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Associazione Thomas
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Italia: i nuovi "Manifesti
di bioetica"
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Settembre
2007. Il 21 settembre, su “Europa”,
è apparso un Manifesto, firmato
da alcuni filosofi cattolici e laici, dal titolo
“Una ragione pubblica per la bioetica”.
L’obiettivo del Manifesto, rivolto
principalmente anche se non esclusivamente al
nascente Partito Democratico, è quello
di mettere a punto «La definizione di
un metodo di discussione sui problemi inerenti
la vita e la scienza [...] nell’intento
di contribuire a superare contrapposizioni troppo
rigide e costituire la base per interventi legislativi
più ampiamente condivisi». Spesso,
infatti, «Si assiste nel nostro paese
alla costante rincorsa a “piantare una
bandiera” sulle principali questioni bioetiche
[...] senza che si esibiscano le ragioni pubblicamente
rilevanti che dovrebbero sostenere le scelte
che valgono per tutti i cittadini; si cerca
piuttosto di ottenere una “vittoria”
numerica sulle opinioni differenti». Così,
«Per uscire dalla situazione di stallo
che caratterizza il dibattito italiano, è
utile riferirsi a quanto scrive John Rawls nel
saggio intitolato Un riesame dell’idea
di ragione pubblica (1997). La ragione
pubblica è quella di cui dovremmo far
uso nel confronto e nel dibattito civile e politico,
quindi anche quando dobbiamo affrontare problematiche
di natura propriamente etica e bioetica. L’intento
pratico della ragione pubblica fa sì
che essa si basi sui criteri della ragionevolezza
(cioè della razionalità in condizioni
limitate) e della reciprocità tra cittadini
liberi ed eguali». Insomma, secondo il
Manifesto «Non si tratta di far
prevalere una certa concezione dell’assetto
sociale ottimale o della più perfetta
forma di vita, bensì di definire le basi
essenziali del rispetto di ciascuna persona
nei differenti ambiti». Ed è proprio
«il principio del rispetto» che
può costituire un primo elemento di consenso
pubblico, che in ambito bioetico «si può
tradurre in alcuni diritti fondamentali: il
diritto all’integrità, il diritto
alle cure e il diritto al rifiuto delle cure
[...] Questi diritti di carattere generale offrono
una base ragionevole per la discussione pubblica
su questioni bioetiche più determinate».
Hanno firmato il Manifesto: Enrico
Berti, Laura Boella, Antonio Da Re, Roberta
de Monticelli, Alessandro Ferrara, Sebastiano
Maffettone, Claudia Mancina, Roberto Mordacci,
Massimo Reichlin, Roberta Sala, Salvatore Veca,
Corrado Viafora, Carmelo Vigna.
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Come
era prevedibile, il Manifesto “Una ragione
pubblica per la bioetica” ha suscitato
un notevole dibattito. Dopo aver apprezzato
le buone intenzioni dei firmatari del Manifesto,
nel suo articolo Bioetica: bel
“Manifesto” ma con omissioni
(“Avvenire” 27 settembre 2007),
Francesco D’Agostino ha sottolineato la
necessità di tenere distinta la bioetica
dalla ragione pubblica, evitando di confondere
il piano della verità morale con quello
dell’opportunità politica. Si fa
notare, infatti, come l’uso della ragione
pubblica non sia capace di generare consenso,
in bioetica, se non a prezzo di un’astrazione,
quale è quella di un vago principio del
rispetto delle persone. Cosa significa infatti
“rispettare la persona” di fronte
all’aborto? O all’eutanasia? È
chiaro che su questi problemi c’è
un disaccordo che non è facilmente componibile.
Come risolvere allora i conflitti che sorgono
in bioetica? Secondo D’Agostino ciò
è possibile in due modi. «In primo
luogo accettando la volontà democratica
della maggioranza, con assoluta onestà,
ma nella consapevolezza che si tratta sempre
di un’accettazione provvisoria e ricorrendo
nei casi estremi all’obiezione di coscienza.
In secondo luogo riflettendo che le contrapposizioni
bioetiche possono apparire insolubili nell’immediato
o nel breve periodo, ma non è detto che
debbano restare tali per sempre: dibattiti,
testimonianze, riflessioni, nuove prese di coscienza
possono scioglierle o riformularle in modo del
tutto nuovo. Non sta a noi prevedere i problemi
bioetici del futuro; a noi compete solo combattere
oggi la battaglia bioetica che riteniamo giusta,
nel pieno rispetto di chi la pensa diversamente
da noi, accettando con semplicità di
restare eventualmente in minoranza, ma anche
e soprattutto rifiutandoci di negoziare su ciò
che ci appare non negoziabile. Citando Kant
(per evitare ogni accusa di dogmatismo religioso),
ricordo che su ciò che ha un prezzo si
può sempre trattare, mentre su ciò
che ha una dignità non si deve trattare
mai».
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Novembre
2007. Durante il Convegno nazionale "Manifesto
di bioetica laica", organizzato dalla Consulta
Torinese per la laicità delle Istituzioni,
tenutosi il 25 novembre, è stato presentato
il Nuovo Manifesto di Bioetica Laica,
sottoscritto da alcuni dei più qualificati
esponenti della bioetica laica italiana. Fin
dai primi paragrafi il testo prende posizione
sui limiti che l’etica può imporre
al progresso scientifico. Si legge: «è
ingiustificato porre alla ricerca scientifica
limiti pregiudiziali in nome di un generico
e difficilmente quantificabile principio di
precauzione» e più avanti: «alla
ricerca scientifica riconosciamo il valore intrinseco
che deriva dal suo contributo al miglioramento
delle condizioni della vita umana». Così,
per esempio, si ritiene che gli «ostacoli
frapposti alla contraccezione di emergenza (la
c.d. pillola del giorno dopo)» sono «dei
veri e propri attentati al diritto all’autodeterminazione
delle donne e un danno per il paese» e
più avanti si denuncia «una situazione
analoga circa il ritardo applicativo delle nuove
modalità di aborto terapeutico (pillola
Ru486)». A proposito della ricerca sugli
embrioni, leggiamo: «il divieto imposto
alla ricerca sulle cellule staminali embrionali
rischia di isolare il nostro paese dalla ricerca
scientifica internazionale e di rendere più
difficile o oneroso accedere alle risorse terapeutiche
che ne possono derivare (ad esempio attraverso
la cosiddetta ‘clonazione terapeutica’)».
