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Una
questione bioetica del nostro tempo
Maschile e femminile: alternativi o complementari?
di
Maria Rita Fedele*
Una disamina dei problemi del nostro tempo ci induce a
riflettere sulla problematicità di un dato che emerge come
esito caratteristico dell’era della “civiltà tecnologica”
in cui siamo immersi: quanto più le tecnoscienze sono in
grado di esaminare il genere umano e di intervenire su di
esso tanto più la sua identità risulta essere posta in
questione.
In questo momento, infatti, sembrano essere poste in gioco
quelle categorie fondamentali che lo connotano in senso
biologico: il maschile e il femminile. Si tratta di
categorie fondamentali anche dal punto di vista
antropologico: esse appartengono, infatti, all’ordine
simbolico dell’immaginario collettivo, categorie in cui
intuitivamente ci identifichiamo e ci differenziamo e che,
dunque, riguardano la nostra autocomprensione come esseri
umani appartenenti ad un genere specifico, concreto e non
astrattamente configurato.
Le biotecnologie rischiano di cancellare il valore della
differenza sessuale, su cui si fonda il modello
eterosessuale di famiglia e di coppia, sconvolgendo i
sistemi di parentela, ma soprattutto, in modo radicale,
mettendo in crisi quelle che sino ad oggi hanno
rappresentato le forme invarianti della coscienza
di essere-al-mondo innanzitutto come corpo, come esseri
sessuati. Appare in tal senso problematica la definizione
di famiglia come istituzione naturale in quanto luogo
della generazione fondata sulla complementarità biologica
del maschile e del femminile. Non è più necessario
ricorrere alla sessualità umana per potere chiamare
all’esistenza un figlio e con ciò vengono meno una serie
di legami connessi a questa necessità.
Dal punto di vista tecnico il dato biologico, che
definisce la natura sessuata dei corpi in senso femminile
o maschile, determinandone una differenza, non risulta
fondamentale ai fini stessi della riproduzione in quanto
per “procreare” artificialmente non occorrono più i due
sessi. La configurazione di modi alternativi di
riproduzione, introdotti dalle tecniche artificiali, che
consentono di mettere al mondo un figlio percorrendo
sentieri altri rispetto a quello della generazione
naturale, mette in evidenza, pertanto, come il potere
tecnologico abbia trasformato la differenza tra il
maschile e il femminile in una indifferenza.
Il rischio a cui si è particolarmente esposti riguarda il
fatto che la riproduzione artificiale tende a
configurarsi nell’immaginario collettivo come una “variante
riproduttiva” a cui le coppie potrebbero accedere non
solo in determinati casi come quelli di infecondità,
dovuti a diversi fattori (sterilità-infertilità) che
indicano l’impossibilità della coppia di generare per via
naturale, ma anche nei casi in cui coloro che, pur non
presentando tali problemi, ne fanno richiesta, in nome di
un rivendicato diritto alla “libertà procreativa” e al
figlio voluto ad ogni costo.
E’ il caso delle richieste delle coppie omosessuali la cui
istanza risulta chiara e si può esplicitare in questi
termini: il diritto al figlio deve essere riconosciuto
come “diritto alla libertà procreativa” anche a coloro
che, pur essendo fisiologicamente fertili, ma che non
intendono avere rapporti eterosessuali, non possono essere
discriminati sulla base delle loro preferenze sessuali.
Come si può notare proprio nel caso delle coppie
omosessuali, le tecniche di riproduzione artificiale
depersonalizzano la generazione umana, in primo luogo
perchè disgiungono l’atto stesso del chiamare
all’esistenza un figlio dalla dimensione relazionale della
sessualità umana, una dimensione di per sé significativa
perchè i due sessi si configurano come complementari. Al
bisogno sempre più radicale di un’etica della vita si
connette quello di una antropologia filosofica come via
autentica nella scoperta del mistero della persona, in
ragione del fatto che l’agire morale affonda le radici in
una visione antropologica dell’umano.
Per tali ragioni si tratta di affrontare, in primo luogo,
le questioni relative all’essere dell’uomo cioè pensare ad
una ontologia della persona che ci restituisca una visione
essenziale della natura umana, del corpo umano e della
sessualità, aspetti che costituiscono la condizione
esistenziale di ogni persona nella sua originarietà.
Un’antropologia filosofica della persona costituirà la
forma imprescindibile di sapere sull’umano che identifichi
gli elementi categoriali fondamentali per la
determinazione di una “via pedagogica” della bioetica. Non
è possibile pensare alcun orizzonte di senso per tale
pedagogia se si prescinde da questa dimensione che è
insieme antropologica ed etica. Oggi, infatti, è lo stesso
concetto di “persona” da educare che è diventato equivoco.
Ora, la persona non esiste in astratto, ma nella
concretezza della sua sessualità ossia esiste come
persona umana-uomo e persona umana-donna e tale
differenza attiene al suo stesso essere e ne determina le
diverse caratteristiche fisiche, psichiche e spirituali.
1. La sfida bioetica del nostro tempo: il riconoscimento
del valore della differenza sessuale
Come si ricordava, l’essere sessuati costituisce sia per
l’uomo che per la donna un dato originario di natura con
il quale entrambi i soggetti sono chiamati a confrontarsi,
in quanto la dimensione corporea è quella che
originariamente definisce il nostro venire-al-mondo e il
nostro essere-nel-mondo.
Il mio intento è quello di partire, in primo luogo e sia
pure per grandi linee, dalla pre-comprensione
dell’umano, che la tradizione ci restituisce attraverso il
racconto mitologico platonico che ne indaga le origini,
nell’intento di ripercorrerne qualche tratto, per
scoprire ciò che per lungo tempo ha impedito il
riconoscimento di una vera e propria ontologia della
differenza.
In secondo luogo, assumo la prospettiva fenomenologica
husserliana come modello teorico per un lavoro di
individuazione di senso in una complessa interpretazione e
traduzione di ciò che, attraverso il ricorso al mito,
viene precedentemente affermato.
Il valore della dualità dell’umano e della complementarità
fra maschio e femmina è infatti presente sin
dall’antichità e risale alla figura mitologica
dell’androgino, che diviso a metà, perché punito da Zeus,
va alla ricerca costante della sua parte mancante e tale
ricerca, proprio come vuole Platone, definisce l’eros come
tensione fondamentale della vita umana e della relazione
uomo-donna, trovando fondamento proprio nella naturale
differenziazione biologica dei due sessi. Un maschio e una
femmina da soli sono metà mancanti, imperfette ed
incomplete e solo l’unione delle due metà porta armonia ed
equilibrio.
E’ in ambito naturale che Eros trova per
Aristofane la sua fondazione, poiché solo ed
esclusivamente da un amore eterosessuale deriva
l’atto di procreare.
Ma, ciò che in primo luogo risulta interessante per la
nostra riflessione è il fatto che il racconto di
Aristofane sulla divisione dell’umano in maschile e in
femminile predispone già il tema della differenza sessuale
e appare già indicativo il principio secondo cui la
dualità sessuale è un dato fondamentale di natura
dell’essere umano.
L’analisi etimologica del termine “sesso”, che viene fatto
derivare dal latino “sectus” (tagliato, distinti,
separato) e ancora dal verbo all’infinito “secare”
(separare, dividere) rivela il valore della divisione
sessuale del genere umano in maschile e femminile, nel
senso che nella differenziazione sessuale, che di per sé
è una separazione e una divisione, è ontologicamente data
una dimensione relazionale del maschile-femminile.
Il dimorfismo sessuale, l’essere uomo-l’essere donna, è
interpretato da Platone in termini di reciprocità e il
paradigma ontologico che ne sta alla base è quello secondo
cui l’uomo è originariamente un essere-in-relazione
con un essere diverso al quale si lega secondo un bisogno
ontologico. Ritornando al discorso di Aristofane,
interessanti si rivelano le sue parole:
Da così lungo tempo, quindi, è innato negli uomini l’amore
reciproco, che riconduce verso l’antico stato, tendendo
a fare, di due sessi, uno solo, e a ricostituir sana
l’umana natura [….]
.
Il recupero del valore della natura sessuata del corpo
come dimensione fondamentale dell’essere uomo e
dell’essere donna è l’aspetto da cui Platone prende
l’avvio per la configurazione dell’essere umano come
soggetto di relazione con l’altro sesso, il sesso
complementare:
Ciascuno di noi, pertanto, è come simbolo di uomo, diviso
com’è da uno in due [….]; e cerca sempre il simbolo
a lui corrispondente
.
L’umanità dell’uomo è dunque strutturata da una scissione
originaria in cui il bisogno dell’altro/a è desiderio di
unità, per tali ragioni l’uomo e la donna, in un buon
rapporto di amore, tentano di ricostituire l’unità
originaria perduta e vivono simbolicamente
ossia, nel senso etimologico del termine συμ-βαλλω,
mettono insieme le differenze per far crescere, nel
rapporto, un’armonica unità.
Al di là del platonico monismo rintracciabile nella figura
dell’androgino, che molti intendono come luogo simbolico
dell’intero asessuato, indistinto ed
indifferenziato, è possibile uscire da tale equivocità
scoprendo la natura di eros: la “tendenza e la corsa verso
la totalità” per “divenire, di due, uno solo con l’amato,
unendosi e fondendosi con lui”.
La natura dell’Amore fa sì che il maschile e il femminile
si configurino come due facce della stessa medaglia cioè
come totalità in cui si conservano le differenze e in cui
converge la parzialità e la settorialità delle singole
parti, se mantenute in una condizione di separazione l’una
dall’altra.
Attribuire valore alla complementarità maschile-femminile
significa integrarne le differenze in considerazione del
fatto che nella relazione eterosessuale emerge uno degli
aspetti essenziali della nostra finitudine: non essere
tutto e non potersi mai definire in termini di assoluta
individualità e solitudine. Si tratta, come osserva X.
