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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 5 - Gennaio 2008 
     
 

Dignità della persona ed eutanasia

di Demetrio Neri*

 

 

 

 

1.    Problema

 

C'è spesso un momento, nel corso di una malattia giunta in una fase nella quale non sono più sperabili né la guarigione, né il recupero del paziente a una dignitosa vita di relazione, nel quale non sembra più appropriato continuare a fare ogni sforzo per tenere in vita la persona. Cosa è lecito fare in casi del genere? Se la situazione è tale che è razionalmente preferibile morire che continuare a vivere, è moralmente lecito porre in essere procedure il cui risultato è una anticipazione del momento della morte? E se in quella situazione il paziente chiede al medico di togliergli la vita, è moralmente lecito che questi, se è d'accordo, esaudisca quella richiesta?

Le prime due domande individuano i problemi etici delle decisioni mediche di fine vita, che sono in buona parte generati dal fatto che oggi siamo in grado di prolungare la vita, intesa come vita biologica, ben oltre il punto in cui essa è anche vita biografica, grazie a strumenti tecnologici che hanno depotenziato, fino a renderla inutile, l'antica distinzione tra eutanasia passiva (lasciar morire) ed eutanasia attiva (uccidere). La terza domanda individua quest'ultimo caso, che è il più controverso e discusso.

 

 

2. Caso

 

“Cari amatissimi amici, me ne vado. Come avevo promesso ho resistito e lottato finché ho potuto. Personalmente non condanno il suicidio – penso che ogni uomo ha il diritto di decidere il destino della sua vita. Ma questo suicidio non è. A questo punto è soltanto evitarmi ed evitarvi lunghi inutili giorni di sofferenza senza speranza”. Questo è il testo  della lettera d’addio di Lillo Roxas, un intellettuale e giornalista della Palermo degli anni ’60 e ’70, che nel 1980 commise quello che oggi chiameremmo un “suicidio medicalmente assistito”. La lettera è tratta da Romanzo civile, in cui Giuliana Saladino [1] racconta la vicenda umana di questo giornalista, dalla diagnosi di cancro fino alla decisione di mettere fine alla propria vita con l’aiuto  di un medico. Nel corso del romanzo, nei colloqui con gli amici, si intrecciano e si rincorrono pressoché tutti i temi, gli argomenti e gli appelli ai principi di cui sono intessuti i nostri discorsi sull’eutanasia: c’è il tema della “sofferenza inutile e senza speranza”, di senechiana memoria; c’è il tema della “qualità della vita”e della rivendicazione della “piena dignità della sua persona umana”; e, ancora, il tema della “porta aperta”, anch’esso forse una reminiscenza classica (Epitteto); ma, in contrasto, l’invito degli amici a non assumere atteggiamenti eroici (è vero, spesso nei nostri discorsi sull’eutanasia il “morire bene” diventa una cosa da eroi filosofici), a rimettersi, a consegnarsi a mani amiche: “se hai l’affanno che male c’è a dire mi porti il vino, mi prendi quel libro, suonano alla porta, apri…O vuoi fare come mia madre, che a 88 anni non vuole nemmeno offerto il braccio?” E infine, ma alla base di tutto, la pretesa puntigliosa di avere il diritto di decidere, di volere “rimanere soggetto, primo e sovrano”, una pretesa poi, stranamente, ma significativamente, in qualche modo ridimensionata (“questo suicidio non è”) nella lettera d’addio.

Questo è solo un esempio, tra i tanti che si potrebbero addurre, di casi realmente accaduti (il dark number, sul quale in Italia ci si ostina pervicacemente a non volere far luce), che testimoniano la complessità del fenomeno sul quale deve misurarsi il pensiero normativo nella sua ricerca di una risposta al quesito fondamentale sulla giustificabilità morale dell' eutanasia.

 

 

3. Discussione

 

3.1 Dignità umana è uno di quei tipici concetti filosofici che possono contemplare e reggere varie e differenti concezioni. Esistono molte e differenti tradizioni filosofiche e/o religiose che spiegano perché gli esseri umani hanno dignità e quindi meritano rispetto ed è corretto affermare che mentre ognuna di queste tradizioni ha contribuito alla costruzione della nozione, nessuna di esse, separatamente considerata, può (né dovrebbe) pretendere di esaurirlo. Solo qualche rapido cenno.