Più avanti il Manifesto si occupa
anche della legge 40, denunciando in particolare
il divieto posto alla “diagnosi pre-impianto”
che invece potrebbe, secondo i sottoscrittori
del Manifesto, “salvaguardare la salute
del nascituro”. Il Nuovo Manifesto
di bioetica laica si conclude con le seguenti
parole: «La bioetica laica è parte
di un impegno per una società in cui,
oltre allo sviluppo dell’accesso alla
conoscenza (ed in particolare a quella scientifica)
inteso come uno dei nuovi diritti di cittadinanza,
cresca lo spettro dei modi di vita possibili
e diminuiscano le sofferenze dovute all’imposizione
di un certo atteggiamento di pensiero, piuttosto
che di un altro, soprattutto per una società
in cui nessuno possa imporre divieti ed obblighi
in nome di un’autorità priva del
consenso delle persone sulle quali pretende
di esercitarsi». Tra i promotori del Manifesto
troviamo Maurizio Mori, Patrizia Borsellino,
Gilberto Corbellini, Emilio D’Orazio,
Carlo Flamigni, Mariella Immacolato, Eugenio
Lecaldano, Claudia Mancina, Demetrio Neri, Mario
Riccio, Sergio Rostagno, Gianni Vattimo e Carlo
Augusto Viano.
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Riportiamo,
a seguire, il commento di Bruno Mastroianni,
Il nuovo Manifesto di bioetica laica
(http://www.documentazione.info/article.php?idsez=5&id=529):
«Sembra che in questo Manifesto manchi
prima di tutto - ancora prima delle perplessità
etiche che suscitano alcune sue posizioni -
quel salutare atteggiamento del “dubbio
metodico” che dovrebbe ispirare chi fa
professione di laicità ed è contrario
ad ogni forma di dogmatismo». E infatti,
per quanto riguarda la Ru486, «il manifesto
ignora le molteplici perplessità scientifiche
che gravitano attualmente attorno all’utilizzo
della ru486. A più riprese il “New
York Times”, giornale laico e liberal,
si è occupato di quelle allarmanti morti
a causa del farmaco (15 donne finora solo negli
USA) e dei vari disturbi provocati dallo stesso
su altrettante pazienti (cfr. http://topics.nytimes.com/top/news/health/diseasesconditionsandhealthtopics/mifeprex_ru486_drug/index.html?s=newest&).
D’altronde anche durante la sperimentazione
negli Stati Untiti si registrarono diversi casi
di emorragia dovuti alla ru486, con 4 donne
che dovettero ricorrere d’urgenza a trasfusioni
per salvarsi la pelle. Anche la figlia del presidente
del Comitato nazionale di bioetica francese
è stata vittima della horror-pill
come l’ha definita il “Times”
a metà ottobre scorso (cfr. http://www.timesonline.co.uk/tol/comment/columnists/india_knight/article2652747.ece).
Insomma non teorie morali ma fatti e dati, che
certo dovrebbero essere approfonditi, ma che
almeno dovrebbero far reagire un illuminato
laico con un atteggiamento di grande prudenza.
Eppure nel manifesto questa prudenza sembra
non esserci». A proposito della ricerca
sulle cellule staminali embrionali, «anche
qui gli autori del manifesto mostrano di non
conoscere gli ultimi sviluppi scientifici: le
riviste Science e Cell hanno recentemente
pubblicato due studi, uno americano l’altro
giapponese, in cui finalmente gli scienziati
per vie diverse sono riusciti ad ottenere cellule
staminali senza usare embrioni (cfr. http://www.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/health/article2908408.ece).
La scoperta scientifica è talmente promettente
che ha fatto fare marcia indietro a Ian Wilmut,
il padre della pecora clonata Dolly, grande
sostenitore della clonazione terapeutica e della
sperimentazione sugli embrioni. Al “Daily
Telegraph” il professore ha dichiarato
che sposterà la sua attività nella
nuova direzione di ricerca, più promettente
e priva di controversie etiche. Wilmut non è
certo l’ultimo arrivato eppure, in nome
della scienza, ha cambiato idea. D’altronde
è noto che da 10 anni le ricerche sulla
clonazione non hanno dato risultati in termini
di applicazioni terapeutiche, tanto che negli
Stati Uniti numerosi finanziatori stanno rivedendo
la loro politica di sostegno dei progetti (http://www.telegraph.co.uk/earth/main.jhtml?xml=/earth/2007/11/16/scidolly116.xml)».
Per quanto riguarda le critiche mosse al divieto
di diagnosi pre-impianto, «anche in questo
caso basterebbe informarsi: lo scorso ottobre
a Washington i membri della American Society
for Reproductive Medicine, tra le più
autorevoli e rappresentative Oltreoceano, si
sono espressi nettamente contro la tecnica di
diagnosi pre-impianto dello screening che negli
ultimi otto anni ha dimostrato nei fatti la
sua inconsistenza (come riportato anche dalla
rivista Nature 445, 479-480, 1 February 2007,
http://www.nature.com/nature/journal/v445/n7127/full/445479a.html).
Gli scienziati, non i membri del movimento pro-life,
dichiarano che la tecnica non si dimostra sufficientemente
attendibile e anzi aumenta le possibilità
di danni al nascituro». Questi sono solo
alcuni esempi, presi dal Manifesto,
che mostrano secondo Mastroianni «come,
anche di fronte a fatti e dati, c’è
una certa coltre ideologica che non viene scalfita:
altro che “generico e difficilmente quantificabile
principio di precauzione”».