Lacroix, di una relazione in cui si rivela il “luogo
dell’incontro con la nostra finitudine primordiale o della
negazione più radicale di quest’ultima”
.
Nel definire l’identità maschile o femminile che sia, si
può dire che essa è nella relazione con l’altro/a e
ontologicamente si dà come “essere-in-relazione”
attraverso il proprio sesso con il sesso
complementare. Si ritrova nel discorso di Aristofane
l’enunciazione di un fondamento biologico della
distinzione dei due sessi e l’importanza di un’istanza
intenzionale costitutiva del corpo sessuato: il bisogno
ontologico della ricerca del sesso opposto ossia, come
vuole Platone, della metà mancante.
Il discorso di Aristofane, pur avendo sottolineato che la
varietà degli amori tra i sessi (omo ed eterosessualità)
deriva dalla natura primitiva degli umani, individua
nell’amore eterosessuale la potenza di quell’eros di cui
gli dei si fanno gelosi, perchè ivi si fa esperienza di
incontro con la differenza, che sempre arricchisce
ed impreziosisce ogni relazione, spingendo ciascuno dei
due sessi ad aprirsi all’essere, al punto di vista e alla
prospettiva del sesso complementare.
La natura sessuata dell’essere umano, pertanto,
configurandosi come limite nel senso di incompletezza e
di separazione dall’altro sesso, contiene in sé un
elemento di positività, che si esprime, per ciascuno dei
due sessi, nella ricerca dell’altro nel senso di un
continuo sottrarsi alla pretesa di assolutezza e di
onnipotenza che possa costituire da ostacolo nella
relazione stessa.
Il dato biologico è, dunque, il presupposto
dell’affermazione del principio della differenza sessuale,
che indica una dualità nel dire l’umano, ma
definisce allo stesso tempo una comune identità del
maschile e del femminile, nel senso che l’essere sessuati
è la co-appartenenza al genere umano.
2. Il “fenomeno” del corpo sessuato tra genetica ed
eidetica
Sposando la prospettiva fenomenologica di Edmund Husserl,
intendiamo ora abbozzare una teoria fondamentale sul tema
della differenza sessuale. Una teoria che non può
rimanere appiattita su un’analisi di tipo
scientifico-biologico né di tipo storico o
antropologico-culturale, perché una tale analisi ci
direbbe poco sul senso della natura sessuata del corpo e
della corporeità umana quale dimensione ontologica
relazionale costitutiva della soggettività.
Per tali ragioni si intende avviare un’analisi
fenomenologica, istituita secondo lo stile husserliano,
che si prefigge il compito di ricostruire un’attenta
genesi del fenomeno delle differenze
maschile-femminile, tenendo conto delle stratificazioni di
senso con cui il fenomeno analizzato ci viene restituito
dalle varie scienze che lo studiano.
Le tipologie di ricerca sopramenzionate ci restituiscono
una ricostruzione del fenomeno limitata dallo stesso
sguardo prospettico dal quale viene studiato. Pur
riconoscendone la portata conoscitiva, tali saperi non
prendono in considerazione il fatto che la sessualità
pertiene all’essere stesso dell’uomo e della donna cioè
inerisce ad una vera e propria ontologia dei sessi se non
altro perché non si può esistere che come esseri sessuati.
Un’analisi meramente antropologico-culturale dei sessi
evidenzierebbe subito la settorialità di tale disciplina e
seri limiti in merito alla fondazione di una vera e
propria ontologia della differenza sessuale, a causa della
negazione dell’esistenza di un in sé del maschile e
del femminile. Un approccio di tale tipo allo studio del
fenomeno in questione elude il problema della natura
sessuata del corpo e riduce la sessualità umana a mera
categoria storica o a semplice costruzione sociale.
Sostenere tale tesi equivale, pertanto, a negare
l’identità sessuata della soggettività e a ritenere che la
differenza maschile/femminile sia un prodotto culturale e
una costante tipica di tutte quelle società che
riconducono l’umano in una struttura binaria ritenuta non
naturale sulla base del principio secondo cui nessun
essere “per natura” è relegato ad un sesso.
Ora, la nozione di “identità sessuata” ci proviene
proprio dalla scienza, anche se si può ritenere che la
verità biologica e/o fisiologica dei sessi, che pur ci
informa della natura sessuata del corpo, si connota
come una verità parziale perché non esprime ancora
una vera e propria fenomenologia del senso
dell’essere sessuati: la complementarità del maschile e
del femminile
La descrizione scientifica dei processi di
differenziazione sessuale e delle modificazioni
anatomico-fisiologiche dell’organismo umano ci inducono a
cogliere una fondamentale divaricazione o di-morfismo
all’interno della stessa umanità, ma non ci forniscono l’intera
verità sull’uomo. Per la scienza il dimorfismo sessuale
ha un significato puramente biologico: esso è in ordine ad
una buona perpetuazione della specie. I dati scientifici
devono essere interpretati e decodificati attraverso
un’analisi eidetica che cerca la costituzione del
senso proprio a partire da quella datità ontica originaria
e fondamentale della persona: la differenza sessuale.
Quest’ultima, infatti, non rappresenta semplicemente un
dato biologico, la cui analisi possa essere unicamente
demandata alla biologia sulla base di un vero e proprio
riduzionismo scientifico, che si fonda sulla pretesa
che solo la scienza possa farci conoscere l’intera
verità sull’umano. Per tali ragioni mi servirò del metodo
fenomenologico in ordine al fatto che la fenomenologia
husserliana offre un prezioso modello teorico ad ogni
scienza quando questa si trovi a compiere un lavoro di
individuazione di senso in una traduzione delle
esperienze.
La natura fenomenologica della nostra analisi – nel senso
che a tale termine è attribuito da Husserl – dovrà
cominciare con un’inversione dello sguardo laddove, in
ordine al tema della differenza sessuale, le scienze – ma
anche la storia – si fermano in quello spazio prospettico
della loro ricerca che si limita ad una pura e semplice
analisi statica e descrittiva del fenomeno, oggetto di
studio.
Le scienze (la biologia, l’embriologia, l’endocrinologia)
ci forniscono, infatti, dati significativi circa l’origine
del fenomeno della “sessuazione” del corpo, ma tali saperi
sono ancora insufficienti a coglierne l’essenza.
Allo stesso modo si può dire che la storia ci consegna in
modo parziale e sedimentato la teoria delle differenze
sessuali, portando a tema solo un aspetto del fenomeno
analizzato: l’eguaglianza tra persone di sesso diverso è
stata costruita attraverso la negazione della differenza
di genere e l’omologazione del femminile al prototipo
maschile.
Ora, dal dato storico apprendiamo che non sempre la
relazione maschile-femminile si è espressa nel senso di un
reciproco riconoscimento dei due sessi. Al contrario,
tanto più essa è venuta storicizzandosi quanto più la
dialettica dei sessi si è risolta ora in un rapporto di
predominio del maschile sul femminile ora in una istanza
femminile di totale liberazione dal maschile. Si
evidenzia, in tal modo, che fino a quando la pretesa di
riconoscimento resterà unilaterale, la dialettica dei
sessi sarà destinata ad un ribaltamento continuo dell’uno
nei riguardi dell’altro e viceversa.
Sul piano del divenire storico, è dato constatare che il
maschile e il femminile non sempre si cor-rispondono
secondo modalità relazionali autentiche o, come direbbe
Husserl, per Einfühlung, ma in senso inautentico,
in cui il proprio essere nel mondo non è condiviso con
quello dell’altro o vissuto in comune
.
L’Einfühlung, intesa come esperienza
intersoggettiva empatica, costituisce lo sviluppo di una
fenomenologia della relazione ego-alter che prefigura tra
il maschile e il femminile qualcosa di comune nonostante
le differenze. Il rapporto di analogia, nel senso
attribuito da Husserl, da un lato indica una relazione tra
i due poli, che presuppone qualcosa di comune e dall’altro
lato serve a non omologare le due soggettività, ma a
segnarne una differenza: il fatto che l’altro sia come
me non vuol dire che è uguale a me.
In una relazione autentica il maschile e il femminile
costruiscono insieme un progetto comune a partire da due
diverse visioni del mondo cioè a partire dalla
differenza, in ragione del fatto che “l’analogia
non si predica dei distinti, ma della loro relazione e del
loro con-essere e, per questo, della loro
identità-differenza
L’inautenticità di un rapporto interpersonale tra i due
sessi è data dall’assenza di un reciproco riconoscimento
e mostra come l’alterità, che chiede di essere
riconosciuta, non possa essere affermata come un valore in
quanto viene ridotta ad oggetto degli interessi della
coscienza e delle sue arbitrarie e soggettive
configurazioni di senso. Tali considerazioni, comunque,
non implicano che non si possa trascendere il puro piano
storico in cui il maschile e il femminile sembrano essere
destinati ad un perenne e insuperabile scontro. Se, poi,
non si potesse trascendere lo stesso giudizio storico in
nome del valore del fondamento ontologico delle
differenze sessuali, assunto come idea universale,
non avrebbe senso nemmeno la stessa rivoluzione femminista
contro la storica subordinazione del sesso femminile.
Eludendo il principio e il valore di una vera e propria
ontologia delle differenze sessuali, il fatto storico,
che, come tale, è circoscritto in un tempo e in uno spazio
e connotabile in senso antropologico-culturale, non
sarebbe più ulteriormente questionabile e rimarrebbe
pertanto un fatto relativo ad una determinata epoca o
periodo storico.
