro che chiusura, pur nella
consapevolezza della forte divergenza di idee.
A voler prendere sul serio le parole del Papa stesso e le
motivazioni ufficiali della Santa Sede, si dovrebbe dire,
pertanto, che Benedetto XVI ha preferito rinunciare
all’invito perché non ha ritenuto opportuno creare, con la
sua presenza, disordini e divisioni tra i docenti e gli
studenti dell’Università. Se si viene invitati da una
famiglia che poi si divide a causa dell’invito, allora
forse è meglio aspettare che ritorni un clima più sereno
per incontrarsi in spirito di confronto e di amicizia.
Sarebbe ingenuo pensare che il Papa non sappia che molti
non la pensano come lui. Ma una cosa è intervenire sapendo
che i tuoi interlocutori non condividono le tue idee,
altra cosa è intervenire sapendo che i tuoi interlocutori,
anche se non ti impediscono materialmente di parlare,
non vogliono ascoltarti. Soprassedendo all’invito,
pertanto, il Papa ha mostrato una ragionevole discrezione.
Ed è curioso che gli stessi che accusano di ingerenza il
Papa quando interviene, lo accusino poi di codardia quando
si fa da parte.
Sono in molti, in effetti, ad aver notato che la protesta
anti-Ratzinger da parte di una minoranza di docenti (67 su
un totale di 4500) e di studenti, sia stata motivata da
pregiudizi ideologici. Così, alla notizia della rinuncia
di Benedetto XVI si sono levate le reazioni indignate di
parecchi personaggi politici e di numerosi mezzi di
informazione nazionali. Si è considerato infatti
inammissibile che, in un Paese democratico, venisse
impedito al Papa di esprimere la sua opinione in un
contesto pubblico. A questo coro di reazioni indignate si
è però contrapposta l’idea di chi ha sottolineato che al
Papa non è stato affatto “impedito” di parlare, visto che
è stato lui stesso a rinunciare al proprio intervento.
E anche qualora Benedetto XVI si fosse recato alla
Sapienza, nessuno gli avrebbe fisicamente impedito di
pronunciare il suo discorso. Si sono così accese dispute
su che cosa significhi la libertà di parola in un Paese
laico e democratico, e, soprattutto, in un’Università.
Alcuni, solidarizzando con i 67 docenti e con gli studenti
che avevano raccolto la loro protesta contro la visita del
Papa, hanno concluso che la libertà di espressione non è
un diritto incondizionato, che autorizza chiunque a
parlare ovunque, ma un diritto che deve fare i conti con
l’altrui diritto di contestare e di esprimere un’opinione
contraria. I 67 docenti e coloro che li hanno appoggiati,
pertanto, si sono pienamente inseriti in questa logica, e
accusarli di aver voluto censurare la voce del Papa è un
errore che tradisce scarso senso della laicità.
Alcuni aspetti di questa critica sono convincenti. In
effetti nessuno ha impedito al Papa di parlare,
soprattutto se si pensa che è stato il Papa stesso a
soprassedere. La partita, da questo punto di vista, si
sarebbe risolta in parità: libertà di contestare per i 67
docenti e per gli studenti, libertà di intervenire o di
starsene a casa per Benedetto XVI. Tuttavia, se le cose
fossero davvero così semplici, non si spiegherebbe la dura
polemica a cui abbiamo assistito. Deve esserci dunque
qualcos’altro, che non riguarda solo il modo in cui i
docenti e il Papa si sono avvalsi della loro rispettiva
libertà di movimento, ma che riguarda, soprattutto, le
ragioni dei docenti contestatari, da un lato, e quelle
del Papa, dall’altro lato. Solo esaminando queste ragioni
sarà possibile comprendere il senso della vicenda, per
scoprire, infine, se davvero la partita si è risolta in
parità o se invece qualcuno ne è rimasto in qualche modo
sconfitto.