Lasciando da parte le tradizioni filosofiche e religiose orientali (che sono sicuro possono arricchire la nozione, ma non sono competente in materia), potremmo far riferimento alla tradizione greco-romana, in specie quella stoica con quel suo universalismo ignoto alla cultura filosofica precedente e sul quale si innesta la grande tradizione cristiana della dignità dell’essere umano come imago dei, dunque una dignità riflessa. Su queste tradizioni si innesta poi la tradizione moderna, secolarizzata, che inizia col nostro Umanesimo e via via arricchisce la nozione specificandone alcune dimensioni importanti: creatura di indeterminata natura, diceva Pico della Mirandola, che deve “farsi”, quasi “autocrearsi” , un compito infinito per assolvere al quale l’essere umano può usare solo una particolare abilità, quella di pensare, che addirittura diventa in Blaise Pascal fonte stessa della dignità umana: “tutta la nostra dignità consiste nel pensiero” (Frammento 347). E infine, e legato a tutto questo, l’autonomia individuale: “Autonomia è quindi il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale”(Kant). Una dimensione, quest’ultima, importantissima (ci tornerò subito), ma che in Kant assume connotazioni che ne fanno una sorta di riedizione secolare dell’idea riflessa di dignità propria della tradizione cristiana: in Kant l’oggetto del rispetto “è esclusivamente la legge morale” e “ogni rispetto per una persona non è propriamente che rispetto per la legge”. Nonostante questa astrattezza, e tenendo conto dell’altra grande tradizione dell’autonomia, quella liberale di J. Stuart Mill, forse più di questa che di quella kantiana, penso che non ci sia bisogno di molte parole per affermare che nella costruzione della nozione moderna , secolarizzata, di dignità della persona la nozione di autonomia gioca un ruolo rilevante: non esclusivo naturalmente, ma certo rilevante e che in ogni caso ha dato corpo a una delle modalità più importanti in cui può esprimersi il contenuto della nozione di dignità: il diritto all’autodeterminazione, che è connesso al riconoscimento della libertà delle persone, e il diritto all’autorealizzazione e cioè a compiere azioni in vista della realizzazione del piano di vita che il diritto all'autodeterminazione intitola ciascuno di noi a  definire e ridefinire per sé. I limiti e i vincoli riguardano il livello dell'autorealizzazione: non vedo infatti in che senso e con quale argomentazione si possa sostenere che qualcun'altro possa avanzare la pretesa di decidere per me quale sia il piano di vita buona per me. Ciò implicherebbe una lesione della libertà della volontà e quindi della stessa dignità della persona. Altra cosa è il livello dell'autorealizzazione, che implica il poter compiere azioni che possono toccare interessi, diritti e piani di vita degli altri. Qui è appropriato parlare di vincoli e limiti, che ovviamente non dovrebbero  essere  tali da vanificare il principio di autonomia, anche perché tale principio ha una caratteristica molto importante: quella di essere compatibile con tutte le diverse autorappresentazioni della propria condizione esistenziale che le persone che affrontano il morire possono nutrire.

 

3.2 Non dico certo cosa nuova se ricordo che gli atteggiamenti e le reazioni delle persone quando si trovano di fronte al proprio morire sono estremamente diversificati. Ci sono persone che sopportano pazientemente tutto quel che la sorte porta con sé e non trovano indecoroso vivere intubati o collegati ad altre macchine che controllano le condizioni esterne della loro vita: chiedono anzi che sia fatto tutto il fattibile per allungare anche di poco la loro vita, fino al limite l’accanimento terapeutico e talora oltre. È vero che c’è ormai un vastissimo consenso sul divieto di accanimento terapeutico, definito dal Codice di deontologia dei medici italiani  come “ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Ma è poi difficile individuare criteri che consentano di stabilire univocamente cosa sia o non sia accanimento e come questi criteri si rapportano alla percezione soggettiva e personalissima che il paziente ha della propria condizione e alle sue ragioni per accettare tale condizione. Mi spingerei a dire che non c’è neppure bisogno di sapere quali siano: sono le loro ragioni. Noi possiamo al massimo pensare che nel significato che queste persone attribuiscono al termine dignità non hanno un ruolo significativo l’autonomia e il controllo sul proprio corpo e la propria vita o che, comunque, la perdita di autonomia e di controllo non viene percepita come gravemente lesiva della loro dignità. Vi sono invece persone che possono ritenere che una parte essenziale della loro dignità risieda appunto nel mantenere un ragionevole controllo su quel che accade alla propria vita e per questo sono angosciate dall'idea di poterne passare la parte finale  in condizioni che  esse considerano,  per varie ragioni (ma sempre le loro ragioni), gravemente lesive della loro dignità.  Vi sono poi persone che sono in grado di sopportare serenamente le sofferenze terminali, magari finalizzandole ad un alto scopo religioso. Altre persone non riescono a trovare un senso nella sofferenza terminale: per queste persone, è il senso stesso che si è dileguato, poiché nella condizione terminale nessuno dei beni materiali e spirituali che la vita consente di perseguire è per loro neppure più una promessa per la quale valga la pena soffrire. La sofferenza diventa inutile, insensata: e altrettanto può esserlo, per queste persone, trascorrere l'ultima fase della propria vita in un'alternanza tra sofferenza e affievolimento della coscienza causato dalle terapie del dolore. 