Se questo è il panorama di una filosofia delle differenze
del maschile e del femminile nella sua portata storica,
si pone la necessità intrinseca al pensiero di sottrarne
il contenuto a contingenze meramente storiche, in modo da
non determinarlo in termini di accidenti storici,
ma secondo la necessità del principio e del fondamento
ontologico della differenza tra i sessi.
Tale operazione consente di assegnare ai singoli
avvenimenti il loro posto particolare e di dare loro un
significato. Secondo quanto afferma Hegel «ciò che nella
storia vi è di importante è appunto la relazione con un
universale, il collegamento con esso; capire il
significato dei fatti storici vuol dire appunto avere
questo universale dinanzi agli occhi”».
Sono queste le ragioni per cui l’analisi storica richiede
di essere integrata con una fenomenologia del senso, per
lo più disatteso dalle varie discipline settoriali o
quanto meno restituito in modo sedimentato e parziale
rispetto ad una sua configurazione essenziale.
L’applicazione di un metodo fenomenologico, che privilegia
prospetticamente il corpo come essere sessuato, ci
consente, dunque, di pervenire ad un riconoscimento
essenziale della differenza sessuale, che trova
fondamento innanzitutto nella riscoperta del valore della
corporeità umana, in cui tale differenza si trova già
inscritta.
La riflessione sulla natura sessuata dell’umano, condotta
in modo unilaterale secondo un approccio prospettico di
tipo storico, può determinarne un giudizio diversificabile
in funzione anche degli interessi che si vogliono far
prevalere e in ragione del variare delle culture e delle
civiltà. Di contro, il riconoscimento di una ontologia
della differenza sessuale (differenze genetiche e
anatomico-morfologiche dei corpi maschile e femminile)
costituisce un dato universale, rintracciabile in tutte le
culture e in tutti i paesi.
3. Per un’analisi eidetica in senso husserliano
Appare qui insieme al valore che i diversi saperi ci
offrono in termini di conoscenza dell’oggetto anche il
loro limite intrinseco che consiste nella restituzione di
un significato parziale e limitato intorno al tema della
differenza sessuale, in quanto volto a descrivere un
semplice dato di fatto piuttosto che ad interpretarlo e a
significarlo nella sua essenza.
L’analisi fenomenologica del corpo sessuato ne esplicita,
dunque, un suo eidos significante, su cui si
possono costruire valori e significati.
I saperi scientifici e le singole scienze costituiscono i
variegati orizzonti prospettici in cui la cosa si offre,
senza che si possa ritenere di essere pervenuti ad una
intuizione del senso della natura sessuata del corpo. Tali
saperi possono essere assunti come delle vere e proprie “ontologie
regionali” della conoscenza, per il fatto che la cosa
si offre alla coscienza intenzionale secondo particolari
aspetti prospettici, che tendono a rinchiuderne il senso
entro confini ristretti.
Il termine “ontologia regionale” è ripreso da
Husserl, il quale ritiene che a ciascuna ontologia
appartengono specifiche essenze regionali. In virtù
di esse si può ricavare la costituzione fondamentale di
ogni conoscenza possibile e il fondamento ontologico di
tutte le scienze empiriche.
Il compito di una
fenomenologia del corpo sessuato è dunque quello di
ri-pensare le varie ontologie regionali che
costituiscono i principi di base delle altre scienze e di
portare ad evidenza ciò che è essenziale alla
differenza tra i sessi, restituendo il senso profondo
della irriducibile diversità, segnata nei corpi, tra il
maschile e il femminile: la differenza sessuale come
dualità di due termini complementari. La scienza dispensa
dal problema del senso di ciò che essa afferma, riducendo
la differenza tra i sessi ad una pura e semplice datità
ontica. Esiste, invece, una eccedenza di significato
che la scienza non è in grado di comprendere, perché
attesta una realtà più ampia della scienza.
È necessario allora che l’analisi fenomenologia della
differenza sessuale venga, in primo luogo, predisposta
secondo le indicazioni che ci provengono dalla
fenomenologia husserliana, per la quale un puro e semplice
“dato di fatto” (per la nostra analisi si tratta
della natura sessuata del corpo) viene rigorosamente
analizzato seguendo le linee di una ricerca che è insieme
genetica ed eidetica e perciò capace di
cogliere un significato essenziale anche se la
cosa appare sempre variamente articolata, poiché
costituisce l’oggetto di molteplici esperienze e di
diversificate stratificazioni di senso.
La fenomenologia non è dunque una pura teoria della
costituzione di oggettualità isolate, ma di oggettualità
poste in relazione ai loro rispettivi orizzonti contenuti
tutti nel mondo quale orizzonte universale. La
costituzione genetica di un fenomeno, se da un lato
mostra la complessità stessa dell’operazione della
ricerca, dall’altro mette in luce come il metodo
fenomenologico, considerando l’oggetto dalla prospettiva
intenzionale, ne coglie l’essenza attorno alla quale si
aggregano le sue differenti manifestazioni, intese come
espressione di vere e proprie ontologie regionali, che
costituiscono gli aspetti specifici con cui le singole
scienze studiano l’oggetto.
Così, come Husserl stesso chiarisce, il compito di una
fenomenologia statica è lo studio delle modalità in
cui la cosa si offre, invece, il tenere correlate tali
molteplicità di apparizioni dell’oggetto con l’identità
del medesimo è il compito fondamentale di una
fenomenologia genetica o dinamica
.
La fenomenologia husserliana mostra, come si può vedere,
il pregio di saper tenere insieme in chiave dialettica
l’unicità del senso con la molteplicità delle sue
apparizioni, che costituiscono la varietà delle esperienze
possibili nei riguardi dell’oggetto e per queste ragioni
la genesi di un fenomeno rimane sempre aperta
perché la cosa è data alla coscienza per adombramenti (Abschattungen)
o per tagli prospettici, ma ciò “ non corrisponde ad un
modo di essere della cosa, bensì ad un Erlebnis
(vissuto), la cui ultima ragione è da cercare nella
condizione sempre prospettica della coscienza”
.
La prospettiva in cui si trova sempre situata ogni analisi
– sia essa di carattere storico o scientifico – non
implica che, proprio mediante un suo attraversamento,
non si possa intuire il senso dell’essere
sessuati, ossia la verità della corporeità umana come
eidos significante. L’intuizione veritativa, infatti,
è data dalla visione eidetica del fenomeno, il cui senso
viene restituito sotto forma di una evidenza intuitiva
che implica un’assoluta fedeltà alla cosa stessa. Il fatto
che Husserl faccia ricorso alla metafora della vista è
indicativo di ciò che egli stesso vuole sottolineare: la
visione, che è per natura un atto fisico, sensoriale, è
intrinsecamente accompagnata dall’intelligenza, che è
sempre intelligenza intuitiva ossia capacità umana di
visualizzare la realtà nella sua oggettività e di
significarla attraverso una Sinngebung (donazione
di senso).
Ciò si rende possibile se si è in grado di prendere
distanza dalla immediatezza per avere una visione
dell’essenzialità di ciò che si offre allo sguardo
intenzionale, mantenendo ferma la relazione tra il
visibile e l’invisibile, in ragione del fatto che «nessuna
cosa, nessun lato della cosa si mostra se non nascondendo
attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto
di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di
quanto si veda, accedere a un essere di latenza.
L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile
[…..]»
Il “prendere distanza” dalle cose per potervi
ritornare costituisce una messa tra parentesi dell’essere-già-dato
del mondo, eliminando l’atteggiamento ontico e
promuovendo un ritorno alle cose stesse e alla loro
datità originaria.
Il metodo fenomenologico, condotto secondo lo stile
husserliano, ci consente ora di considerare
prospetticamente il corpo, distanziandoci tanto da forme
di rassegnazione relativistica quanto da rappresentazioni
sostanzialistiche della identità.
Secondo la prima, infatti, il maschile e il femminile non
si configurerebbero come categorie universali ossia come
quell’a-priori esistenziale, che definisce
ontologicamente l’essere nel mondo, ma come configurazioni
sempre contingenti, mutevoli e variamente connotabili a
seconda dei sistemi di potere, delle culture, delle
tradizioni, dei sistemi sociali. Per la seconda, si
presupporrebbero delle identità definite in modo
sostanzialistico e si tenderebbe, perciò, a legare il
maschile e il femminile ad una sorta di rigida identità,
ignorando il principio secondo cui la relazionalità è
intrinsecamente costitutiva dell’identità, per cui
quest’ultima passa attraverso l’alterità e presuppone quel
rapporto dinamico ego-alter, in cui l’Altro è la
condizione ontologica della costituzione dell’Io
Si può comprendere che l’identità dell’essere proprio
(maschile o femminile) si costituisce a partire dalla
relazione (prós ti) senza che questo significhi
negazione della sostanza (to kath’autò) ossia della
configurazione sessuata del maschile e del femminile e
dunque delle loro identità.
Ora, come si diceva, l’identità sessuata come identità
duale si manifesta immediatamente come identità
relazionale. Se la concezione dell’essere è intesa in
senso relazionale ossia se l’essere è “essere-in-relazione”,
è a partire dalla relazione che si costituisce l’identità,
in ragione del fatto che essa è per natura
relazionale. L’orientamento fenomenologico husserliano
individua nell’essere relazionati la condizione originaria
dell’esistenza del soggetto e l’orizzonte personale in
cui ogni io si sa. Appare, quindi, interessante
accogliere quanto ci suggerisce lo stesso Husserl quando
afferma che “ la soggettività è ciò che è, cioè un io
costitutivamente fungente, soltanto nell’intersoggettività”
. Sotto questo aspetto il
corpo gioca un ruolo importante perché, secondo la
prospettiva fenomenologica husserliana, esso non è mai per
sé, ma è intenzionalità o “esser-per” cioè
è originariamente di natura relazionale
.