Come è risaputo, contro la visita del Pontefice erano
state inizialmente avanzate ragioni di tipo formale e
istituzionale. Si era cioè considerato inopportuno che un
capo di Stato, quale è formalmente il Papa, inaugurasse
l’anno accademico di un’Università, per di più laica. In
effetti al Papa era stato chiesto di intervenire
pronunciando una lectio magistralis, la cui
funzione è quella di dare il tono all’intero anno
accademico, e che, per questo, è tradizionalmente
riservata ai docenti dell’Ateneo. Riconoscendo la
pertinenza di queste osservazioni, il Rettore aveva
accolto le proteste, “retrocedendo” l’intervento del Papa
a semplice relazione e affidando la lectio magistralis
a un docente dell’Ateneo.
Ma, a questo punto, la protesta non si è fermata,
rivelando che le ragioni istituzionali non erano le
vere ragioni dell’opposizione alla visita di Benedetto
XVI. E infatti, dopo aver definito «sconcertante»
l’iniziativa di invitare il Papa, i docenti firmatari
della lettera hanno motivato la loro richiesta di
annullare l’invito scrivendo: «il 15 marzo 1990, ancora
cardinale, [...] Joseph Ratzinger ha ripreso
un'affermazione di Feyerabend: “All'epoca di Galileo la
Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso
Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e
giusto”. Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla
ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita
all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci
offendono e ci umiliano. In nome della laicità della
scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro
Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni
ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora
essere annullato».
L’auspicio, insomma, non è stato più motivato
dall’inopportunità che un Pontefice intervenisse
all’Università, ma che vi intervenisse la persona di
Joseph Ratzinger con le sue particolari concezioni
filosofiche. Quella che era inizialmente apparsa come una
polemica istituzionale tra la Chiesa Cattolica, da un
lato, e un’Università laica, dall’altro lato, si è così
trasformata in una disputa intellettuale tra un gruppo di
docenti di Fisica e un teologo.
È d’obbligo, perciò, leggere il brano incriminato, non
solo perché i 67 docenti giudicano il Papa per una frase
che non è sua, lasciando intendere, senza però
documentarlo, che egli la condivida, ma anche perché essi
danno per scontato che il giudizio di Feyerabend sul caso
Galilei non abbia alcun valore. Ora, il testo di Ratzinger
a cui la lettera si riferisce è stato pubblicato in
Germania nel 1991 e in traduzione italiana nel 1992, nel
volume Svolta per l’Europa?
Nel paragrafo da cui è tratta la citazione di
Feyerabend, intitolato La crisi della fede nella
scienza, Ratzinger parte da un assunto oggi ampiamente
condiviso, secondo cui, soprattutto di fronte ai rischi
ambientali e nucleari, «la domanda circa i limiti della
scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta
inevitabile».
Significativo di questa nuova consapevolezza dei limiti
della scienza e dei suoi tradizionali criteri, aggiunge
Ratzinger, è «il diverso modo con cui si giudica il caso
Galileo». Un caso che, «ancora poco considerato nel XVII
secolo, venne – già nel secolo successivo – elevato a mito
dell’illuminismo. Galileo appare come vittima di
quell’oscurantismo medievale che permane nella Chiesa.
Bene e male sono separati con un taglio netto. Da una
parte troviamo l’Inquisizione: il potere che incarna la
superstizione, l’avversario della libertà e della
conoscenza. Dall’altra la scienza della natura,
rappresentata da Galileo; ecco la forza del progresso e
della liberazione dell’uomo dalle catene dell’ignoranza
che lo mantengono impotente di fronte alla natura. La
stella della Modernità brilla nella notte buia dell’oscuro
Medioevo».
Ciò che incuriosisce, prosegue Ratzinger, è che tra i
primi a mettere in questione tale mito sono stati filosofi
e scienziati marxisti, agnostici e atei, tra i quali Ernst
Bloch, Carl Friedrich von Weizsäcker e Paul Feyerabend.
