Dignità
della persona ed eutanasia
di
Demetrio Neri*
1.
Problema
C'è spesso
un momento, nel corso di una malattia giunta in una fase
nella quale non sono più sperabili né la guarigione, né
il recupero del paziente a una dignitosa vita di
relazione, nel quale non sembra più appropriato
continuare a fare ogni sforzo per tenere in vita la
persona. Cosa è lecito fare in casi del genere? Se la
situazione è tale che è razionalmente preferibile morire
che continuare a vivere, è moralmente lecito porre in
essere procedure il cui risultato è una anticipazione
del momento della morte? E se in quella situazione il
paziente chiede al medico di togliergli la vita, è
moralmente lecito che questi, se è d'accordo, esaudisca
quella richiesta?
Le prime due
domande individuano i problemi etici delle decisioni
mediche di fine vita, che sono in buona parte generati
dal fatto che oggi siamo in grado di prolungare la vita,
intesa come vita biologica, ben oltre il punto in cui
essa è anche vita biografica, grazie a strumenti
tecnologici che hanno depotenziato, fino a renderla
inutile, l'antica distinzione tra eutanasia passiva
(lasciar morire) ed eutanasia attiva (uccidere). La
terza domanda individua quest'ultimo caso, che è il più
controverso e discusso.
2. Caso
“Cari
amatissimi amici, me ne vado. Come avevo promesso ho
resistito e lottato finché ho potuto. Personalmente non
condanno il suicidio – penso che ogni uomo ha il diritto
di decidere il destino della sua vita. Ma questo
suicidio non è. A questo punto è soltanto evitarmi ed
evitarvi lunghi inutili giorni di sofferenza senza
speranza”. Questo è il testo della lettera d’addio di
Lillo Roxas, un intellettuale e giornalista della
Palermo degli anni ’60 e ’70, che nel 1980 commise
quello che oggi chiameremmo un “suicidio medicalmente
assistito”. La lettera è tratta da Romanzo civile,
in cui Giuliana Saladino
racconta la vicenda umana di
questo giornalista, dalla diagnosi di cancro fino alla
decisione di mettere fine alla propria vita con l’aiuto
di un medico. Nel corso del romanzo, nei colloqui con
gli amici, si intrecciano e si rincorrono pressoché
tutti i temi, gli argomenti e gli appelli ai principi di
cui sono intessuti i nostri discorsi sull’eutanasia: c’è
il tema della “sofferenza inutile e senza speranza”, di
senechiana memoria; c’è il tema della “qualità della
vita”e della rivendicazione della “piena dignità della
sua persona umana”; e, ancora, il tema della “porta
aperta”, anch’esso forse una reminiscenza classica (Epitteto);
ma, in contrasto, l’invito degli amici a non assumere
atteggiamenti eroici (è vero, spesso nei nostri discorsi
sull’eutanasia il “morire bene” diventa una cosa da eroi
filosofici), a rimettersi, a consegnarsi a mani amiche:
“se hai l’affanno che male c’è a dire mi porti il vino,
mi prendi quel libro, suonano alla porta, apri…O vuoi
fare come mia madre, che a 88 anni non vuole nemmeno
offerto il braccio?” E infine, ma alla base di tutto, la
pretesa puntigliosa di avere il diritto di decidere, di
volere “rimanere soggetto, primo e sovrano”, una pretesa
poi, stranamente, ma significativamente, in qualche modo
ridimensionata (“questo suicidio non è”) nella lettera
d’addio.
Questo è solo un esempio, tra i tanti che si potrebbero
addurre, di casi realmente accaduti (il dark number,
sul quale in Italia ci si ostina pervicacemente a non
volere far luce), che testimoniano la complessità del
fenomeno sul quale deve misurarsi il pensiero normativo
nella sua ricerca di una risposta al quesito
fondamentale sulla giustificabilità morale dell'
eutanasia.
3.
Discussione
3.1
Dignità umana è uno di quei tipici concetti filosofici
che possono contemplare e reggere varie e differenti
concezioni. Esistono molte e differenti tradizioni
filosofiche e/o religiose che spiegano perché gli esseri
umani hanno dignità e quindi meritano rispetto ed è
corretto affermare che mentre ognuna di queste
tradizioni ha contribuito alla costruzione della
nozione, nessuna di esse, separatamente considerata, può
(né dovrebbe) pretendere di esaurirlo. Solo qualche
rapido cenno.