L’identità, in altri termini, non solo non esclude la
relazione, ma si costituisce attraverso di essa, pertanto
il maschile e il femminile si possono intendere solo a
partire dalla loro relazione, come condizione originaria
del reciproco sapersi identità nella differenza.
Ora, secondo la lezione aristotelica, è possibile parlare
di relazione solo in termini di accidente e non di
sostanza, tant’è che Aristotele ritiene che, essendo la
relazione un accidente della stessa sostanza, “ la
relazione meno di tutte le altre categorie è
sostanza e meno di tutte le altre categorie è un
determinato essere”
. Da ciò segue che è la
relazione che si può capire a partire dall’identità cioè a
partire dalla sostanza e non viceversa. In effetti, la
metafisica aristotelica sembrerebbe privilegiare il piano
dell’identità sostanziale piuttosto che quello
relazionale, mentre di fatto appare più convincente,
secondo la nostra prospettiva, che l’io si definisca in
funzione del tu e il tu in funzione dell’io, senza che
questi giungano mai ad essere la stessa cosa cioè senza
che se ne neghi la loro differente sostanza.
Impostare in questi termini il problema ontologico della
differenza sessuale significa garantire al maschile e al
femminile la propria soggettività e il proprio rapporto
con l’essere senza che essi perdano la loro originarietà e
la loro autonomia d’essere, ma al contempo
salvaguardandone anche la relazionalità come forma
ugualmente originaria dell’essere
.
L’identità sessuata dell’umano, infatti, essendo
dimensione costitutiva dell’essere, lo connota
intrinsecamente o sostanzialmente e pertanto non può
essere dismessa a proprio piacimento in un’ottica di
sessualità multipla o liberamente scelta e secondo il
principio per cui “maschi o femmine non si nasce, ma si
diventa”. L’identità individuale di ogni persona è
costituita dall’identità genetica o biologica, ma lo
sviluppo dell’identità personale complessivamente chiama
anche in causa i fattori relazionali che la determinano e
dunque il rapporto con il mondo circostante e con gli
altri.
Per tali ragioni, dunque, il mancato riconoscimento di
una vera e propria ontologia relazionale della differenza
sessuale negherebbe di conseguenza l’ontologia relazionale
del maschile e del femminile, secondo cui la propria
identità di essere umano si acquisisce attraverso la
comprensione delle caratteristiche dell’altro sesso e il
rapporto interpersonale.
Ora, ritornando alle posizioni fenomenologiche, se
all’intuizione eidetica – di cui parla Husserl – possiamo
attribuire il senso di una coscienza intuitiva e
apodittica della universalità, in quanto “l’eidos
stesso è un universale puro, veduto o visibile,
incondizionato cioè non condizionato da alcun fatto come
vuole il suo proprio senso intuitivo”, si può dire che
mediante un atto intuitivo il maschile e il femminile
sono colti come connotazioni invarianti e immutabili della
natura sessuata del corpo e non come schemi interpretativi
culturali e storici.
L’analisi della loro differenza implica un rinvio costante
al radicamento delle rispettive identità nella natura
sessuata del corpo. L’identità è sempre il risultato di
una operazione di coscienza intesa come consapevolezza
della propria appartenenza sessuata, del proprio sé e
dell’identificazione del proprio corpo, attraverso la
quale ogni soggettività ritrova l’essenziale rapporto con
il proprio essere in una ricerca di senso e di
significato.
La configurazione del maschile e del femminile come
identità differenziate è altresì il risultato di un
movimento di correlazione tra sé e l’altro, in cui “l’identità
dell’esser proprio o identità del sé si dà come negazione
dialettica dell’esser altro”, ma non nel senso di una
strumentalizzazione dell’alterità da parte dell’identico
(l’Altro mi serve affinché possa sapere chi sono Io)
quanto piuttosto nel senso che “la propria identità di
essere umano si conquista solo a condizione di comprendere
in essa anche le caratteristiche dell’altro sesso, oltre
ovviamente che del proprio”.
L’identità ha bisogno per realizzarsi della differenza:
essa ha l’altro all’inizio del movimento di costituzione;
non si tratta di un’alterità resa funzionale all’io, ma
riconosciuta nella sua dimensione ontologica.
Posto ciò, la differenza maschile-femminile non è
mera diversità o più semplicemente opposizione e
distinzione, in ragione del fatto che in un rapporto
ego-alter l’alterità è sempre relativa e non assoluta
e ciò vuol dire che tra le due polarità si deve ammettere
qualcosa di comune per potere dire ciò che le distingue,
in ragione del fatto che la differenza è data da una
comunanza ontologica tra le due polarità e da un loro
co-appartenersi.
Ancora una volta torna interessante assumere la
prospettiva aristotelica, secondo cui i modi per definire
l’identico sono gli stessi di quelli con cui è definibile
il differente, nel senso che il rapporto tra identità e
differenza è di reciproca implicazione. A differenza del
diverso, infatti, il differente è strettamente connesso
con l’identico, essendo non semplicemente diverso, ma ciò
che si configura come alterità relativa e non
assoluta, perché implica sempre l’altro possibile termine
di confronto. La differenza, rispetto alla diversità, è
sempre capacità di tenere correlati due termini [diversi],
i termini divisi e di per sé separati, per il fatto che “ciò
che è differente è differente da qualcosa per qualcosa di
determinato, di guisa che deve esserci qualcosa di
identico per cui differiscono
.
4. Per una scienza eidetica del corpo sessuato
L’orizzonte di pensiero che stiamo prospettando è quello
di una vera e propria fenomenologia del corpo sessuato
intesa come scienza eidetica, il cui compito principale è
quello di tenere insieme gli orizzonti prospettici delle
singole scienze ossia la molteplicità delle esperienze
dell’oggetto e la sua unicità, rinvenibile su un piano
fenomenologico che, in quanto tale, si configura come
piano metastorico e metascientifico in
ragione della natura eidetica dell’intuizione
.
Si tratta allora della possibilità di guadagnarsi un piano
di interrogazione e di riflessione che nel rimandare
all’essere storicamente situati rinvia contestualmente ad
una capacità di de-situarsi, condizione fondamentale di
una ricerca di senso, che lungi dal costituire uno
sradicamento ne mostra una comprensione intenzionale.
In questo senso possiamo dire che la fenomenologia
husserliana non si muove entro un “puro dato di fatto”,
ma da una diversa prospettiva dello sguardo consente di
procedere oltre le fattualità verso una
individuazione di senso, che avrebbe il merito di porre
l’evidenza di un in sé della sessualità umana e di
non ridurla a mera categoria storica o a semplice
costruzione sociale.
Per tali ragioni la fenomenologia esige una diversa
posizione dello sguardo, un saper guardare la cosa in modo
da procedere oltre il semplice dato di fatto, tornando
alla genesi del fenomeno nella ricerca dell’originario,
del fondamento e del vero. Tuttavia: se la verità ci è
data dal vedere le cose nella loro natura, ci è d’obbligo
chiederci di quale sguardo dobbiamo dotarci per far sì che
le cose si rivelino per ciò che sono, dal momento che ogni
sguardo è prospetticamente situato?
Posta la non conoscibilità del vero nella sua totalità,
non si può dire che esso non esiste o che non si pronunci
proprio attraverso gli stessi tagli prospettici che
costituiscono le sue parti, in modo che dialetticamente si
possa dire che la singola parte è in questo rinviare al
tutto ossia che il tutto si esprime attraverso la singola
parte.
E’ questo il concetto di verità come senso che
Edmund Husserl attribuisce alla fenomenologia, definendola
come una scienza eidetica, senza la quale si
assiste inermi a quella crisi globale di esistenza e
di pensiero, caratterizzata dalla perdita di senso,
che esprime il nostro tempo a partire dal primo Novecento,
periodo nel quale il filosofo avverte la necessità di
una ragione intesa come ricerca di significati e orizzonte
di senso.
Ora, il genere umano come intero non può esistere senza
parti (maschile-femminile) in ragione del fatto che gli
elementi correlativi si postulano reciprocamente: “essi
non possono essere pensati e non possono essere l’uno
senza l’altro”. E d’altra parte – secondo la lezione di
Husserl – una parte come tale non può in generale esistere
senza un intero di cui essa è parte.
Si può dire che la fenomenologia husserliana non
rappresenta una rinuncia ai diversi orizzonti storici che
costituiscono le direzioni prospettiche in cui l’essere
stesso si dà, ma non è nemmeno un lasciarsi imbrigliare
entro il piano della storicità del comprendere stesso.
Essa esprime piuttosto una riscoperta del senso
dell’essere e un ritorno all’originario e al vero resa
possibile dalla stessa intuizione eidetica e solo in tal
senso si può dire che la fenomenologia va oltre la
prospettiva ermeneutica, secondo la quale risulta
impossibile distinguere la soggettività epistemica dalla
soggettività esistenziale, due soggettività che si danno
in un indistinto e in-differenziato piano.
La fenomenologia è filosofia assoluta nel senso
etimologico del termine (ab-solutus, sciolto dal
vincolo) cioè sciolta da ogni vincolo sia esso di natura
storica o culturale, in quanto dà ragione del proprio
accadere e per queste ragioni costituisce un superamento
delle posizioni estremiste del naturalismo biologico da un
lato e dello storicismo culturale dall’altro.
Da ciò derivano importanti acquisizioni in ordine al
significato che le teorie fenomenologiche husserliane
rivestono riguardo al tema dell’ontologia delle differenze
sessuali in una prospettiva di pedagogia della bioetica.
Alla base di un’educazione bioetica, infatti, è necessaria
un’analisi della dinamica relazionale dei due sessi, dei
modi in cui i sessi si percepiscono ed entrano in
relazione con il proprio genere e dei modi in cui si
costruisce l’identità sessuata e l’identità sessuale.