Secondo Bloch, sia il geocentrismo sia l’eliocentrismo
sono fondati su un presupposto che la teoria della
relatività ha ormai cancellato, e cioè l’esistenza di uno
spazio assoluto, vuoto e immobile. Non trovandosi più
dentro uno spazio oggettivo, il movimento dei corpi deve
essere considerato un movimento relativo, la cui
misurazione «dipende dalla scelta del corpo assunto come
punto di riferimento».
Ma questo significa, prosegue Bloch, che «qualora la
complessità dei calcoli risultanti non rendesse
impraticabile l’ipotesi – adesso come allora si potrebbe
supporre la terra fissa e il sole mobile».
Riprendendo una concezione ampiamente accettata della
scienza moderna, Bloch ritiene dunque che la maggiore
validità del sistema eliocentrico rispetto a quello
geocentrico non consiste in una maggiore corrispondenza
alla verità oggettiva, ma soltanto nel fatto che esso ci
offre una maggiore facilità di calcolo. La conclusione di
Bloch è che, una volta data per certa la relatività del
movimento, un antico sistema di riferimento umano e
cristiano, come quello che il cardinale Bellarmino fece
valere contro Galilei, non ha certo alcun diritto di
interferire nei calcoli astronomici ma, al tempo stesso,
tale sistema conserva il diritto di controllare le
applicazioni della scienza, fedele alla propria
preoccupazione di salvaguardare il bene dell’uomo e la sua
dignità.
Ratzinger non lo scrive, ma si potrebbe aggiungere, a
commento di quest’ultima citazione di Bloch, che se per
noi oggi controllare le applicazioni della scienza per il
bene dell’umanità significa far fronte all’effetto serra o
al riscaldamento globale, al tempo di Galilei significava
valutare le conseguenze che l’ipotesi eliocentrica avrebbe
avuto sulla credibilità delle Scritture. In un contesto di
crisi e di tensioni difficili da governare, anche a causa
del diffondersi del protestantesimo, per la società
cristiana accettare l’ipotesi eliocentrica significava
abbandonare una verità fino allora ampiamente accettata
anche per fede. Lo si sarebbe potuto fare, pertanto, solo
se lo scienziato pisano avesse portato prove evidenti
della sua teoria. Per questo l’Inquisizione gli chiese di
qualificare la sua teoria «ex suppositione»,
come ipotesi, in attesa che il tempo e le ricerche dello
stesso Galilei portassero la prova definitiva.
Ma Galilei non volle accettare la proposta, convinto di
aver già trovato nel movimento delle maree la prova
decisiva, che invece oggi sappiamo essere falsa. Insomma,
mutatis mutandis, Bellarmino fece valere, contro le
ipotesi eliocentriche di Galilei, qualcosa di analogo a
quello che oggi i movimenti ambientalisti fanno valere
contro le teorie che negano il riscaldamento globale per
giustificare l’emissione dei gas. Come qualche anno dopo
il processo si scoprì che Bellarmino aveva torto, allo
stesso modo tra qualche anno potremmo scoprire che
l’ipotesi del global warming è falsa. Tuttavia,
fino a quando questo non viene dimostrato, è comprensibile
e ragionevole, da parte dei movimenti ambientalisti, dare
maggiore importanza alla salute dell’ambiente piuttosto
che a una teoria scientifica non ancora dimostrata. E, se
questa venisse successivamente dimostrata, non sarebbe
corretto, facendosi forti di un giudizio che viene dato
con il senno di poi, considerare l’ambientalismo come
un’ideologia oscurantista o antiscientifica.
Ma torniamo al testo di Ratzinger. Dopo aver presentato la
posizione di Bloch, viene introdotta finalmente la
citazione incriminata di Feyerabend con le seguenti
parole: «molto più drastico appare invece il giudizio
sintetico del filosofo agnostico-scettico P. Feyerabend.