Lasciando da
parte le tradizioni filosofiche e religiose orientali
(che sono sicuro possono arricchire la nozione, ma non
sono competente in materia), potremmo far riferimento
alla tradizione greco-romana, in specie quella stoica
con quel suo universalismo ignoto alla cultura
filosofica precedente e sul quale si innesta la grande
tradizione cristiana della dignità dell’essere umano
come imago dei, dunque una dignità riflessa. Su
queste tradizioni si innesta poi la tradizione moderna,
secolarizzata, che inizia col nostro Umanesimo e via via
arricchisce la nozione specificandone alcune dimensioni
importanti: creatura di indeterminata natura, diceva
Pico della Mirandola, che deve “farsi”, quasi
“autocrearsi” , un compito infinito per assolvere al
quale l’essere umano può usare solo una particolare
abilità, quella di pensare, che addirittura diventa in
Blaise Pascal fonte stessa della dignità umana: “tutta
la nostra dignità consiste nel pensiero” (Frammento
347). E infine, e legato a tutto questo, l’autonomia
individuale: “Autonomia è quindi il fondamento della
dignità della natura umana e di ogni natura razionale”(Kant).
Una dimensione, quest’ultima, importantissima (ci
tornerò subito), ma che in Kant assume connotazioni che
ne fanno una sorta di riedizione secolare dell’idea
riflessa di dignità propria della tradizione cristiana:
in Kant l’oggetto del rispetto “è esclusivamente la
legge morale” e “ogni rispetto per una persona non è
propriamente che rispetto per la legge”. Nonostante
questa astrattezza, e tenendo conto dell’altra grande
tradizione dell’autonomia, quella liberale di J. Stuart
Mill, forse più di questa che di quella kantiana, penso
che non ci sia bisogno di molte parole per affermare che
nella costruzione della nozione moderna , secolarizzata,
di dignità della persona la nozione di autonomia gioca
un ruolo rilevante: non esclusivo naturalmente, ma certo
rilevante e che in ogni caso ha dato corpo a una delle
modalità più importanti in cui può esprimersi il
contenuto della nozione di dignità: il diritto
all’autodeterminazione, che è connesso al riconoscimento
della libertà delle persone, e il diritto
all’autorealizzazione e cioè a compiere azioni in vista
della realizzazione del piano di vita che il diritto
all'autodeterminazione intitola ciascuno di noi a
definire e ridefinire per sé. I limiti e i vincoli
riguardano il livello dell'autorealizzazione: non vedo
infatti in che senso e con quale argomentazione si possa
sostenere che qualcun'altro possa avanzare la pretesa di
decidere per me quale sia il piano di vita buona per me.
Ciò implicherebbe una lesione della libertà della
volontà e quindi della stessa dignità della persona.
Altra cosa è il livello dell'autorealizzazione, che
implica il poter compiere azioni che possono toccare
interessi, diritti e piani di vita degli altri. Qui è
appropriato parlare di vincoli e limiti, che ovviamente
non dovrebbero essere tali da vanificare il principio
di autonomia, anche perché tale principio ha una
caratteristica molto importante: quella di essere
compatibile con tutte le diverse autorappresentazioni
della propria condizione esistenziale che le persone che
affrontano il morire possono nutrire.