L’educazione bioetica definisce quello spazio essenziale
dell’educativo nel quale l’essere umano ritrova la
comprensione di sé e dell’altro.
E’ ovvio, dunque, che un’educazione alla cultura del
genere non può essere slegata dalla sessualità anche nel
voler sottolineare le dimensioni storiche e culturali
delle differenze sessuali. La cultura del “genere” tende a
minimizzare le differenze sessuali fino a farle
scomparire, per valorizzare invece la dimensione culturale
chiamata appunto “genere”.
Da qui deriva il pregiudizio che anche il sesso è una
costruzione culturale per le ragioni che natura e
cultura sono lette come relazioni di potere e, dunque,
viene supposto che tra uomo e donna non c’è alcuna
differenza se non quella imposta dalle stesse relazioni di
potere.
La fenomenologia husserliana ci consegna, invece, un
aspetto importante della corporeità umana: la soggettività
è caratterizzata nel suo profondo dalla presenza del corpo
e la costituzione dell’identità personale avviene nel
senso di un “avvertimento di quella corporeità che ci
appartiene in prima persona”.
L’identità personale è, infatti, sempre incarnata, e cioè
connessa alla consapevolezza della propria corporeità,
vissuta concretamente nel rapporto con l’altro sesso e
immersa originariamente nel mondo-della-vita. La
corporeità non è, allora, una condizione che si aggiunge
al soggetto dall’esterno, ma ciò che lo connota
intrinsecamente in un modo per cui il corpo si configura
come soggettività vivente e non come realtà
materiale di cui il soggetto dispone.
E’ questo un punto veramente interessante che si può
accogliere dalla fenomenologia husserliana per la critica
del paradigma dell’oggettivazione funzionalistica del
corpo, paradigma dominante della tecnologia moderna
tendente ad eludere il valore della corporeità umana. La
fenomenologia husserliana, dopo quella hegeliana, si
presta, perciò, alla nostra analisi come metodo d’indagine
dell’oggetto in questione, in ragione del fatto che essa
è già interpretazione della corporeità e non una
semplice descriptio rerum. Essa, in altri termini,
è individuazione di senso e la sua analisi, in primo
luogo, non riduce il corpo ad una mera descrizione
oggettivistica, ad una rappresentazione di un semplice
dato di fatto o di un puro dato naturalistico.
Ciò in ragione del fatto che la corporeità rivela che il
corpo è in questo trascendersi rispetto alla mera
corporeità biologica.
Il primo dato fenomenologico di provenienza husserliana è
possibile ravvisarlo nella dimensione relazionale della
corporeità umana. La sessuazione del corpo, da cui deriva
il principio della dualità sessuale, è indicativa della
sua natura ontologica: la dimensione relazionale della
corporeità umana.
Ma se la natura ontologica del corpo si dà nel suo essere-
in- relazione con l’altro sesso, dobbiamo dire,
allora, che le relazioni interpersonali sono in primo
luogo relazioni intercorporali. Ciò richiede in primo
luogo un’analisi fenomenologica del fenomeno del corpo,
dal momento che attraverso di esso si dà la nostra
collocazione del mondo per cui la soggettività è sempre
una soggettività incarnata. La corporeità del soggetto è
indice dell’incarnazione della soggettività ed è la
condizione necessaria dell’essere nel mondo e del
relazionarsi con l’altro. Per tali ragioni la corporeità è
un fattore da cui non si può prescindere in un’analisi
fenomenologica della differenza tra i sessi.
Un altro riferimento centrale al corpo, quale oggetto
privilegiato di un’analisi filosofica della soggettività,
si può ritrovare nella fenomenologia husserliana in cui la
specificità della soggettività risiede in un’unità di
corpo e anima senza che il soggetto venga ridotto
unicamente alla componente spirituale come unico punto di
riferimento per riconoscere l’unità del soggetto.
Corpo e anima si costituiscono l’uno attraverso l’altro in
un processo dialettico che tiene insieme le due realtà del
soggetto, quella fisica e quella psichica. Qui può essere
utile intendere in quale senso si parla di realtà fisica
del soggetto e quale significato riveste la sua dimensione
corporea.
La scoperta fenomenologica husserliana di grande rilievo
riguardo al tema della corporeità è che il corpo non
costituisce la pura materialità della vita dello spirito.
Husserl, infatti, distingue la nozione di corpo materiale
(Koerper) dalla nozione di Leib ossia di
“corpo proprio”, che è il corpo vissuto, abitato da una
soggettività, ovvero un corpo vivo e una vita soggettiva
intenzionale.
Sono note le riflessioni del filosofo da cui emerge tale
aspetto: «Io trovo il mio corpo nella sua peculiarità
unica, cioè come l’unico e non essere mero corpo fisico (Koerper)
ma proprio corpo organico (Leib)».
Ciò che si evince da tali affermazioni è la concezione del
corpo come corpo-soggetto. Il corpo umano rispetto agli
altri corpi non è pura esteriorità o un semplice oggetto
in un mondo di oggetti, esso non è riconducibile a pura
visibilità poiché è costituito da una parte visibile e da
una invisibile che costituisce il suo senso, la sua
interiorità.
Il corpo costituisce il punto zero
dell’orientamento circostante: è ciò che rende visibile il
mondo di oggetti circostanti oggettivandoli, ma non è esso
stesso oggettivabile, perché è soggettività vivente.
Virgilio Melchiorre definisce il corpo come asse
prospettico: il corpo rende visibili gli oggetti, ma
realizza nei confronti di sé una trasgressione perché si
sottrae dal tentativo geometrizzante che lo vorrebbe
ridurre a pura estensione, oggettivandolo.
Il corpo umano in qualità di Koerper costituisce il
corpo anatomico, il corpo sessuato, il corpo come cosa tra
le cose, pura oggettualità, ma in qualità di Leib è
soggettività vivente.
Sotto questo profilo il corpo umano non si differenzia dal
corpo non umano in quanto ha una forma, una dimensione, ma
l’essere umano non è corpo nel senso in cui è corpo un
altro oggetto come una casa, un albero, una penna.
Il senso della corporeità umana consiste, dunque, nel
suo essere costantemente un rinvio del corpo ad un altro
da sé che è il suo senso, il suo significato e il suo
valore. Per tali ragioni, la differenza maschile/femminile
non può essere risolta nella differenza dei corpi, in
ragione del trascendersi del corpo rispetto alla mera
corporeità biologica. Ora, la differenza maschio/femmina non
può essere interamente consegnata alla diversità anatomico-fisiologica
del corpo, in quanto ciò potrebbe comportare una riduzione
del corpo sessuato a puro oggetto, che ridurrebbe la
sessualità umana ad un oggetto, ad un organo o ad una
funzione, quella appunto genitale. Quale fine avrebbe
in questo senso la natura sessuata di un corpo se non
quella di essere finalizzata ad un puro e semplice accoppiamento
sessuale? Il fatto che esiste una fondamentale divaricazione
o dimorfismo all’interno della stessa umanità potrebbe
probabilmente trovare appagamento in un significato
biologico del dimorfismo stesso. A livello biologico
cioè i geni determinano il sesso e poiché la specie
umana si riproduce per via sessuale, essa richiede un
dimorfismo dell’umano a garanzia di una buona perpetuazione
della specie e della sua sopravvivenza sulla terra.
Ma, la verità scientifica obiettiva è esclusivamente
una constatazione di ciò che di fatto è, pertanto non
può esaurire quello sguardo verso l’interezza dell’umano
sostenuto dall’istanza metafisica intesa come istanza
dell’oltre.
L’analisi fenomenologia della corporeità legge infatti la
natura sessuata del corpo nel suo costitutivo rinviare
verso altro da sé, tale per cui si può dire che l’essere
del corpo è questa ulteriorità che consente di
entrare senza fraintendimenti nell’ordine simbolico del
corpo ed intendere che il suo essere sessuato non può fare
a meno di una dimensione di valore e di senso che è data
proprio dalla dimensione ontologica di ulteriorità
della corporeità umana ossia dalla sua strutturale
metafisicità.
Da ciò si evince che la corporeità sessuata, prima ancora
di configurarsi come una funzione (la sessualità
umana) è una condizione strutturale dell’esistenza
umana. Il dimorfismo è cioè espressione di una profonda
verità dialogica dell’essere umano: aver bisogno
dell’altro/a nel senso di non potersi mai definire in
termini di assolutezza, di onnipotenza e di individualità
irrelata. Tale dimorfismo, presente all’interno
dell’umanità, ci restituisce il maschile e il femminile in
una dimensione relazionale che è già inscritta
ontologicamente nel corpo segnato dalla divisione
sessuale: l’identità duale dell’umano è una identità
relazionale. La prima forma di consapevolezza della
condizione umana è data “dall’avvertimento di quella
corporeità che ci appartiene in prima persona”.
Ciò significa che la
coscienza del sé corporeo ci è data come identità sessuale
e la ricerca di tale identità costituisce il presupposto
della relazione con l’altro sesso.
Riconoscere il senso e il valore dell’essere incarnati in
una corporeità sessuata significa affermare la
relazionalità del maschile e del femminile e considerare
l’eterosessualità come originariamente costitutiva delle
relazioni intercorporali, sulla base del riconoscimento
che la natura sessuata del corpo è indice dell’essere il
corpo già situato, per natura, e per questo in relazione,
con l’altro sesso.