Egli scrive: “La Chiesa all’epoca di Galileo si attenne
alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in
considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della
dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu
ragionevole e giusta, e solo per motivi di opportunità
politica se ne può legittimare la revisione”».
Viene aggiunto anche un pensiero di von Weizsäcker, che,
facendo «un passo avanti» dal punto di vista delle
conseguenze etiche e sociali della svolta galileiana, vede
un via diretta che conduce da Galilei alla bomba atomica.
Fin qui la descrizione di un dibattito sui rapporti tra
scienza e fede alla luce delle nuove interpretazioni
filosofiche del caso Galilei. Ed ecco, finalmente, il
commento di Ratzinger alle citazioni di Bloch, Feyerabend
e von Weizsäcker: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di
queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede
non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della
razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e
dalla sua iscrizione in una ragionevolezza più grande».
Come si può vedere, ma come in realtà sanno bene tutti
quelli che conoscono il pensiero teologico e filosofico
del Pontefice, qui Ratzinger rifiuta apertamente
l’estremismo di Feyerabend, utilizzandolo solo per
segnalare, insieme al pensiero di altri autori, il venir
meno della fiducia incondizionata nei poteri delle scienze
positive.
Nessun disprezzo, dunque, né della scienza né della
ragione. Anzi, c’è qui la difesa della scienza e della
ragione da un’improponibile sacralizzazione, che
distruggerebbe entrambe trasformando la prima in un arido
scientismo e la seconda in un chiuso razionalismo. Se
dunque Ratzinger non ha mai condiviso la citazione di
Feyerabend che gli è stata rimproverata, perché i 67
docenti hanno chiesto di annullare comunque l’invito?
L’unica risposta possibile ci sembra la seguente: lo hanno
fatto perché hanno considerato talmente intollerabile
lo stesso giudizio di Feyerabend sul caso Galilei da
ritenere «sconcertante» la possibilità di invitare in
un’Università uno studioso che, pur non condividendo
questo giudizio, ha osato però citarlo.
Torneremo sulla strana idea di Università che soggiace a
una simile conclusione. Per ora basti notare che, a meno
che l’interlocutore non voglia teorizzare la plausibilità
della pedofilia o dell’antisemitismo, è difficile
accettare che possa essere censurato culturalmente solo
perché la pensa in un certo modo sul caso Galilei.
Soprattutto se questa censura viene fatta usando, come
criterio, una versione caricaturale e storicamente
inadeguata del caso Galilei. Che una tale versione sia
ormai divenuta una sorta di dogma nelle scuole e nelle
università, del resto, è stato rivelato da una recente
inchiesta del Consiglio d’Europa tra gli studenti di
scienze di tutti i Paesi della Comunità.
Quasi il 30% degli studenti era convinto che Galilei fosse
stato arso vivo sul rogo. La quasi totalità, il 97%, era
comunque convinta che fosse stato sottoposto a tortura.
Come è noto, invece, Galilei non fece un solo giorno di
carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica.
Convocato a Roma per il processo, si sistemò, a spese
della Santa Sede, in un alloggio di cinque stanze con
vista sui giardini vaticani e con cameriere personale.
Dopo la sentenza alloggiò nella villa dei Medici al Pincio
per poi trasferirsi come ospite nel palazzo
dell’Arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici che
lo stimavano e lo incoraggiarono nella sua impresa, e ai
quali Galilei, non a caso, aveva dedicato le sue opere.
Infine, il “condannato” si sistemò nella sua confortevole
villa di Arcetri, proseguendo le sue ricerche, che nessuno
gli impedì mai di portare avanti, né prima, né durante, né
dopo il processo.
Insomma, il caso Galilei andrebbe rivisto alla luce di una
valutazione più sobria ed equilibrata, maggiormente
informata e, soprattutto, che tenga conto del contesto
storico. Naturalmente gli ecclesiastici del XVII secolo
mostravano un certo ritardo culturale nella comprensione
dei rapporti tra scienza e fede, un’eccessiva
preoccupazione di tipo giuridico, un’incapacità di
affrontare l’esegesi biblica con criteri più aperti, ecc.