Ognuno di questi differenti atteggiamenti  può costituire  per ognuno di noi la propria personale risposta alle questioni morali significative su come far fronte alla propria morte: ma ciò che giustifica le pretese  morali che  da ognuna di queste differenti risposte possono promanare è l’appello al principio di autonomia come dimensione essenziale, anche se non esclusiva, della dignità delle persone. Questo spiega perché noi possiamo trovare l’appello al rispetto della dignità sia negli scritti di chi considera l’eutanasia una forma dignitosa di morire, sia in quelli di chi la considera la massima indegnità possibile.

 

3.3  Paul Ramsey scriveva nel 1974 un articolo dal titolo  L'indegnità della "morte con dignità"[2], e ancora più recentemente Christopher Miles Coope, nell'ambito del dibattito svoltosi negli Stati Uniti a proposito del pronunciamento della Corte suprema circa l'ammissibilità del suicidio assistito, ha sostenuto che non c'è modo di dare un senso plausibile all'espressione "morte con dignità" e quindi che faremmo bene a rinunciare ad usarla nei nostri ragionamenti morali[3].

Se questo è un invito ad evitare quella, direi quasi inevitabile,  retorica che spesso accompagna i nostri discorsi su questo tema, forse faremmo bene ad accoglierlo, anche se non credo di essere riuscito a farlo nel mio intervento. Ma in realtà neppure Miles Coope riesce ad evitare un po’ di retorica quando si libera troppo sbrigativamente di un senso importante dell'espressione che egli critica e cioè quello che fa riferimento non al momento (se momento è) della morte,  ma alla fase che precede, e cioè al morire. Forse che, si chiede retoricamente Miles Coope, essere in una situazione nella quale abbiamo bisogno dell'aiuto degli altri, o dipendiamo dagli altri per buona parte o tutte le esigenze esterne della nostra vita, è qualcosa che necessariamente diminuisce la nostra dignità?

E' fin troppo facile (e, appunto, un po’ retorico) rispondere: certamente no e non la diminuisce neppure il richiedere e l'ottenere tale aiuto, purché  la persona che si trova in questa situazione desideri e richieda questo aiuto e che questo aiuto gli venga dato in un modo che non si sovrapponga o contraddica il modo in cui ognuno desidera far fronte alle condizioni del proprio morire. Questo è il punto nodale, sul quale vorrei brevemente soffermarmi. C'è , infatti, un modo di presentare le cure palliative e le forme di accompagnamento del morente che, mentre è condivisibile quando ne sottolinea l'importanza umana e sociale (anche qui talora con qualche punta di retorica) e ne propone con forza lo sviluppo nell'ambito della creazione di una nuova ars morientem curandi, diventa però inaccettabile quando giunge a presentarle quasi come un trattamento obbligatorio, in quanto l'unico ammissibile ed escludente altre possibilità, per tutti coloro che si trovano nella fase terminale di una malattia ad esito infausto.

 

3.4 In effetti, c'è una diffusa convinzione che ci sia bisogno di costruire questa ars morientem curandi,  e cioè  un'arte di aver cura della persona che muore per aiutarla a fare fronte alle sofferenze fisiche, psicologiche e spirituali dell'ultima fase della sua vita. Quest'arte contiene un aspetto più propriamente medico (finalizzato al controllo del dolore) ed un aspetto di sostegno spirituale e psicologico che accompagni il paziente in modo tale che egli sia in grado di prepararsi alla morte in accordo alla spiritualità che gli è propria, in modo tale cioè che il morire tenga fede ai valori ai quali ognuno ha inteso improntare la propria vita. La morte diventa così appropriata al modo in cui si è vissuti ed è semplicemente la pagina finale della vita. Questo è un punto importante, ben sottolineato (e, per la verità, è uno dei pochi punti condivisibili) nel documento del Comitato nazionale per la bioetica dedicato al nostro tema. Vi si dice infatti che occorre decisamente evitare di "interporre tra noi e chi “vive il morire”  lo schermo delle nostre convinzioni,  per quanto giuste si possano ritenere";  e si ribadisce perciò "tutta l'importanza di un tipo di accompagnamento che rispetti fino in fondo le credenze,   la religione e la mancanza di un riferimento religioso,  o qualsiasi altro tipo di posizione che la persona che affronta la morte presenta"[4] . Ma se questo è importante, come anche io penso, allora mi sembra contraddittorio presentare le cure palliative e l'accompagnamento del morente come escludenti, in linea di principio, la possibilità dell'eutanasia. Non corriamo infatti il rischio, in tal modo, di sovrapporre la nostra spiritualità, il nostro senso della vita e della morte, a quelli del paziente ? Oppure qualcuno ritiene di avere l'unica chiave possibile di ciò che ha senso e significato?