Posto ciò il maschile e il femminile possono essere
considerati come parti di quell’intero che è il genere
umano, inteso come co-appartenenza delle parti tale per
cui ciascuna parte costituisce un in sé, ma in questa
inseità dice anche dell’altro nel senso che nessuna
polarità può essere di per sé assolutizzata e da sola
costituire l’intero, anche se nella singolarità essa
esprime l’intero sia pure come taglio prospettico o per
adombramento. Parlare di natura umana significa
parlare del maschile e del femminile nel senso che non
sarà mai possibile intendere l’esperienza individuale
(maschile o femminile che sia) senza l’orizzonte
dell’unità strutturale del tutto, perchè la conoscenza di
sé è sempre incarnata cioè connessa alla
consapevolezza della propria corporeità concretamente
vissuta nel rapporto con l’altro sesso
.
Ammettere ciò significa in primo luogo riconoscere il
genere umano come τò υποχειίμενον rispetto alle διαφοραί,
come ciò che mostra una connessione unitaria degli
elementi salvaguardandone la differenza. Il genere umano
esprime, infatti, la dimensione unitaria del tutto in cui
le differenze tra il maschile e il femminile, via via
negate, non sono abolite, ma conservate- nel senso
hegeliano della Aufhebung – cioè sono differenze
che cessano di sussistere in modo opposto e separato
. L’umano, inteso come
genere sessuato, non è, perciò, l’in-differente, ma
un tertium inteso come spazio del neutro, che, nel
senso etimologico della parola latina neuter,
esprime quello spazio che non è rappresentato né solo dal
maschile né solo dal femminile, ma dalla loro relazione.
Il peculiare di una logica relazionale, o come potremmo
definirla, di una logica della differenza è che essa deve
poter pensare insieme i due termini della relazione cioè
non può pensare la differenza sessuale in termini
dialettici dove l’altro è per negazione dell’uno.
5. Riflessi della teoria husserliana
dell’intersoggettività nella relazione maschile-femminile
Le differenze si presentano sin dalla prima apparizione
dei corpi, già basata sul sesso: si tratta di un corpo
maschile o femminile. Dalla dualità dei sessi discende che
uomini e donne si costituiscono gli uni in riferimento
agli altri e viceversa. La relazione umana è,
quindi, la dimensione originaria intersoggettiva, che dà
forma a un con-vivere senza disperdere la diversità delle
parti. Tale aspetto è significativamente rilevante nella
fenomenologia husserliana dell’intersoggettività ed appare
interessante per la nostra analisi quanto Husserl
esplicita a proposito di tale tema.
La relazione intersoggettiva prefigura un ego e un
alter assunti come “polarità egologiche” allo scopo
di salvaguardare le loro rispettive identità, intese come
due sfere originarie differenti a cui non si può imporre
alcuna unità intesa come indistinzione delle parti.
L’altro, per Husserl, è un alter ego: dunque un io
altro da me.
Il termine “polarità egologiche”, usato da Husserl, serve
per mantenere il rinvio a due poli di riferimento
segnandone una separatezza che non è una
separazione, ma ciò che secondo l’interpretazione di
Ricoeur consente di mantenere viva una sfida contro “le
insidie dell’unione fusionale, sia che ciò avvenga
nell’amore, sia che avvenga nell’amicizia, o nella
fratellanza, tanto in scala comunitaria che cosmopolitica”.
Husserl, come è ben noto, ricorre al concetto di analogia
per indicare la specificità della relazione ego-alter: “L’altro,
per il suo senso costitutivo, rinvia a me stesso e
tuttavia esso non è propriamente un rispecchiamento, un
analogo di me stesso, né addirittura un analogo in senso
comune. L’ego è dapprima delimitato nel suo esser proprio
e nei suoi momenti costitutivi […]”.
La costituzione dell’altro si configura come costituzione
di un alter ego, come un “io” altro da “me”,
inteso come analogo dell’ego nel senso che l’io e l’altro
presentano qualcosa di comune, ma restano differenti
e la loro differenza piuttosto che costituire un
limite è una risorsa della relazione.
Nel rapporto di tipo analogico si mantiene così una
struttura ontologica di base in cui l’identità e
l’alterità si connotano secondo il loro rispettivo
carattere insostituibile, singolare ed unico tale per cui
l’uno non è l’altro e l’altro non è l’uno. La relazione di
tipo analogico non costituisce pertanto una “caduta
delle differenze”, ma mantiene una costante apertura
ad un comprendersi reciproco, pur partendo da due diverse
prospettive intenzionali.
Trasponendo quanto afferma Husserl sul piano della
relazione tra i sessi, il maschile e il femminile possono
essere letti come due identità analoghe nel senso
che rappresentano “quell’essere uno del conoscere e del
conosciuto, senza che tuttavia l’identità finisce con
l’annullare la differenza e l’alterità dei due”.
L’analogia husserliana, come afferma Melchiorre,
costituisce, da questo punto di vista, la condizione
ontologica che rende possibile il rapporto
intersoggettivo, imponendo di pensare nella relazione
maschile-femminile ad un universo comune a tali
individualità, pur mantenendo le differenze.
Non sfugge, però, all’attenzione di qualche studioso di
Husserl, un limite fondamentale della teoria
dell’intersoggettività, rintracciabile in una originaria
incomprensione teoretica della differenza sessuale
.
La fenomenologia husserliana dell’intersoggettività
sembra, infatti, non potere sfuggire alle accuse di
“asessualità” definite e circoscritte da Ortega Y Gasset
all’analisi della costituzione dell’altro, analisi che per
Husserl stesso si determina come “teoria della
costituzione dell’altro o degli altri in generale”.
Ortega Y Gasset, sembra avere rintracciato un limite già
originariamente nell’impostazione metodologica della
ricerca husserliana, finalizzata a delineare un
significato generale dell’Altro senza precisare se si
tratti di questo o quel determinato altro.
Il problema dunque si pone quando all’io appare non
l’Altro in generale, ma un altro in particolare,
ossia un corpo femminile, allora lì si presenta
“l’insufficienza di ogni teoria che spieghi la presenza
dell’altro attraverso la proiezione sul suo corpo della
nostra persona”.
La trasposizione in un corpo femminile del mio ego
maschile non servirebbe a spiegare l’apparizione
dell’essere umano femminile, completamente distinto dal
mio, anche se – continua Gasset – la differenza delle
forme corporali non sarebbe sufficiente per farci scoprire
la donna, la cui specificità femminile trascende il suo
corpo rivolgendosi, pertanto, alla sua interiorità e al
suo modo di essere, che è ontologicamente, e non
solo corporalmente diverso da quello dell’uomo.
Nella fenomenologia husserliana dell’intersoggettività il
dato della sessuazione del corpo sembra così non avere un
ruolo decisivo riguardo al tema della costituzione del
corpo stesso e nella dinamica delle relazioni
interpersonali, che pure, come afferma Husserl, sono in
primo luogo relazioni intercorporali.
Stupisce, dunque, tale dimenticanza che sembra proprio
emergere nel momento in cui si compie una vera e propria
rivalutazione della corporeità umana. La prima modalità,
mediante la quale entriamo in contatto con gli altri e il
mondo è proprio quella corporea e tale dato è ben tenuto
presente da Husserl stesso, per il quale l’esperienza
dell’altro essere umano avviene sempre in una relazione
tra corpi, mediante un’estensione analogica al
corpo altrui delle caratteristiche dell’esperienza del
corpo proprio (accoppiamento)
Ma, la prospettiva di Husserl consiste, sotto questo
aspetto, nel non avere “biologizzato” l’alterità,
sulla base del fatto che ogni volta in cui si parla di
“altro” non si deve intendere sempre “l’altro sesso”. La
categoria dell’altro è analizzata da Husserl a partire da
un concetto di “alterità” più comprensivo ed esteso del
concetto di “alterità sessuale”. Nonostante ciò, secondo
il parere di chi scrive, si evidenziano nella
fenomenologia husserliana dell’“estraneo”
ammirevoli scoperte che ci fanno intendere qual è in
generale, nella relazione umana e non solo nella relazione
fra i sessi, la modalità autentica dell’incontro con
l’Altro: per comprendere l’Altro bisogna mettersi nella
sua prospettiva, nel “corpo dell’altro” cioè nel
suo “asse prospettico”.
Se la nostra analisi ci ha condotti alla tutela e al
rispetto delle differenze, le parole di Husserl non vanno
prese alla lettera: esse possono significare che il
maschile e il femminile, pur connotandosi come prospettiva
sempre parziale sulle cose, esprimono, nella duplicità del
simbolico, una imprescindibile tensione alla totalità e
all’universale.
Il corpo è sempre situato in uno spazio e ciò rende il
senso della dimensione prospettica della coscienza nei
confronti della realtà. Per intendere le ragioni
dell’Altro occorre de-situarsi dalla propria angolazione
prospettica e porsi nella prospettiva dell’Altro cioè
dalla parte del suo punto di vista. Occorre, nel senso di
Husserl, una “trasposizione analogica”: l’altro
corpo mi si presenta “come” il mio, pur essendo
differente dal mio.
Il trasporsi dell’io nell’alter ego non significa vedere
la realtà così come la vede l’altro, ma secondo
un’espressione metaforica molto usuale nel linguaggio
quotidiano: “un mettersi nei panni dell’altro”. Attraverso
il corpo avviene originariamente l’esperienza dell’altro
essere umano sulla base dell’affinità somatica e
successivamente attraverso l’empatia mediante la
quale si riconnette il comportamento dell’altro ad
un’esperienza psichica paragonabile alla propria.
L’affinità somatica, inoltre, implica il riconoscimento
dell’altro corpo e dell’altro io come “umani” e
testimonia l’originaria dimensione intersoggettiva della
corporeità. Nella teoria della intersoggettività corporea
si evidenzia così una grande scoperta per la quale la
differenza tra i corpi non si riduce ad una mera
differenza biologica, ma la trascende, nel senso che il
corpo è sempre anche “più che corpo”: la differenza tra il
mio corpo e quello dell’Altro è una differenza di
prospettiva che rinvia ad un differente modo di vedere
la realtà.