Sull’idea, poi, che “organizzazioni
religiose” possano “imporre”
per legge divieti e obblighi a chi non li condivide
si rimane perplessi. In un sistema democratico,
infatti, nessuno può imporre nulla a
nessuno. Tutto passa attraverso il libero gioco
del voto, della preferenza e della dialettica
politica. Se dunque esiste una determinata legge,
questa legge non esiste in virtù di un’autorità
religiosa, ma in virtù dell’autorità
politica dello Stato, riconosciuta da tutti
i cittadini. E quando una legge dello Stato
esprime maggiore vicinanza a una delle parti
in causa, questo non avviene perché è
stata “imposta”, ma solo perché
è stata sostenuta dalla maggioranza (parlamentare
o popolare, come nei referendum). Descrivere
come un’”imposizione” le leggi
che non si condividono, come hanno fatto gli
estensori del Manifesto, è pertanto
un’azione anti-democratica e priva di
laicità. Così facendo, infatti,
si cerca di delegittimare il punto di vista
che ha avuto maggiori consensi, cercando al
tempo stesso di imporre il proprio punto di
vista senza doverlo confrontare democraticamente
con quello espresso dalla maggioranza.
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Italia: pillola del giorno
dopo e obiezione di coscienza
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Ottobre
2007. Intervenendo al 25° Congresso Internazionale
dei Farmacisti Cattolici, Papa Benedetto XVI,
dopo aver chiesto ai farmacisti, nel loro ruolo
di «intermediari tra medici e pazienti»,
di far conoscere «le implicazioni etiche
dell’uso di alcuni farmaci», ha
aggiunto che «In questo campo non è
possibile anestetizzare le coscienze, per esempio
circa gli effetti di molecole che hanno lo scopo
di evitare l’annidamento di un embrione
o di cancellare la vita di una persona».
Il riferimento, piuttosto evidente, è
alla cosiddetta «pillola del giorno dopo»,
la «Norlevo». In effetti la Norlevo
non è soltanto un contraccettivo d’emergenza,
come viene spesso detto, ma anche un abortivo,
visto che nel foglietto illustrativo del farmaco
si legge che esso può agire anche “per
impedire l’impianto” dello zigote.
Per questo il Papa, rivolgendosi ai farmacisti,
ha detto che l’obiezione di coscienza
«è un diritto che deve essere riconosciuto
alla vostra professione, permettendovi di non
collaborare, direttamente o indirettamente,
alla fornitura di prodotti che hanno per obiettivo
scelte chiaramente immorali, come per esempio
l’aborto».
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L’Associazione
delle ditte farmaceutiche (Federfarma)
e il Ministro della Salute Livia Turco hanno
criticato il Pontefice, mentre l’Ordine
nazionale dei farmacisti, l’Unione
cattolica dei farmacisti italiani (UCFI)
e il Movimento per la Vita (MpV) hanno
ribadito il diritto all’obiezione di coscienza
nei confronti di farmaci che potrebbero procurare
l’aborto (come appunto la Norlevo). Sulla
questione si è pronunciata anche la Federazione
degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi)
dicendosi pienamente d’accordo con quanto
dichiarato dal Papa e auspicando una precisa
regolamentazione in merito. In un comunicato
pubblicato sulla pagina del proprio sito web,
la Fofi ha spiegato che la “normativa
attuale non prevede l’obiezione di coscienza
per i farmacisti, i quali, pertanto, non possono
rifiutarsi di dispensare i farmaci richiesti
dal cittadino, qualsiasi essi siano”.
Ma proprio per questo, aggiungono, “i
farmacisti italiani ribadiscono la loro adesione
all’appello del Pontefice, sollecitando
il Governo e il Parlamento a un intervento legislativo
che regolamenti la delicata questione in via
definitiva”. A questo proposito il dottor
Piero Uroda, Presidente dell’Unione cattolica
dei farmacisti italiani (UCFI), ha spiegato
che “la legge a cui si fa riferimento
è entrata in vigore nel 1938 quando non
venivano venduti farmaci abortivi e l’interruzione
volontaria di gravidanza era punita”.
Nel dibattito è intervenuto anche l’on.
Carlo Casini, Presidente del Movimento per
la Vita, il quale ha precisato che “i
farmacisti hanno il diritto a rifiutarsi di
commercializzare farmaci abortivi”. “Infatti
– ha continuato Casini – nessun
caso tra i molti in cui si è tentato
a colpi di magistratura di imporre a un farmacista
di vendere il Norlevo è mai neppure arrivato
in aula”. Il Presidente del MpV ha quindi
spiegato che “la questione riguarda unicamente
la Pillola del giorno dopo, visto che la Ru486
– ammesso che venga mai utilizzata in
Italia – avrà un uso esclusivamente
ospedaliero e quindi non chiama in causa le
comuni Farmacie”. Mentre, ha aggiunto,
che “il Norlevo possa provocare l’aborto
è dimostrato anche dalla sentenza del
Tar del Lazio che ha imposto ai produttori di
specificare tale possibilità nel foglio
illustrativo”. Secondo Casini non c’è
dubbio che “i farmacisti hanno la facoltà
di dichiarare la loro obiezione di coscienza
rifiutando la collaborazione ad un possibile
aborto. Lo esige una corretta interpretazione
della stessa legge 194 sull’interruzione
di gravidanza”. “Ma anche senza
appellarsi alla legge – ha continuato
–, appartiene al comune intendere la certezza
che costringere qualcuno ad uccidere un essere
umano – o anche qualcuno che ritiene ragionevolmente
di riconoscere un essere umano in un embrione
– è davvero contrario ad ogni senso
di umanità”. In merito alle opposizioni,
il Presidente del MpV ha affermato che “sbaglia
il Ministro Turco quando contro i farmacisti
invoca la legge dello Stato perché anche
l’obiezione è legge, e quindi la
norma generale che impone di mettere in vendita
i farmaci trova un limite nell’eccezione,
anch’essa legislativamente prevista, dell’obiezione”.