Ma sarebbe assurdo rimproverare la Chiesa del tempo di non
aver utilizzato, nell’affrontare la vicenda, criteri di
lettura che cominciarono a svilupparsi solo alla fine del
XIX secolo e che, tra l’altro, sono ancora oggetto di
dibattito.
Si badi, questo dovrebbe valere non solo quando
giudichiamo l’operato della Chiesa, ma anche quando
giudichiamo quello di Galilei. Rimproverare il cardinale
Bellarmino di non aver utilizzato gli odierni criteri di
esegesi biblica o di non aver rispettato l’autonomia della
scienza è sbagliato quanto lo è rimproverare Galilei di
non aver applicato alla propria teoria il fallibilismo
popperiano o di essere stato il responsabile della
costruzione della bomba atomica. Da questo punto di vista,
dando per scontati i limiti della Chiesa ma non quelli di
Galilei, i 67 firmatari della lettera anti-Ratzinger si
trovano, per ironia della sorte, d’accordo proprio con
Feyerabend e con von Weizsäcker: chi giudica una vicenda
del XVII secolo con criteri desunti dal XX secolo,
infatti, può certamente considerare la Chiesa come
un’istituzione oscurantista e nemica della scienza, con
l’inconveniente, però, di dover accettare come legittima,
al tempo stesso, l’affermazione che Galilei sia stato non
solo il padre del disastro ecologico e della bomba atomica
ma anche uno scienziato un po’ sprovveduto, perché ignaro
del carattere ipotetico e fallibile delle teorie
scientifiche.
In realtà, come ha mostrato proprio Ratzinger nel testo
incriminato dai 67 docenti, il caso Galilei, come tutte le
vicende storiche che hanno determinato svolte importanti,
è un caso complesso, che non si lascia facilmente
strumentalizzare né da chi si schiera con la Chiesa né da
chi si schiera con Galilei. Fede e scienza, insomma, sono
meno distanti e nemiche di quanto non lo siano coloro che,
unilateralmente, prendono posizione o per l’una o per
l’altra. Lascia perplessi, perciò, che i firmatari della
lettera contrari alla visita di Ratzinger si siano
auto-definiti “scienziati fedeli alla ragione” e abbiano
auspicato l’annullamento dell’incontro “in nome della
laicità e della cultura”. In effetti, per essere
scienziati fedeli alla ragione che agiscono in nome della
laicità e della cultura non è necessario sposare solo
una delle tante interpretazioni del caso Galilei,
dichiarandosi addirittura “offesi e umiliati” di fronte a
chi dovesse citare altre interpretazioni. Uno scienziato
fedele alla ragione non è così poco libero di fronte a
idee che ritiene sbagliate, da doversi sentire offeso e
umiliato per la loro diffusione. Si sentirà, casomai,
ulteriormente responsabilizzato. Così, se proprio non
condivide il giudizio di Feyerabend sul caso Galilei, egli
si armerà di strumenti critici e storiografici per cercare
di dimostrare che tale giudizio è sbagliato. E potrà anche
scrivere una lettera aperta alle autorità accademiche che
hanno invitato studiosi che citano Feyerabend, per
instaurare un confronto critico che le convinca di aver
preso un abbaglio. Quello che in ogni caso uno scienziato
fedele alla ragione si guarderà bene dal fare, è chiedere
che gli studiosi che citano Feyerabend non intervengano
all’Università.