Spesso si afferma infatti che la questione eutanasia sorge perché nella società moderna si è perduto il senso trascendente della morte e perciò anche il senso della vita (o, se si vuole, il senso della vita e perciò anche il senso della morte). Questo modo di impostare il discorso è sbagliato, quando sottende l'idea che solo un orientamento al trascendente possa dar senso alla vita e alla morte. Come ha opportunamente rilevato in un  articolo apparso su La  civiltà  cattolica Francesco Cultrera, noi accediamo al senso della vita, al senso del morire, attraverso l'ethos che impregna la nostra cultura. È almeno un dato di fatto (per chi non voglia considerarlo anche un valore) che la nostra cultura su questo punto non è univoca : "La divergenza riguarda il senso immanente o trascendente del vivere e del morire, riguarda – sembra – il fondamento del senso, ma non l'esistenza di un senso" [5].  E allora c'è da chiedersi: se noi escludiamo in linea di principio l'opzione per l'eutanasia,  cosa ci rende certi che quel che intendiamo fare per aiutare qualcuno nel morire coincida con ciò che quella persona vuole per sé in accordo al senso che egli ha inteso dare alla sua vita, quel senso nel quale si incarna la sua personale intuizione di ciò in cui risiede la sua dignità.  

 

3.5  Uno dei rilievi che vengono talora mossi al modo in cui si è sviluppato negli ultimi anni il dibattito sull'eutanasia è che in esso è mancato o è stato sottovalutato lo spessore più squisitamente etico-filosofico ed antropologico del problema della morte e del suo senso all'interno della vita in quanto ineliminabile segno dell'umana finitezza e fragilità. Gli interrogativi più radicali su che cosa sia una buona morte e se l'eutanasia possa essere una modalità adeguata del "morire bene" sembrano scomparsi dal nostro orizzonte di discorso, che si è sempre più concentrato sul problema formale delle scelte e del diritto di scegliere ed ha trascurato di approfondire la questione sostanziale  del che cosa  si sceglie.

Uno degli autori che ha maggiormente insistito su questo punto è stato Daniel Callahan [6]. Partendo proprio col rilevare come nell'attuale dibattito si parla molto del morire, del diritto di morire e delle scelte pubbliche, ma si parla assai poco della morte e del suo significato e posto nella nostra vita, Callahan sostiene che sono proprio queste questioni di senso che comunque possono dare  significato alle scelte pubbliche.  La sua tesi è che la crescente richiesta di eutanasia  è la risposta sbagliata ad un problema reale (il radicale mutamento nelle condizioni del morire), creato dall'intrecciarsi tra il "progetto scientifico" della medicina moderna e lo sviluppo di una mentalità individualistica, ossessionata dai miti dell'autonomia, del controllo sulla propria vita e dell'indipendenza. La sua soluzione è estremamente affascinante, ma anche molto complessa, poiché richiede mutamenti di tipo tanto epocale quanto i mutamenti che nel corso degli ultimi due secoli hanno condotto alla situazione attuale. Tale soluzione prevede un radicale ripensamento e ridimesionamento del ruolo della medicina nella vita umana (che sbocca nella richiesta di rovesciare la tradizionale presunzione a "curare sempre"), ma anche un altrettanto radicale ripensamento dei concetti di io, natura e società e dei relativi rapporti: insomma, una nuova mentalità, capace di stimolare una comprensione collettiva della morte e una visione comune analoga, sia pure nelle mutate condizioni, a quella che altre culture hanno posseduto. La debolezza di questa soluzione risiede forse soprattutto nella sua epocalità, ma non è questo il punto che mi interessa rilevare.  Il problema di fondo, infatti, è che quando si dà un così grande rilievo alle questioni di senso, di significato, bisogna essere disposti a riconoscere che esiste una dimensione squisitamente personale e, direi quasi, intima della ricerca di senso, che non può andare perduta o essere ignorata a favore della  dimensione collettiva e comunitaria. E se questo è vero, non è affatto sicuro che tale ricerca sfoci necessariamente in un unico senso della vita e della morte, immancabilmente tale da escludere l'eutanasia come modalità di buona morte: o, almeno, non lo è in un mondo in cui la legittimità di differenti stili di vita e di pensiero morale è ormai un irrinunciale dato di fatto. Io non credo quindi che l'essersi concentrati sulla questione "formale"  della possibilità di scegliere e non sulla questione sostanziale del che cosa scegliere, abbia rappresentato un impoverimento della dimensione filosofica del dibattito attuale: in realtà, questo è dipeso semplicemente dal fatto che ora è negata proprio la stessa possibilità di scegliere. Questa è una questione di libertà e le questioni di libertà sono sempre di grande spessore filosofico.  