“Tutto è già scritto e codificato
– ha concluso Casini – ma forse
una legge potrebbe essere opportuna. Non però
per aggiungere qualcosa nell’ordinamento
giuridico, ma solo per garantire un’interpretazione
autentica alla legge esistente che impedisca
erronee interpretazioni come quella della Federfarma
e del ministro Turco”. (Commento
ripreso da http://www.zenit.org/article-12384?l=italian)
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Italia: la sentenza sul caso
Englaro |
Ottobre
2007. La Corte di Cassazione ha disposto un
nuovo processo per il caso di Eluana Englaro,
la ragazza in coma da 15 anni e per la quale
il padre chiede la sospensione dell'alimentazione
artificiale. Ribaltando la richiesta del sostituto
procuratore generale della Cassazione Giacomo
Caliendo che aveva chiesto il rigetto del ricorso
presentato dal padre della ragazza. La Corte
ha deciso che il giudice può, su istanza
del tutore, autorizzare l'interruzione soltanto
in presenza di due circostanze concorrenti:
che sia provata come irreversibile la condizione
di stato vegetativo e che sia accertato che
il convincimento etico di Eluana avrebbe portato
a tale decisione se lei fosse stata in grado
di scegliere di non continuare il trattamento.
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Riportiamo
il parere di Alberto Gambino, Ordinario di Diritto
civile all’Università di Napoli
“Parthenope” e docente di Diritto
privato all’Università Europea
di Roma. Secondo Gambino la sentenza «è
erronea in punto di fatto
per due motivi. Primo perché è
pacifica tra gli anestesisti l’impossibilità
di accertare quando uno stato vegetativo è
irreversibile. Dunque il presupposto su cui
si muove la sentenza viene meno: non è
affatto provato che il paziente non possa tornare
in uno stato di coscienza ed esprimere la sua
volontà. Il secondo motivo è che
il rifiuto di alimentazione ed idratazione non
è rifiuto di terapie. Dare da bere e
da mangiare ad un paziente, per quanto artificialmente,
non è una cura ad una patologia, ma l’assolvimento
di un bisogno essenziale dell’individuo.
Se si pensa di troncare un’esistenza non
soddisfacendo le esigenze primarie di una persona,
credo che si sia davanti ad un caso di vera
e propria eutanasia.
Laddove fossero superabili le obiezioni che
ho appena sollevato – ma davvero non vedo
come – resta difficile spiegare come sia
possibile richiamarsi alla libertà del
rifiuto della cura dinanzi a una volontà
inespressa. Risalire a “comportamenti”,
“stili di vita”, “dichiarazioni
pregresse” per stabilire ciò che
si deve decidere ora e in questa situazione,
significa davvero non tenere conto della reale
volontà del paziente, che, per essere
libera, deve essere attuale, circostanziata
e contestualizzata. E’ pericolosissimo
retrodatarla perché si finisce per farsi
interpreti, arbitrari, di una presunta volontà
altrui, secondo i propri desideri, per quanto
essi siano motivati e sofferti. [...] Nella
dinamica del cosiddetto testamento biologico
si annida [pertanto] un vero e proprio paradosso
giuridico che usa la logica alla rovescia: si
vuole tutelare la libertà dell’individuo
di rifiutare le cure e poi quella libertà
viene esercitata da vari soggetti tranne che
dal suo effettivo titolare. Ho l’impressione
che siamo davanti ad un’analisi fondata
più sullo schema costi-benefici che non
sulla reale salvaguardia della libertà
di cura del paziente. Il malato in stato vegetativo
così finisce per essere considerato un
“peso” sociale, che, per quanto
umanamente pesante, non potrà mai ridurre
il valore della persona-soggetto di diritto
ad un bene disponibile come se fosse una cosa»
(Notizia ripresa da www.repubblica.it
e commento da ZENIT.org).
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Giappone e USA:
nuove scoperte sulle cellule staminali adulte |
Novembre
2007. È arrivata la notizia che molti
aspettavano: è possibile ottenere cellule
staminali senza dover ricorrere all’utilizzo
di embrioni. È questo il risultato di
due diverse ricerche, una americana del prof.
Thomson, dell’Università del Wisconsin-Madison
e l’altra giapponese del prof. Yamanaka,
dell’università di Tokyo, pubblicate
sulle riviste scientifiche “Science”
e “Cell”. I due ricercatori sono
arrivati per due vie diverse allo stesso scopo:
hanno ottenuto staminali modificando il patrimonio
genetico di cellule della pelle, introducendo
nel DNA quattro geni che sono attivi solo durante
lo sviluppo embrionale. Risultato: le cellule
sono regredite fino a tornare allo stato di
cellule staminali, potenzialmente pluripotenti.
Queste cellule un giorno potrebbero essere riprogrammate
per formare vari tipi di tessuto e, provenendo
dallo stesso paziente, eviterebbero gli attuali
problemi di rigetto del sistema immunitario.
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La
notizia è epocale. Infatti è stata
riportata dal Times in prima pagina come “brakethrough”.
D’altronde era stata anticipata già
qualche giorno prima, quando il The
Daily Telegraph aveva riportato
la notizia che Ian Wilmut, il papà della
pecora clonata Dolly, avrebbe deciso di abbandonare
la sperimentazione sugli embrioni per seguire
la nuova tecnica del prof. Yamanaka, più
efficace nell’ottenere cellule staminali
e meno problematica dal punto di vista etico.
La notizia è uno scossone in particolare
per la ricerca sulla clonazione terapeutica.
Ma è uno scossone anche per i milioni
di dollari che, sopratutto negli Stati Uniti,
sono investiti per la ricerca in questo settore.
L’elargizione di questi fondi aveva già
incominciato a scricchiolare di fronte alla
scarsità di risultati - non uno scientificamente
attendibile sulle concrete applicazioni terapeutiche
in 10 anni.
Insomma è iniziato un periodo di declino
per la clonazione terapeutica e la sperimentazione
sugli embrioni? Pare di sì. Ma sembra
anche che, qui in Italia, in pochi se ne siano
resi conto. Lo fa notare Marina Corradi in un
articolo dell’Avvenire del 22 novembre.