Per tornare a quanto si è detto all’inizio, ciò che è in
gioco, qui, non è dunque la libertà di espressione ma
proprio la fedeltà alla ragione. Certamente sia i docenti
contestatari sia Benedetto XVI sono stati liberi di
muoversi come meglio credevano. E tuttavia, quando, in un
contesto accademico, dei docenti universitari utilizzano
la propria libertà di parola non per contestare il punto
di vista dell’altro ma per chiedere che venga annullata
la stessa possibilità che l’altro esprima il suo punto
di vista, allora siamo caduti al di fuori dell’Università,
anche se, formalmente, la libertà di espressione
dell’altro non è stata violata. In un contesto accademico,
infatti, perché la libertà dell’altro sia rispettata non
basta lasciare l’altro libero di esprimersi ma è
necessario garantirgli istituzionalmente la
possibilità di farlo. Questo, naturalmente, non significa
che i 67 docenti fossero obbligati ad ascoltare il
Papa. Anche loro, come il Papa, erano liberi di starsene a
casa o di presenziare al suo intervento tappandosi le
orecchie o fischiandolo. Garantire all’altro la
possibilità di esprimersi non significa essere obbligati
ad ascoltarlo, né, a rigore, essere obbligati a
riconoscere che il suo punto di vista è razionalmente
giustificato. Più semplicemente, significa riconoscere che
nel mondo della ricerca il proprio punto di vista non
può escludere, a priori, il confronto critico con
qualsiasi altro punto di vista. Per questo, come ha
scritto giustamente Alasdair MacIntyre, il docente
universitario «dovrebbe ricoprire un ruolo non tanto di
difensore di una specifica posizione intellettuale, quanto
piuttosto quello di chi si impegna a sostenere e a
ordinare i conflitti in corso, a fornire e a corroborare i
mezzi istituzionalizzati che permettono di esprimerli, a
trattare le modalità di incontro tra gli avversari, a
garantire che le espressioni della parte rivale non
vengano soffocate».
Questo non significa, però, che ciascun intellettuale
debba limitarsi a fare l’arbitro neutrale dei conflitti,
come se godesse, rispetto ad essi, di una visione super
partes. Deve invece partecipare egli stesso ai
conflitti e «sorreggere l’università non come il teatro di
un’oggettività neutrale, dal momento che ciascuna
prospettiva in causa tenterebbe di imporre il proprio
giudizio di parte sulla natura e sulla funzione
dell’oggettività – ma piuttosto come teatro di conflitti
in cui venga riconosciuto anche il dissenso morale e
teologico più radicale».
Purtroppo, invece, i 67 docenti hanno scambiato il loro
«giudizio di parte» sulla natura e sulla funzione
dell’oggettività con l’oggettività stessa, come risulta
chiaramente dal passaggio in cui essi, in nome di
un’Università «aperta a ogni credo e a ogni ideologia»,
auspicano l’annullamento dell’incontro con il
rappresentante di un credo, quello cattolico. Secondo
costoro, dunque, l’Università dovrebbe essere aperta a
tutti, ma non al Papa. Come se il pluralismo non fosse la
libera presenza di tutte le voci ma l’eliminazione delle
voci considerate incompatibili con la propria
particolare idea di pluralismo. Eppure, quando
l’Università La Sapienza, nel giugno 2006, ha siglato un
accordo di collaborazione con l’Università islamica di Al
Azhar, alla presenza dello sheik e teologo sunnita Mohamed
Sayed Tantawi, che nei suoi scritti ha giustificato i
kamikaze palestinesi e la condanna a morte per i musulmani
che si convertono al cristianesimo, i 67 docenti non hanno
scritto alcuna lettera di protesta.
È lecito domandarsi: perché Tantawi sì e Benedetto XVI no?
Quando si invoca l’apertura a ogni credo per
giustificare l’esclusione di un credo bisogna
almeno esibire un argomento ad hoc, che
giustifichi l’eccezione. L’accusa di aver citato
Feyerabend, lo abbiamo visto, non è un argomento
sufficiente. O, meglio, non è un argomento. Viene in mente
un passo dei Topici di Aristotele: «Porre
impedimento al discorso senza rivolgere una obiezione, o
reale o che sembra tale, è segno di cattiva abitudine».