Si tratta di aver chiaro ciò che Husserl afferma nella
V Meditazione cartesiana: la differenza tra i corpi è
la differenza tra un “qui” e un “ là ”,
ossia la differenza tra ciò che è visto “qui” e ciò che è
visto da “qui”.
Io scopro l’Altro se mi metto non nella prospettiva del
“qui” che indica la datità originaria del mio corpo fisico
(si intende sempre come angolazione prospettica del vedere
in quanto il corpo è situato spazialmente) ma a partire da
ciò che è visto da “qui” e non assolutizzando il mio punto
di vista per considerare ciò che è visto da “là”: “Se
percepissi la realtà da un “là”, non la vedrei, pur
essendo essa la stessa, che in diversi e altri modi di
apparizione corrispondenti, che sono propri della stessa
qualificazione “esser là”.
Porsi “di là” significa entrare in relazione con l’altro e
ciò implica la capacità di ascoltare l’altro, di fare
spazio dentro di sé all’altro e ai suoi vissuti. Il
rapporto analogico che si istituisce tra l’ego e l’alter
ego in virtù dell’empatia è dato originariamente in un
“accoppiamento”.
Il significato originario della coppia (Paarung) e
poi del gruppo e di una molteplicità, risiede dunque nella
capacità di mettere in relazione i vissuti propri con i
vissuti dell’altro e, così, di con-dividerli.
La relazione si presenta come la dimensione originaria in
cui identità e differenza si mantengono in un rapporto di
interazione e di reciprocità perché entrambe si
valorizzano in quella struttura che li unisce e che è la
relazione stessa. Essa permette di scoprire
contestualmente la propria medesima identità e la risorsa
della differenza, che è l’altro, il cui incontro è sempre
più ricco e fecondo di quello con l’uguale. Nell’epoca
attuale, del resto, sta emergendo un bisogno profondo di
identità e identificazione e tale bisogno non contrasta
con la valorizzazione delle differenze, al contrario se ne
pone a fondamento in ragione del fatto che ogni identità
ha diritto alla propria differenza rispetto alle altre
identità.
Altro dato di forte rilievo è che l’identità non ha una
struttura metafisica e “non è senza porte né finestre” nel
senso in cui lo è la monade leibniziana (che presenta i
rischi di una chiusura totale in sé), ma si
costituisce in relazione con l’alterità, che è la
differenza.
La prospettiva husserliana costituisce il superamento
degli esiti posti dall’idealismo metafisico, per il quale
la soggettività si configura come una realtà sostanziale,
immutabile e sempre uguale a sé stessa, dimenticando di
volgere lo sguardo all’esperienza umana che esprime la
modalità tipica di “essere-nel-mondo” cioè la modalità del
nostro relazionarci con noi stessi, con gli altri, con le
cose.
Dire che l’identità sia una sostanza significa presupporre
un’identità sostanziale sin dall’inizio escludendo a
priori la natura relazionale dell’identità e l’apertura
all’alterità, che esprime bene il senso per cui ciò che
noi siamo si dà solo attraverso la relazione con
l’altro/a. L’identità, di per sé, non implica
immutabilità, staticità, ma al contrario esprime l’idea di
una soggettività a posteriori che va guadagnando sé stessa
attraverso l’esperienza nel mondo e con gli altri.
Per tali ragioni “la totalità monadica è una
totalità e non un’identità, è sempre un tendere e
non soltanto meta raggiunta, una ragione attiva e
non soltanto una razionalità tautologica, un istinto
e non soltanto un pensiero, un impulso e non
soltanto un appagamento”.
L’approccio dinamico alla costituzione dell’identità da
parte di Husserl mette, infatti, in evidenza il “come” si
costituisce l’identità nella dinamica del suo divenire e
nella relazione con l’altro e come essa possa aprirsi al
riconoscimento dell’alterità dell’altro.
[Non mi sembra ora che manchi un legame logico e tematico
tra questo periodo e il precedente, ma dimmi cosa ne
pensi; ho provato a sistemare anche gli altri successivi
passaggi ] La coscienza husserliana non è, infatti, un
“esser coscienza”, ma un “divenire coscienza”, è un
fluire di vissuti psichici, sempre aperta alle
esperienze di sé medesima e alle esperienze di vita
intersoggettiva. I vissuti, inoltre, non sono separati
dal processo di costituzione della coscienza, che è anzi
un “fluire di Erlebnisse” e da ciò segue che
l’identità non è un dato presupposto, ma un processo che
continuamente modella e ri-modella la sua struttura
organizzando il senso della propria esperienza.
L’intenzionalità, che Husserl riconosce come
caratteristica fondamentale della coscienza, è, infatti,
un’operazione di Sinngebung, ossia di donazione di
senso, ma l’aspetto più interessante, che, sotto questo
profilo, ci viene restituito da Husserl, è la scoperta del
carattere intenzionale della coscienza e
dell’esperienza in genere per cui non si dà coscienza
se non in rapporto a qualcosa di altro da sé. La
soggettività, dunque, situandosi intenzionalmente nella
Lebenswelt, non è compimento, ma un compier-si
nella dimensione radicale dell’esperire ossia nel dare
significato a ciò che siamo e a ciò che facciamo. Per tali
ragioni, si può dire che l’intenzionalità husserliana esce
dalla sfera puramente logico-formale di chiara derivazione
scolastica ed entra nel vivo dell’atteggiamento teoretico
ossia entra nel mondo-della-vita.
Da ciò ne segue, parafrasando Husserl, che l’identità si
definisce attraverso l’esperienza vissuta che è
esperienza personale di ciascuno/a. Tale esperienza,
essendo direttamente vissuta dal soggetto, si configura
come unica, irripetibile, singolare e per questo
differisce da quella di qualsiasi altra persona. Se il
mondo, come ritiene Husserl, può mostrarsi diverso per
ciascuno perché ogni singolo ha il proprio modo di
esperirlo e di rielaborare le esperienze vissute, a
maggior ragione esso si mostrerà differentemente al
maschile e al femminile, ma non incompossibile,
poiché “ogni monade che vale come possibilità concreta
delinea un universo compossibile”.
Ogni monade, pur segnando una specificità del sé e una
unicità, non è riconducibile a mera individualità, nel
senso in cui quest’ultima può negare il legame solidale e
di collaborazione tra uomini e donne e tra uomini in
generale. Essa è, piuttosto, identità singolare ed
unica che si apre armonicamente agli altri attraverso una
disposizione costitutiva di sé all’altro. Secondo quanto
ci proviene dalla lezione husserliana, si può chiosare che
l’armonia tra il maschile e il femminile non è
prestabilita una volta e per tutte, ma va conquistata
“sempre di nuovo” attraverso un esercizio continuo che
la pone come esito di una virtù dei due sessi divenuta
capacità di aprirsi l’un l’altro e di con-esperire il
mondo.
L’approccio dinamico alla costituzione dell’identità da
parte di Husserl mette, infatti, in evidenza il “come” si
costituisce l’identità nella relazione con l’altro e come
essa possa aprirsi al riconoscimento dell’alterità
dell’altro.
6. L’Identità corporea e costituzione di senso
Da tutto quanto abbiamo visto, la persona umana non esiste
mai in astratto, ma nella concretezza della sua
sessualità, che attiene all’essere stesso della persona,
che si dà originariamente come “persona sessuata”.
Il corpo cioè non si aggiunge ad essa come un aspetto
separato, ma come sua dimensione costitutiva che la
contrassegna sia dal punto di vista fisico che psichico.
Il corpo, si diceva, è un Erlebnis, nel senso
attribuitogli da Husserl, ossia un vissuto intenzionale.
L’intenzionalità del corpo è rivelativa di un profondo
significato: nell’esperienza umana la coscienza esperisce
il proprio corpo ossia lo vive dall’interno. In
questo senso si può dire che il corpo si riveste di un
apparato di riferimento simbolico e valoriale che
trascende la mera dimensione biologica e rivela una
profonda istanza veritativa della persona nel cogliere la
struttura identitaria del proprio essere sessuato.
Il dato fenomenologico secondo cui il corpo è un
Erlebnis intenzionale conferma che il corpo
non è pura estensione, mero oggetto, bensì soggettività
consapevole di sé.
Tale consapevolezza proviene al corpo dall’interno, dal
suo stesso sentire o dal suo senso di interiorità vissuta:
il corpo è in questa dialettica di
estensione-in-estensione che originariamente lo
connota
. Si può chiaramente
intendere che ogni soggetto, assunta la propria
individualità secondo il sesso di appartenenza (ossia la
propria identità sessuata) viene completando la
maturazione di quello che le scienze psicologiche
definiscono per l’appunto il “sesso psicologico”. Ne è
segno che il corpo sessuato non rimanda ad un insieme
esteriore di caratteristiche fisiche e morfologiche, ma è
una realtà vissuta dal di dentro della coscienza e nella
sua interiorità.
Il sesso o identità sessuale conferisce al soggetto,
maschile o femminile che sia, quella dimensione del
proprio sentire che in buona parte dipende dall’attività
ormonale, ma che, in quanto di natura psicologica, è anche
fortemente influenzato dai fattori sociali, culturali,
ambientali, e, come, riportano molti contributi teorici
nelle scienze psicologiche, dalle esperienze interiori
vissute sin dai primi anni di vita nel rapporto
relazionale con le figure genitoriali, in particolare con
la figura materna
.
L’uomo e la donna, raggiunta questa dimensione
psicologica, acquistano nozione della propria identità
sessuata ossia, come si è detto prima, l’intimo
convincimento di appartenere all’uno dei due sessi,
pervenendo così all’esercizio dei ruoli e delle funzioni
sessuali in riferimento al sesso di appartenenza. Il
maschile e il femminile da identità sessuate devono
divenire identità sessuali, per potere esprimere
tutte quelle manifestazioni legate al sesso che si
esprimono attraverso le funzioni peculiari del maschio e
della femmina e che danno luogo ai comportamenti propri
della vita sessuale di ciascuno.