La Corradi sottolinea che, mentre il Times ha
dato alla notizia l’apertura in prima
pagina, nel nostro Paese Repubblica l’ha
destinato a pagina 23 (con un piccolo richiamo
in prima) dopo tre pagine fitte di cronaca sul
caso di Perugia, il Corriere non ne ha parlato
visto che aveva già parlato di staminali
la domenica prima, la Stampa lo ha inserito
tra le solite comete e migrazioni di pinguini
dell’inserto scienze e infine l’Unità
lo ha collocato a pagina 8 “a piede”
come si dice in gergo giornalistico. Analizza
la Corradi: “gli stessi giornali che prima
del referendum del 2005 ripetevano ossessivamente,
e ignorando del tutto le obiezioni di autorevoli
ricercatori, che per sconfiggere le malattie
neurodegenerative occorreva usare gli embrioni,
sulla svolta di oggi fanno understatement. Gli
editorialisti che avvertivano severi che perdere
la corsa dei brevetti sulle staminali embrionali
avrebbe affossato la ricerca scientifica in
Italia, ora non scrivono. Come mai è
più franco nel dichiarare il cambio di
rotta uno scienziato come Wilmut? Proprio perché
è uno scienziato, e, preso atto di una
strada più promettente e facilmente praticabile,
nel confronto con la realtà cambia idea.
Chi è ideologico, invece, non guarda
alla realtà: ha un suo schema cui deve
restar fedele, anche se ciò che accade
lo contraddice” (Notizia e commento
ripresi da http://www.documentazione.info/article.php?idsez=5&id=522).
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Esperti Usa di
riproduzione assistita bocciano la tecnica invocata
in Italia |
Novembre
2007. Per gli antagonisti della legge 40 è
il preferito tra i cavalli di battaglia, soprattutto
dopo la discussa sentenza emessa dal Tribunale
di Cagliari alla fine di settembre sul caso
della donna affetta da beta-talassemia: parliamo
della diagnosi preimpianto, la tecnica di analisi
e selezione degli embrioni che – nei proclami
di chi la sostiene – dovrebbe permettere
alle donne che accedono alla fecondazione assistita
di moltiplicare le possibilità di successo
della futura gravidanza, individuando e impiantando
gli "esemplari" potenzialmente più
sani. Al meeting annuale delle società
per la riproduzione assistita statunitensi,
riunite a Washington a metà ottobre,
i medici della Asrm (l’American Society
for Reproductive Medicine, tra le più
autorevoli e rappresentative Oltreoceano) si
sono espressi nettamente contro la tecnica di
diagnosi preimpianto dello screening, che consiste
nello studio dell’assetto cromosomico
degli embrioni per il trattamento delle pazienti
che accedono alle tecniche di procreazione assistita
in età avanzata o dopo aborti e fallimenti
d’impianto reiterati. In pratica si prende
un embrione, si estrae una delle sue cellule
e si analizza cercandone delle anomalie cromosomiche,
al fine di stabilirne la " normalità"
o l’"anormalità" e la
conseguente possibilità di dare con esso
origine a una gravidanza a termine, rara con
queste pazienti. Negli ultimi otto anni –
secondo quanto emerso durante il convegno e
ampiamente riportato in uno dei più recenti
numeri di “Nature” – la tecnica
ha però dimostrato la sua inconsistenza,
spesso contribuendo addirittura a diminuire
le possibili gravidanze.
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A
spiegarci i motivi di questo sorprendente fallimento
è il medico newyorchese Glenn Schattmann,
noto specialista nel campo dell’infertilità
e docente di Endocrinologia riproduttiva al
Weill Medical College della Cornell University.
Schattmann, si badi bene, come la quasi totalità
dei medici e ginecologi statunitensi non soltanto
è un convinto sostenitore della pratica
ma esegue diagnosi preimpianto sulle donne che
ogni anno ricorrono alla fecondazione assistita
per avere figli nel suo studio. Proprio per
questo la sua testimonianza è ancor più
sbalorditiva: «Da tempo ormai –
ci spiega – vado sostenendo, appoggiato
dall’Asrm, che non c’è alcuna
prova evidente che lo screening preimpianto
aumenti le possibilità di successo nelle
gravidanze a seguito di fecondazione in vitro.
Ecco perché sarebbe un errore gravissimo
quello di continuare, come medici, a illudere
le nostre pazienti e, quel che è peggio,
far correre loro rischi inutili».
Rischi per le pazienti, menzogne dei medici:
eppure le varie tecniche della diagnosi preimpianto,
anche nel nostro Paese, continuano a essere
proposte come metodo sicuro per aumentare i
successi nelle gravidanze da procreazione assistita...
«È dimostrato da diversi studi
compiuti negli Usa – continua Schattmann
– che lo screening su una sola cellula
di un embrione non può essere il fattore
in base al quale decidere se quello sarà
"normale" o "anormale".
Il risultato del test in pratica, non prova
nulla circa il futuro di quell’embrione:
il che è confermato dagli errori diagnostici
della pratica, che sono da considerarsi intorno
al 10% sia per quanto riguarda i falsi positivi
(anormali secondo il test, sani in realtà)
sia per i falsi negativi (sani secondo il test,
anormali nei fatti). Tutto questo senza contare
i danni che il prelievo stesso di materiale
cellulare può causare e spesso causa
all’embrione e alla madre: l’impiego
della tecnica ha dimostrato più volte
di incidere sulle riuscita della gravidanza».
Dati allarmanti, lontani anni luce dalla favola
dei figli sani a colpo sicuro e della tutela
della salute della donna di cui si parla nel
nostro Paese (Notizia e commento ripresi
da Viviana Daloiso, “Avvenire È
vita” online, 14 novembre 2007)
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Italia: sì
alla diagnosi genetica pre-impianto, contro le
Linee guida della legge 40/2004 |
Dicembre
2007. Dopo la sentenza dello scorso settembre
del tribunale di Cagliari, che aveva autorizzato
la diagnosi genetica pre-impianto per una coppia
di talassemici che avevano fatto ricorso alla
fecondazione artificiale, ora un’ordinanza
del Tribunale di Firenze ha stabilito, per un’altra
coppia, il diritto di «produrre più
embrioni così da evitare di reiterare
i protocolli di stimolazione ovarica gravosi
e invasivi sulla integrità psico-fisica;
di avere trasferito unicamente gli embrioni
non affetti ovvero portatori sani della specifica
patologia alla luce di quanto risultante dall'esecuzione
della diagnosi genetica pre-impianto (PDG) al
fine di conseguire una gravidanza che sia cosciente
e responsabile e tutelando in tal modo il diritto
alla salute della madre e del nascituro, nonchè
il diritto ad autodeterminarsi in maniera consapevole»
(Notizia ripresa da http://www.ricercagiuridica.com/sentenze/index.php?num=2527&search=).