Sorge, a questo punto, il sospetto che in tutta questa
vicenda la citazione di Feyerabend sia servita solo a
mascherare una serie di radicati pregiudizi, tipici di una
certa cultura accademica ancora legata al positivismo
ottocentesco, come il pregiudizio secondo cui in una
democrazia la voce della fede debba essere esclusa da ogni
spazio pubblico, o il pregiudizio, legato al primo, che
considera la fede in Gesù Cristo come un sentimento
privato e irrazionale, laddove la razionalità sarebbe
monopolio esclusivo delle scienze positive. Ma è davvero
così? Certamente non sempre la rilevanza pubblica della
fede ha dato frutti positivi nella storia, ma sarebbe
ingiusto e falso ignorare gli innumerevoli e decisivi
frutti positivi che essa ha offerto, e continua a offrire
oggi, nel campo della cultura, della formazione,
dell’assistenza sociale e ospedaliera. E se la fede
nell’intelligibilità della creazione non avesse avuto una
sua razionalità, da essa non sarebbe potuta nascere, come
storicamente è nata, la scienza moderna. Senza
considerare, infine, che il vecchio scientismo risuscitato
da alcuni intellettuali in occasione di questa vicenda
sembra ignorare le scottanti problematiche di bioetica e i
vistosi limiti della scienza quando la si trasforma
nell’unica forma di razionalità possibile. Come ha scritto
Ludwig Wittgenstein, infatti, «Noi sentiamo che, anche se
tutte le possibili domande della scienza trovassero una
risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero neppure
sfiorati».
Ma forse dietro la richiesta di annullare l’incontro con
il Papa agiscono meccanismi culturali più profondi, che
hanno creato una sorta di incomunicabilità tra una visione
in cui la ragione si apre fiduciosa al mistero e una
ragione che invece si chiude nel recinto, rassicurante, di
ciò che si può sempre prevedere e controllare. Nel
discorso che avrebbe dovuto pronunciare nell’Ateneo
romano, dopo essersi domandato: «Che cosa ha da fare o da
dire il Papa nell’università?», Benedetto XVI ha aggiunto:
«Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo
autoritario la fede, che può essere solo donata in
libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella
Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo
ministero pastorale è suo compito mantenere desta la
sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la
ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di
Dio».
Per una cultura che ha cancellato l’idea che esista una
verità irriducibile ai parametri della scienza e che ha
sostituito la ricerca del bene con la ricerca dell’utile,
rinunciando, infine, a misurarsi con il problema di Dio,
questo, in effetti, è un messaggio scomodo. Talmente
scomodo, che sarebbe meglio non sentirlo pronunciare.
Luciano Sesta
* * * * *
In questo nuovo numero della nostra rivista pubblichiamo
gli interventi che Marianna Gensabella Furnari e Demetrio
Neri, entrambi membri del Comitato Nazionale di Bioetica,
hanno presentato all’incontro su Eutanasia e
accanimento terapeutico. Aspetti clinici e bioetici,
tenutosi a Palermo il 27 ottobre per il Ciclo di Incontri
di Bioetica organizzato dall’Associazione Thomas
International. A seguire, un articolo di Maria Rita Fedele
sul problema della differenza sessuale e le consuete
rubriche. Come si accorgeranno i nostri lettori,
“Questioni di bioetica” comincia a ospitare contributi di
studiosi che non condividono la nostra posizione di fondo,
che è quella personalista e giusnaturalista. Siamo
convinti, infatti, che solo nel confronto autentico e
sincero delle rispettive posizioni sia possibile non solo
evitare schematiche contrapposizioni ma anche, e
soprattutto, maturare un giudizio critico e ben fondato
sui problemi della bioetica. Ci piace anche promuovere, in
questo modo, l’idea che la verità si faccia strada da sé,
consentendo a chi la ricerca senza pregiudizi e in buona
fede il “lusso” di potersi confrontare con chiunque, in
qualunque modo la pensi.
A. TORRESANI,
art. cit., p. 210.
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