Ora, se l’identità sessuale è un processo dinamico di
costruzione del sé sessuato, l’identità sessuata è invece
la strutturale modalità di ognuno di noi di essere al
mondo e, pertanto, essa non può configurarsi come il
prodotto di una libera scelta del soggetto, una scelta
revocabile anche più volte dallo stesso soggetto nel corso
della vita, bensì come ciò che lo connota in modo
originario e che fonda la verità del suo essere sessuato.
Mentre allora l’identità sessuata è un dato, si deve dire
che, invece, l’identità sessuale è un vissuto, un
Erlebnis – parafrasando il pensiero husserliano –
attraverso il quale l’essere sessuato trova conferma della
propria identità sessuata nel sentirsi e percepirsi come
persona sessuata, pena il suo equilibrio psico-fisico.
Un dato particolarmente significativo dell’antropologia
contemporanea ci induce a prendere atto del fatto che
l’identità sessuale e il genere si costituiscono nella
maggior parte delle società occidentali in funzione del
sesso anatomico, differentemente da quanto avviene in
alcune società neoguineane o Inuit. Come afferma
l’antropologa Françoise Heritier, tali società offrono
situazioni esemplari da questo punto di vista poiché il
sesso reale è ivi rappresentato non dal sesso anatomico,
ma da quello dell’identità dell’anima-nome. Così, come si
esprime Heritier, l’identità sessuale è «il sesso
dell’antenato la cui anima-nome ha penetrato quella donna,
si è insediata nella sua matrice per nascere di nuovo
e che gli sciamani comunicano alla nascita del bambino».
E’ possibile rilevare come in queste società l’identità
del maschile e del femminile viene interamente costruita,
con esclusivo riferimento ad una vocazione originaria
dell’anima-nome, prescindendo dal sesso biologico, anche
se tale emancipazione dal dato anatomico non è definitiva
e ritorna come punto di riferimento successivamente. E’
interessante notare come presso gli Inuit la pubertà segni
per gli adolescenti un forte cambiamento, drammatico il
più delle volte, perché essi “devono adattare il loro
comportamento al loro sesso di appartenenza” ossia al
sesso anatomico anche se sono stati educati al sesso
dell’anima-nome.
Differenziare il sessuato dal sessuale non significa
allora dissociarli: nel nostro sistema antropologico
l’ordine del simbolico è in perfetta armonia con l’ordine
naturale, infatti la determinazione del sesso sociale è
calcata sulla determinazione del sesso biologico, perché
l’essere per natura sessuati costituisce un dato biologico
rivelativo di una verità essenziale della persona che
assume valore ontologico e morale.
Il fatto che l’identità maschile e femminile possano
essere viste come “identità costruite” non vuol dire,
però, che tale costruzione possa procedere contro natura.
Nel modello dei Sambia, per esempio, come riportano gli
studi di Heritier, l’identità maschile, differentemente da
quella femminile, risulta interamente costruita,
indipendentemente dal sesso anatomico e al momento del
matrimonio è necessario che i giovani passino
esclusivamente all’eterosessualità.
La costruzione dell’identità sessuale non può significare
negazione assoluta dell’identità, per natura sessuata,
dell’essere umano, ma va guidata verso una dinamica
bipolare in cui le due differenti polarità del maschile e
del femminile si co-appartengono. Tale prospettiva riesce
a dare meglio l’idea che l’identità sessuale, espressione
dell’identità personale, si costruisce nella relazione con
l’altro sesso, che è il differente dal proprio, senza che
ciò significhi una negazione delle due polarità come
identità sessuate
.
Tenere presente tali conclusioni significa riconoscere al
maschile e al femminile la loro dignità ontologica
intrinseca e il loro carattere relazionale. La priorità
riconosciuta ai corpi e alla loro differenza è della più
grande importanza per la nozione di identità maschile e
femminile.
*
Docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali
e Dottoranda di ricerca in Pedagogia in prospettiva
interculturale all’Università di Palermo
Per un approfondimento di tale aspetto si rimanda
al testo di V. Melchiorre, Uomo e donna.
Sull’ontologia della differenza, in ID. Corpo
e persona, Marietti, Genova, 1987, pp. 117-132.
Cfr. Platone, Simposio, Laterza, Bari, 2004,
191 a-d, pp. 43-45.
Per un riscontro circa il significato e il valore
della sessualità umana si confrontino i seguenti
testi: G. Cesari, Natura ed interpretazione dei
disorientamenti sessuali: l’omosessualità, in
Interrogativi per la bioetica, a cura di M. L. Di
Pietro e E. Sgreccia, La Scuola, Brescia, 1998, pp. 78
-96; R. Lucas Lucas, Antropologia e problemi
bioetici, San Paolo, Milano, 2001.
Cfr. Platone, Simposio, 191 d, op.cit.
Cfr. X. Lacroix,. In principio la
differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione,
Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 30.
Cfr. R. Lucas Lucas, La persona e la sessualità
in ID. Antropologia e problemi bioetici, San
Paolo, Milano, 2001, pp. 34-72.
Nelle note e celebri pagine della lotta per il
riconoscimento della Fenomenologia dello Spirito,
è interessante notare quanto sostiene Hegel in merito
al fatto che solo l’esperienza di una reale
reciprocità dell’io e dell’altro porta all’autentico
riconoscersi di entrambi nella relazione. Ma, Hegel è
consapevole che tale riconoscimento passa attraverso
un momento di lotta, di conflitto fra autocoscienze,
fino a quando l’io non riconoscerà l’altro come
differente da sé. Il rapporto servo-padrone-secondo la
lezione di Hegel- esprime il modo tipico in cui si è
realizzata la dialettica dei sessi e più in generale,
il modo in cui si danno le relazioni interpersonali.
L’Altro non è generalmente accolto nella sua alterità,
ma ridotto ad un rapporto di subordinazione, come
avviene nella condizione del servo, che viene visto
dal signore come oggetto del proprio appetito.
Ma, la coscienza non può limitarsi a trovare il
proprio appagamento negli oggetti sensibili e ridurre
l’altro ad un oggetto, poiché ha costitutivamente
bisogno dell’Altro per essere. Il padrone, infatti,
resterà padrone del servo sino a quando il servo lo
riconoscerà come tale. Ciò vuol dire che “
l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in
un’altra autocoscienza”. Ma, affinché l’Altro sia
riconosciuto come Altro, l’essere-per-sé,
dell’autocoscienza, che nega ogni alterità, deve
negarsi per affermare l’Altro, per affermare cioè
l’elemento della differenza e della sostanzialità
delle differenze. Cfr. Hegel, Fenomenologia dello
Spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1973 p. 156 e
ss.; J. Hyppolite, Genesi e struttura della
Fenomenologia dello Spirito, p. 201-209,
Bompiani, Milano, 2005.
Cfr. V. Melchiorre, Intenzionalità e prospettiva
in Id. Metacritica dell’eros, cit., p. 16.
Tutto ciò costituisce quanto nella fenomenologia
husserliana va sotto il nome di conoscenza a-priori
resa originariamente dall’intuizione generale
dell’essenza. Si deve tenere presente che il metodo,
evidenziato da Husserl, per arrivare alla
individuazione dell’essenza è la sospensione del
giudizio o riduzione fenomenologia che
consiste nel mettere tra parentesi tutto ciò che può
apparire ovvio, indiscutibile, determinato. Tale
posizione definisce in generale un atteggiamento di
sospensione, di ritiro del nostro assenso ai fenomeni
e della messa tra parentesi della validità che hanno
per noi senza con ciò rischiare di perdere il mondo e
i fatti storici quanto piuttosto riscoprirne
l’autenticità e una maggiore significatività.
Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e
la fenomenologia trascendentale, op.cit.
Cfr. Cfr. Husserl, L’idea di Europa, Raffaello
Cortina,Milano,1999, Introduzione, p. XX.
Cfr. P. Miccoli, Corpo dicibile, L’uomo tra
esperienza e significato, cit.
Cfr. E. Husserl, V Meditazione cartesiana,
cit., p. 119.
Cfr. Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione,
cit., pp. 206-214.
Cfr. P. Miccoli, Corpo dicibile, L’uomo tra
esperienza e significato, op. cit.
Si tratta della critica di Ortega Y Gasset alla teoria
husserliana dell’intersoggettività, critica che viene
ripresa da Francesco D’Agostino, per evidenziare una
strutturale debolezza del pensiero filosofico nella
comprensione della differenza tra i sessi. Tale limite
è riconosciuto da F. D’Agostino non solo alla
tradizione metafisica occidentale, ma anche a larga
parte del pensiero filosofico post-metafisico
contemporaneo. Certo, diverse sono state le
interpretazioni del pensiero husserliano, ma di certo
non si può negare che lo sviluppo della teoria
dell’intersoggettività ci restituisce aspetti e temi
originali, che possiedono una loro legittimità
speculativa senza esigere in alcun modo che ci si
schieri a favore o contro.
Il corpo come concetto primitivo è un “particolare
di base” ossia ciò a cui occorre rinviare per
identificare qualche cosa, perché –secondo la lezione
di Ricoeur - “ i corpi fisici e le persone che noi
siamo sono particolari di base, nel senso che non
possiamo identificare niente senza rinviare, in ultima
istanza, all’una o all’altra di queste due specie di
particolari”. Cfr P. Ricoeur, La persona come
particolare di base in Id. Sé come un altro,
Jaca Book, Milano, 2005, pp. 107-108.
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