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Riportiamo
il commento di E. Roccella, Chi
vuol dividere le persone tra giuste e sbagliate
Avvenire 26 dicembre 2007: «La
legge 40 sulla procreazione assistita afferma
esplicitamente che è vietata «ogni
forma di selezione a scopo eugenetico degli
embrioni e dei gameti», ma il giudice
ha disinvoltamente stabilito altrimenti. Non
entrerò nelle delicate questioni di diritto
e di competenze che l’ordinanza pone,
come l’equilibrio tra i poteri in democrazia,
o la nuova tendenza alla 'giurisprudenza creativa',
che sta emergendo. Certo, sarebbe meglio che
le leggi le facessero i parlamentari, i quali
ne rispondono agli elettori; i giudici invece,
che non sono eletti da nessuno, le norme dovrebbero
limitarsi ad applicarle. Il cuore del problema,
però, è un altro. Dobbiamo stabilire
se accettiamo o no che la vita dei disabili,
dei malati, di chi è portatore di un
qualunque 'difetto' genetico abbia lo stesso,
identico valore di quella dei cosiddetti sani.
[...] Non diteci più, per favore, che
la selezione si limiterà ai casi gravi,
perché nei Paesi dove è ammessa
si allarga in modo irrefrenabile, e non saperlo
vuol dire essere in malafede o non leggere le
notizie dall’estero. In Inghilterra già
si eliminano gli embrioni che abbiano una buona
probabilità di sviluppare malattie da
adulti, come il cancro al seno o al colon; dal
Times del 15 dicembre abbiamo appreso l’ultima
novità, il diritto di rifiutare gli embrioni
che possano soffrire di un livello di colesterolo
alto. Si tratta ormai, esplicitamente, di volere
bambini che il mondo anglosassone definisce
«designer babies», cioè figli
progettati su misura, con caratteristiche decise
dai genitori. Non conta la gravità della
malattia genetica, ma il desiderio (c’è
chi la chiama «autodeterminazione»)
degli adulti, e non importa che le patologie
individuate siano lievi e perfettamente curabili.
I sostenitori della modifica alla legge 40,
invece di definire crudele il divieto di diagnosi
preimpianto, provino a misurare il proprio livello
di colesterolo, e a dirsi che, se è al
di sopra della norma, questo in alcuni Paesi
sarebbe stato motivo sufficiente per essere
scartati in fase embrionale».
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Italia. Norma “anti-omofobia”? |
Dicembre
2007. La cosiddetta “norma anti-omofobia”
inserita nel testo del decreto legge approvato
al Senato sulla sicurezza in materia di norme
anti-razzismo, ha accesso forti polemiche. La
norma si ispira al Trattato di Amsterdam, un
accordo internazionale sottoscritto dall'Italia
e dagli altri paesi europei nel 1997, che prevede
l'adozione di misure atte a combattere le discriminazioni
fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica,
la religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l'età o le tendenze sessuali.
In realtà, già l’art. 3,
primo comma della Costituzione Italiana recita:
«Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali».
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«La
norma anti-omofobia contenuta nel decreto legge
si riferisce, però, alla discriminazione
fondata sulle «tendenze sessuali»,
quasi che queste avessero una 'qualità'
paragonabile alla razza o all’origine
etnica. Nonostante le infuocate rassicurazioni
del senatore Latorre, si tratta di un nuovo
reato per il quale – a discrezione di
qualche giudice – potrebbe essere condannato
addirittura fino a tre anni chi si esprimesse
contro l’adozione di un bimbo da parte
di persone dello stesso sesso» (da
“Avvenire” 7 dicembre 2007).
È naturalmente doveroso condannare ogni
discriminazione sessuale delle persone. Ma questo
non significa che si sia obbligati ad accettare
e a promuovere per legge tutte le azioni che
certe persone vorrebbero compiere sulla base
della loro tendenza sessuale. La condizione
sessuale di una persona, che può essere
maschio o femmina, non si identifica con il
suo orientamento sessuale. I diritti delle persone
omosessuali riguardano il loro essere persone
non il loro essere omosessuali. Le differenze
di razza, cultura e sesso non sono equiparabili
alle differenze tra orientamenti sessuali. Per
questo l’idea che vi possa essere un “reato
di opinione” sui diritti delle persone
omosessuali è controversa: «Una
cosa infatti è offendere o recare vio¬lenza
agli omosessuali, ben altra cosa è ri¬tenere
che gli omosessuali siano inadatti all’adozione
o che l’omosessualità sia una patologia.
[...] Quando si criminalizzano le opinioni,
anziché le azioni, si produce l’effetto
perverso di soffocare il libero di¬battito
intellettuale, sociale e politico (nel nostro
caso sui diritti degli omosessuali, se davvero
tali diritti esistano e su come e¬ventualmente
possano essere tutelati) e si favorisce l’accettazione,
passiva e acritica, di idee magari politicamente
corrette, ma non per questo tali da doversi
ritenere fon¬date» (F. D’Agostino,
Si soffoca il civile dibattito se si criminalizzano
le opinioni anziché le azioni, “Avvenire”
11 dicembre 2007). Qualcuno ha cercato
di confutare la precedente argomentazione sostituendo,
alla parola “omosessuali”, la parola
“ebrei”. Ma la mossa non funziona.
Gli ebrei, infatti, godono dei diritti fondamentali
non in quanto ebrei ma in quanto persone umane.