3.2
Non dico certo cosa nuova se ricordo che gli
atteggiamenti e le reazioni delle persone quando si
trovano di fronte al proprio morire sono estremamente
diversificati. Ci sono persone che sopportano
pazientemente tutto quel che la sorte porta con sé e non
trovano indecoroso vivere intubati o collegati ad altre
macchine che controllano le condizioni esterne della
loro vita: chiedono anzi che sia fatto tutto il
fattibile per allungare anche di poco la loro vita, fino
al limite l’accanimento terapeutico e talora oltre. È
vero che c’è ormai un vastissimo consenso sul divieto di
accanimento terapeutico, definito dal Codice di
deontologia dei medici italiani come “ostinazione
in trattamenti da cui non si possa fondatamente
attendere un beneficio per la salute del malato e/o un
miglioramento della qualità della vita”. Ma è poi
difficile individuare criteri che consentano di
stabilire univocamente cosa sia o non sia accanimento e
come questi criteri si rapportano alla percezione
soggettiva e personalissima che il paziente ha della
propria condizione e alle sue ragioni per accettare tale
condizione. Mi spingerei a dire che non c’è neppure
bisogno di sapere quali siano: sono le loro ragioni. Noi
possiamo al massimo pensare che nel significato che
queste persone attribuiscono al termine dignità non
hanno un ruolo significativo l’autonomia e il controllo
sul proprio corpo e la propria vita o che, comunque, la
perdita di autonomia e di controllo non viene percepita
come gravemente lesiva della loro dignità. Vi sono
invece persone che possono ritenere che una parte
essenziale della loro dignità risieda appunto nel
mantenere un ragionevole controllo su quel che accade
alla propria vita e per questo sono angosciate dall'idea
di poterne passare la parte finale in condizioni che
esse considerano, per varie ragioni (ma sempre le loro
ragioni), gravemente lesive della loro dignità. Vi sono
poi persone che sono in grado di sopportare serenamente
le sofferenze terminali, magari finalizzandole ad un
alto scopo religioso. Altre persone non riescono a
trovare un senso nella sofferenza terminale: per queste
persone, è il senso stesso che si è dileguato, poiché
nella condizione terminale nessuno dei beni materiali e
spirituali che la vita consente di perseguire è per loro
neppure più una promessa per la quale valga la pena
soffrire. La sofferenza diventa inutile, insensata: e
altrettanto può esserlo, per queste persone, trascorrere
l'ultima fase della propria vita in un'alternanza tra
sofferenza e affievolimento della coscienza causato
dalle terapie del dolore.
Ognuno di
questi differenti atteggiamenti può costituire per
ognuno di noi la propria personale risposta alle
questioni morali significative su come far fronte alla
propria morte: ma ciò che giustifica le pretese morali
che da ognuna di queste differenti risposte possono
promanare è l’appello al principio di autonomia come
dimensione essenziale, anche se non esclusiva, della
dignità delle persone. Questo spiega perché noi possiamo
trovare l’appello al rispetto della dignità sia negli
scritti di chi considera l’eutanasia una forma dignitosa
di morire, sia in quelli di chi la considera la massima
indegnità possibile.
3.3
Paul Ramsey scriveva nel 1974 un articolo dal titolo
L'indegnità della "morte con dignità",
e ancora più recentemente Christopher Miles Coope,
nell'ambito del dibattito svoltosi negli Stati Uniti a
proposito del pronunciamento della Corte suprema circa
l'ammissibilità del suicidio assistito, ha sostenuto che
non c'è modo di dare un senso plausibile all'espressione
"morte con dignità" e quindi che faremmo bene a
rinunciare ad usarla nei nostri ragionamenti morali.
Se questo è
un invito ad evitare quella, direi quasi inevitabile,
retorica che spesso accompagna i nostri discorsi su
questo tema, forse faremmo bene ad accoglierlo, anche se
non credo di essere riuscito a farlo nel mio intervento.
Ma in realtà neppure Miles Coope riesce ad evitare un
po’ di retorica quando si libera troppo sbrigativamente
di un senso importante dell'espressione che egli critica
e cioè quello che fa riferimento non al momento (se
momento è) della morte, ma alla fase che precede, e
cioè al morire. Forse che, si chiede retoricamente Miles
Coope, essere in una situazione nella quale abbiamo
bisogno dell'aiuto degli altri, o dipendiamo dagli altri
per buona parte o tutte le esigenze esterne della nostra
vita, è qualcosa che necessariamente diminuisce la
nostra dignità?
E' fin
troppo facile (e, appunto, un po’ retorico) rispondere:
certamente no e non la diminuisce neppure il richiedere
e l'ottenere tale aiuto, purché la persona che si trova
in questa situazione desideri e richieda questo aiuto e
che questo aiuto gli venga dato in un modo che non si
sovrapponga o contraddica il modo in cui ognuno desidera
far fronte alle condizioni del proprio morire. Questo è
il punto nodale, sul quale vorrei brevemente
soffermarmi. C'è , infatti, un modo di presentare le
cure palliative e le forme di accompagnamento del
morente che, mentre è condivisibile quando ne sottolinea
l'importanza umana e sociale (anche qui talora con
qualche punta di retorica) e ne propone con forza lo
sviluppo nell'ambito della creazione di una nuova ars
morientem curandi, diventa però inaccettabile quando
giunge a presentarle quasi come un trattamento
obbligatorio, in quanto l'unico ammissibile ed
escludente altre possibilità, per tutti coloro che si
trovano nella fase terminale di una malattia ad esito
infausto.