 

Vorrei a questo proposito riportare due passi. Il primo è di Uberto Scarpelli e  sottolinea quello che a me sembra essere l'aspetto centrale del problema che abbiamo di fronte.  Se infatti è vero che il problema eutanasia chiama in causa la nostra stessa spiritualità, il nostro modo di essere e il tipo di persone che abbiamo voluto diventare, allora bisogna dire con chiarezza che qui si pone una questione generale di libertà: “Chi dalla sua religione è condotto a sopportare qualsiasi abiezione fisica per amore di Dio va scrupolosamente onorato nella sua volontà; chi al contrario in una diversa religione di vita non vuole offendere la vita col suo avvilimento deve essere anch’egli onorato nella sua altrettanto nobile scelta”[7] .  Ma se siamo convinti che alla radice del disaccordo morale sull'eutanasia stanno questioni di natura profondamente spirituale e religiosa e se a questa convinzione si accompagna quella secondo la quale nelle moderne società democratiche e liberali  lo Stato e il diritto non possono avere la funzione di difendere (o imporre) questa o quella concezione etica, allora dovremmo accettare la conclusione cui perviene Ronald Dworkin: “Una volta ancora la questione critica è se una società decente sceglierà la coercizione o la responsabilità, se cercherà di imporre a ciascuno un giudizio collettivo su questioni della più profonda natura spirituale, o se consentirà e anzi chiederà ai suoi cittadini di formulare da sé i giudizi che stanno al centro della definizione della propria personalità”[8].

Nasce da qui un’ultima domanda, che introduce un tema che non posso qui approfondire[9]: è proprio irricevibile, da parte dell’ordinamento giuridico, la richiesta di creare uno spazio nel quale ognuno di noi possa vedersi rispettato nelle scelte che riguardano questioni cruciali come la vita e la morte?

 


 


* Professore Ordinario di Bioetica all’Università di Messina e Membro del Comitato Nazionale di Bioetica

 

[1] G. Saladino, Romanzo  civile, Sellerio editore, Palermo, 2000.

[2] P. Ramsey , The Indignity of 'Death With Dignity' , “The Hastings Center Studies”, 1974, 2, pp. 47-62.

[3] C. Miles Coope, Death With Dignity,  “Hastings Center Report” , 1977, 5, pp. 37-38.

[4] Comitato nazionale per la bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma, 1995, p.49

[5] F. Cultrera, “Note sull’eutanasia”, in La civiltà cattolica, 1994, III, p. 157. L’autore continua: “Il funerale civile non è una sostituzione del funerale religioso; è una forma sociale e culturale con cui esprimere simbolicamente, attraverso il rito civile, che la vita di quel soggetto ha avuto un senso, che parenti e amici le riconoscono un senso”(ibidem).

[6] D. Callahan, The troubled dream of life. Living with mortality, Simon&Shuster, New York, 1993.

[7] U. Scarpelli, Eutanasia, ultimo gesto della pietà, in U. Scarpelli, Bioetica laica, a cura di M. Mori, Baldini&Castaldi, Milano, 1998, p. 131.

[8] R. Dworkin, Life’s Dominion , Harper, London, 1993 (trad. It. Il dominio della vita, ed. di Comunità, Milano, 1996, p. 254.

[9] Mi permetto di rinviare, per un primo approccio al tema del rapporto tra eutanasia e diritto, al mio Eutanasia. Valori, scelte morali e dignità delle persone, Laterza, Roma-Bari, 1995.

 
 
     
     
 
 
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