Se invece gli ebrei avessero diritti in quanto
ebrei e non in quanto persone, allora cadremmo
automaticamente nella discriminazione razziale
di tutti coloro che, non essendo ebrei, non
possono godere dei diritti che possiedono solo
gli ebrei. Se le persone omosessuali vogliono
vivere insieme possono farlo. Ma se decidono
di adottare un bambino dovrebbero accettare
che la società discuta, nell’interesse
del bambino, l’opportunità di questa
scelta. Con una norma anti-omofobia questa discussione
viene chiusa prima ancora di essere aperta,
criminalizzando gli interlocutori e le loro
opinioni. Chissà, forse per etero-fobia.
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Moratoria contro
la pena di morte... e sull’aborto? |
Dicembre
2007. L’Assemblea generale dell’Onu
ha approvato la risoluzione per la moratoria
contro la pena di morte nel mondo con 104 voti
a favore, 54 contro e 29 astenuti. La risoluzione
è stata approvata alle 11.45, ora di
New York. È stato un successo del partito
pro-moratoria che ha conquistato 5 voti in più
rispetto al pronunciamento della terza Commissione
in novembre. A metà novembre il voto
alla III Commissione dell’Onu aveva visto
99 paesi favorevoli (due più del quorum
di 97), 52 contrari e 33 astenuti. Il fronte
del no, in quell’occasione come oggi,
è stato guidato dall’Egitto, supportato
da Singapore, Sudan e Iran, anche se i pilastri
del fronte dei "Friends of Death Penalty"
restano Usa e Cina. Nonostante gli Stati Uniti
abbiano votato contro, gli analisti fanno notare
che anche Oltreoceano il vento sta cominciando
a cambiare, citando come prova la decisione
dello Stato del New Jersey di abolire per legge
la pena capitale. La Russia ha invece votato
a favore della risoluzione per la moratoria
universale. In 51 Paesi le esecuzioni capitali
sono legge. Tra questi 11 sono democrazie liberali.
In Iran tra i giustiziati anche i minorenni
(Notizia ripresa da http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200712articoli/28577girata.asp).
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Sulla
scia dell’unanime entusiasmo dell’opinione
pubblica alla notizia della moratoria sulla
pena capitale, in un editoriale intitolato Appello,
ora la moratoria per l’aborto su “Il
Foglio” del 19 dicembre, Giuliano Ferrara
ha lanciato la proposta di una moratoria sull’aborto.
1 miliardo i bimbi morti dall'introduzione della
prima legge sull'interruzione volontaria della
gravidanza in Urss nel 1920, 130.033 gli aborti
dell'anno scorso in Italia 54 milioni gli aborti
effettuati ogni anno nel mondo, 234.801 gli
aborti in Italia nel 1982, l'anno in cui si
raggiunse il picco delle interruzioni volontarie.
Riportiamo la quasi totalità dell’editoriale
di Ferrara: «Questo è un appello
alle buone coscienze che gioiscono per la moratoria
sulla pena di morte nel mondo, votata ieri all'Onu
da 104 paesi. Rallegriamoci, e facciamo una
moratoria per gli aborti. Infatti per ogni pena
di morte comminata a un essere umano vivente
ci sono mille, diecimila, centomila, milioni
di aborti comminati a esseri umani viventi,
[...] in nome di una schizofrenica e grottesca
ideologia della salute della Donna, che con
la donna in carne e ossa e con la sua speranza
di salute e di salvezza non ha niente a che
vedere, alla mannaia dell’asportazione
chirurgica o a quella del veleno farmacologico
via pillola Ru486. [...] La pena di morte per
la cui virtuale moratoria ci si rallegra oggi
è di due tipi: conseguente a un giusto
processo o a sentenze di giustizia tribale,
compresa la sharia. Sono due cose diverse, ovviamente.
Ma la nostra buona coscienza ci induce a complimentarci
con noi stessi perché non facciamo differenze,
e condanniamo in linea di principio la soppressione
legale di un essere umano senza guardare ai
suoi motivi, che in qualche caso, in molti casi,
sono l’aver inflitto la morte ad altri.
Bene, anzi male. Il miliardo e più di
aborti praticati da quando le legislazioni permettono
la famosa interruzione volontaria della gravidanza
riguarda persone legalmente innocenti, create
e distrutte dal mero potere del desiderio, desiderio
di aver figli e di amare o desiderio di non
averli e di odiarsi fino al punto di amputarsi
dell’amore. E' lo scandalo supremo del
nostro tempo [...]. Rallegriamoci dunque, in
alto i cuori, e dopo aver promosso la Piccola
Moratoria promuoviamo la Grande Moratoria della
strage degli innocenti. Si accettano irrisioni,
perché le buone coscienze sonno usare
l'arma del sarcasmo meglio delle cattive, ma
anche adesioni o un appello che parla da solo,
illuministicamente, con l'evidenza assoluta
dei fatti di esperienza e di ragione».
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Italia: si accende
il dibattito sull’aborto e sulla legge 194 |
Dicembre
2007. La proposta di moratoria contro l’aborto
lanciata dalle pagine del “Foglio”
da Giuliano Ferrara ha acceso il dibattito sull’aborto
e sulla legge 194, che regolamenta, dall’ormai
lontano 1978, le interruzioni di gravidanza
in Italia. Tra le varie posizioni troviamo quella
di chi sostiene che la legge 194 è una
“conquista di civiltà”, perché
ha consentito alle donne di scegliere liberamente
sul proprio corpo, e quella di chi ritiene,
invece, che la legge 194 non è mai stata
una legge “abortista”, prevedendo
l’aborto solo come soluzione estrema di
fronte a pericolo per la salute fisica o psichica
della gestante (art. 6). Da qui la proposta,
da parte dei primi, di “non toccare”
la 194, da parte dei secondi di applicarla integralmente
anche e soprattutto nella sua fase preventiva
(art. 2 comma d). Una terza posizione, invece,
ritiene la legge 194 una legge gravemente iniqua,
perché legittima l’uccisione di
un essere umano, fragile e indifeso come è
il bambino non ancora nato. Questa terza posizione
condivide le strategie politiche della seconda,
finalizzate ad applicare la legge 194 in senso
non abortista, ma aggiunge che, nel fare ciò,
bisogna dichiarare con fermezza e convinzione
che una legge che autorizza l’uccisione
dei bambini non ancora nati è una legge
gravemente iniqua. E una legge gravemente iniqua,
anche se bene applicata, non può mai
diventare una “buona” legge, come
pure pensano alcuni sostenitori della seconda
posizione.