3.4
In effetti, c'è una diffusa convinzione che ci sia
bisogno di costruire questa ars morientem curandi,
e cioè un'arte di aver cura della persona che muore per
aiutarla a fare fronte alle sofferenze fisiche,
psicologiche e spirituali dell'ultima fase della sua
vita. Quest'arte contiene un aspetto più propriamente
medico (finalizzato al controllo del dolore) ed un
aspetto di sostegno spirituale e psicologico che
accompagni il paziente in modo tale che egli sia in
grado di prepararsi alla morte in accordo alla
spiritualità che gli è propria, in modo tale cioè che il
morire tenga fede ai valori ai quali ognuno ha inteso
improntare la propria vita. La morte diventa così
appropriata al modo in cui si è vissuti ed è
semplicemente la pagina finale della vita. Questo è un
punto importante, ben sottolineato (e, per la verità, è
uno dei pochi punti condivisibili) nel documento del
Comitato nazionale per la bioetica dedicato al
nostro tema. Vi si dice infatti che occorre decisamente
evitare di "interporre tra noi e chi “vive il morire”
lo schermo delle nostre convinzioni, per quanto giuste
si possano ritenere"; e si ribadisce perciò "tutta
l'importanza di un tipo di accompagnamento che rispetti
fino in fondo le credenze, la religione e la mancanza
di un riferimento religioso, o qualsiasi altro tipo di
posizione che la persona che affronta la morte presenta"
. Ma se questo è importante, come anche io penso, allora
mi sembra contraddittorio presentare le cure palliative
e l'accompagnamento del morente come escludenti, in
linea di principio, la possibilità dell'eutanasia. Non
corriamo infatti il rischio, in tal modo, di sovrapporre
la nostra spiritualità, il nostro senso della vita e
della morte, a quelli del paziente ? Oppure qualcuno
ritiene di avere l'unica chiave possibile di ciò che ha
senso e significato?
Spesso si
afferma infatti che la questione eutanasia sorge perché
nella società moderna si è perduto il senso trascendente
della morte e perciò anche il senso della vita (o, se si
vuole, il senso della vita e perciò anche il senso della
morte). Questo modo di impostare il discorso è
sbagliato, quando sottende l'idea che solo un
orientamento al trascendente possa dar senso alla vita e
alla morte. Come ha opportunamente rilevato in un
articolo apparso su La civiltà cattolica
Francesco Cultrera, noi accediamo al senso della vita,
al senso del morire, attraverso l'ethos che impregna la
nostra cultura. È almeno un dato di fatto (per chi non
voglia considerarlo anche un valore) che la nostra
cultura su questo punto non è univoca : "La divergenza
riguarda il senso immanente o trascendente del vivere e
del morire, riguarda – sembra – il fondamento del senso,
ma non l'esistenza di un senso"
. E allora c'è da chiedersi: se
noi escludiamo in linea di principio l'opzione per
l'eutanasia, cosa ci rende certi che quel che
intendiamo fare per aiutare qualcuno nel morire coincida
con ciò che quella persona vuole per sé in accordo al
senso che egli ha inteso dare alla sua vita, quel senso
nel quale si incarna la sua personale intuizione di ciò
in cui risiede la sua dignità.
3.5
Uno dei rilievi che vengono talora mossi al modo in cui
si è sviluppato negli ultimi anni il dibattito
sull'eutanasia è che in esso è mancato o è stato
sottovalutato lo spessore più squisitamente
etico-filosofico ed antropologico del problema della
morte e del suo senso all'interno della vita in quanto
ineliminabile segno dell'umana finitezza e fragilità.
Gli interrogativi più radicali su che cosa sia una buona
morte e se l'eutanasia possa essere una modalità
adeguata del "morire bene" sembrano scomparsi dal nostro
orizzonte di discorso, che si è sempre più concentrato
sul problema formale delle scelte e del diritto di
scegliere ed ha trascurato di approfondire la questione
sostanziale del che cosa si sceglie.
Uno degli
autori che ha maggiormente insistito su questo punto è
stato Daniel Callahan
. Partendo proprio col rilevare
come nell'attuale dibattito si parla molto del morire,
del diritto di morire e delle scelte pubbliche, ma si
parla assai poco della morte e del suo significato e
posto nella nostra vita, Callahan sostiene che sono
proprio queste questioni di senso che comunque possono
dare significato alle scelte pubbliche. La sua tesi è
che la crescente richiesta di eutanasia è la risposta
sbagliata ad un problema reale (il radicale mutamento
nelle condizioni del morire), creato dall'intrecciarsi
tra il "progetto scientifico" della medicina moderna e
lo sviluppo di una mentalità individualistica,
ossessionata dai miti dell'autonomia, del controllo
sulla propria vita e dell'indipendenza. La sua soluzione
è estremamente affascinante, ma anche molto complessa,
poiché richiede mutamenti di tipo tanto epocale quanto i
mutamenti che nel corso degli ultimi due secoli hanno
condotto alla situazione attuale. Tale soluzione prevede
un radicale ripensamento e ridimesionamento del ruolo
della medicina nella vita umana (che sbocca nella
richiesta di rovesciare la tradizionale presunzione a
"curare sempre"), ma anche un altrettanto radicale
ripensamento dei concetti di io, natura e società e dei
relativi rapporti: insomma, una nuova mentalità, capace
di stimolare una comprensione collettiva della morte e
una visione comune analoga, sia pure nelle mutate
condizioni, a quella che altre culture hanno posseduto.
La debolezza di questa soluzione risiede forse
soprattutto nella sua epocalità, ma non è questo il
punto che mi interessa rilevare. Il problema di fondo,
infatti, è che quando si dà un così grande rilievo alle
questioni di senso, di significato, bisogna essere
disposti a riconoscere che esiste una dimensione
squisitamente personale e, direi quasi, intima della
ricerca di senso, che non può andare perduta o essere
ignorata a favore della dimensione collettiva e
comunitaria. E se questo è vero, non è affatto sicuro
che tale ricerca sfoci necessariamente in un unico senso
della vita e della morte, immancabilmente tale da
escludere l'eutanasia come modalità di buona morte: o,
almeno, non lo è in un mondo in cui la legittimità di
differenti stili di vita e di pensiero morale è ormai un
irrinunciale dato di fatto. Io non credo quindi che
l'essersi concentrati sulla questione "formale" della
possibilità di scegliere e non sulla questione
sostanziale del che cosa scegliere, abbia rappresentato
un impoverimento della dimensione filosofica del
dibattito attuale: in realtà, questo è dipeso
semplicemente dal fatto che ora è negata proprio la
stessa possibilità di scegliere. Questa è una questione
di libertà e le questioni di libertà sono sempre di
grande spessore filosofico.
Vorrei a
questo proposito riportare due passi. Il primo è di
Uberto Scarpelli e sottolinea quello che a me sembra
essere l'aspetto centrale del problema che abbiamo di
fronte. Se infatti è vero che il problema eutanasia
chiama in causa la nostra stessa spiritualità, il nostro
modo di essere e il tipo di persone che abbiamo voluto
diventare, allora bisogna dire con chiarezza che qui si
pone una questione generale di libertà: “Chi dalla sua
religione è condotto a sopportare qualsiasi abiezione
fisica per amore di Dio va scrupolosamente onorato nella
sua volontà; chi al contrario in una diversa religione
di vita non vuole offendere la vita col suo avvilimento
deve essere anch’egli onorato nella sua altrettanto
nobile scelta”
. Ma se siamo convinti che alla radice del disaccordo
morale sull'eutanasia stanno questioni di natura
profondamente spirituale e religiosa e se a questa
convinzione si accompagna quella secondo la quale nelle
moderne società democratiche e liberali lo Stato e il
diritto non possono avere la funzione di difendere (o
imporre) questa o quella concezione etica, allora
dovremmo accettare la conclusione cui perviene Ronald
Dworkin: “Una volta ancora la questione critica è se una
società decente sceglierà la coercizione o la
responsabilità, se cercherà di imporre a ciascuno un
giudizio collettivo su questioni della più profonda
natura spirituale, o se consentirà e anzi chiederà ai
suoi cittadini di formulare da sé i giudizi che stanno
al centro della definizione della propria personalità”.
Nasce da qui
un’ultima domanda, che introduce un tema che non posso
qui approfondire:
è proprio irricevibile, da parte dell’ordinamento
giuridico, la richiesta di creare uno spazio nel quale
ognuno di noi possa vedersi rispettato nelle scelte che
riguardano questioni cruciali come la vita e la morte?