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È
innegabile costatare che l'aborto non è
affatto «una scelta privata della persona»,
perché coinvolge tragicamente la vita
di un soggetto di diritto del tutto indifeso.
L'aborto è la soppressione cruenta ed
omicida, l'uccisione ovvero l’assassinio,
di un individuo umano che non è ingiusto
aggressore, non è in condizioni di nuocere,
non porta su di sé nessuna responsabilità
giuridica o morale. Tale uccisione è
oltretutto perpetrata senza che alla vittima
sia consentito di difendersi. Se suscita un
moto spontaneo di commozione la visione delle
immagini delle ultime ore di un condannato alla
sedia elettrica, almeno uguale dovrebbe essere
l'indignazione di Amnesty International di fronte
alle immagini del «Grido silenzioso»,
il documentario che mostra gli ultimi istanti
di vita di un feto che viene dilaniato dagli
strumenti del medico abortista. La distinzione
tra «uomini già nati e non ancora
nati» è un clamoroso esempio di
discriminazione tra persone, che sorprende ascoltare
sulla bocca di chi sostiene di battersi contro
ogni razzismo e "discriminazione".
Esiste poi un'altra sconcertante contraddizione
nel variegato movimento contrario alla pena
capitale. Al suo interno, molti ritengono che
l'aborto legale sia lecito perché voluto
dalla maggioranza della popolazione. Ma se questi
sono i parametri per definire una legge giusta,
allora si dovrebbe riconoscere che negli USA,
ed in molti altri paesi del pianeta, la maggioranza
della popolazione è favorevole alla pena
capitale (Ripreso da Julius di Lucedio
su http://www.legnostorto.com/).
Ma
come si è arrivati a legalizzare l’aborto
in Italia? Riportiamo alcuni brani tratti da
A. Socci, Con quale “balla”
propagandistica si ottenne la legalizzazione
dell’aborto in Italia, “Libero”
6 gennaio 2008. «Secondo la proposta
di legalizzazione fatta dal Psi al Senato nel
1971 erano ogni anno dai 2 ai 3 milioni gli
aborti clandestini con circa 20 mila donne morte
(nell’analogo progetto presentato alla
Camera le morti lievitavano inspiegabilmente
a 25 mila). Sui giornali le cifre oscillavano
in modo abnorme: il “Corriere della sera”
del 10 settembre 1976 per esempio dava da 1,5
a 3 milioni di aborti clandestini l’anno.
E “Il Giorno” del 7 settembre 1972
da 3 a 4 milioni l’anno. In sostanza si
davano i numeri (da 1,5 a 4 milioni), del tutto
incontrollati e mai provati. Ma questa ossessiva
campagna produsse la sensazione dell’emergenza
nazionale e fece passare la legge 194. Eppure
bastava qualche piccolo accertamento per scoprire
la verità. Secondo calcoli fatti da statistici
ipotizzando 3 (o addirittura 4) milioni di aborti
clandestini l’anno ne derivava un tasso
medio di abortività in base al quale
– alla fine - “tutte le donne italiane
avrebbero praticato nella loro vita almeno 8
aborti procurati clandestini” (Palmaro).
Uno scenario ovviamente assurdo. Che i “milioni
di aborti clandestini” ogni anno fossero
un argomento totalmente infondato, è
provato, in modo indiscutibile, oggi, dai dati
ufficiali sugli aborti legali in Italia, fermi
attorno ai 130 mila l’anno (dal 1978 hanno
raggiunto al massimo la cifra di 240 mila all’anno,
ma attestandosi subito molto al di sotto dei
200 mila). Se questo è il numero delle
donne che interrompono la gravidanza oggi che
l’aborto è facile, legale e assistito,
in qualunque ospedale, e addirittura propagandato,
è ovvio che dovevano essere un numero
molto inferiore a praticarlo quando era illegale,
si rischiava il carcere, la faccia e la pelle,
ed era difficile trovare le “mammane”
che lo praticassero. Ma passiamo al cuore del
problema. L’aborto clandestino –
dicevano – provocava ogni anno in Italia
la morte di 25 mila donne. Per questo fu reso
legale e assistito. Ma era vero quel dato? [...]
Dall’Annuario Statistico del 1974 risulta
che le donne in età feconda (cioè
dai 15 ai 45 anni) decedute nell’anno
1972, cioè prima della legge 194, furono
in tutto 15.116. Già il fatto che le
morti totali siano la metà delle presunte
morti per aborto parla chiaro. Ma poi si scopre
che di quelle 15 mila solo 409 risultavano morte
di gravidanza o parto. Naturalmente fra tutte
le morti “per gravidanza o parto”
quelle dovute ad aborto clandestino erano una
piccola parte: qualche decina ogni anno. Una
cifra certo triste (umanamente anche una singola
morte è una tragedia), ma non una emergenza
nazionale. Erano molto più rilevanti,
per capirci, le altre cause di decesso delle
donne come le morti per parto, per infortuni
domestici, per incidenti o per omicidio. Le
cifre che abbiamo visto per l’anno 1972
risultano costanti. Infatti nel 1969 le donne
morte in età fertile per complicazioni
da gravidanza, parto e puerperio furono in totale
550 (Annuario statistico italiano, 1971); 481
nel 1970 (Annuario 1972); 460 nel 1971 (Annuario
1973); 370 nel 1973 (Annuario 1975). E ogni
anno le vittime dell’aborto clandestino
erano poche unità.
[...] dall’entrata in vigore della legge
194 la mortalità delle donne in età
feconda, non ha avuto alcuna significativa diminuzione
statistica improvvisa, quindi la 194 non ha
modificato alcunché. [...] In realtà
non ha portato neanche alla sparizione dell’aborto
clandestino. Infatti sull’ “Espresso”
del 10 novembre 2005, Chiara Valentini scrive
che la relazione del ministro della Salute nell’anno
2005 stima circa in 20 mila gli aborti clandestini.
E la stessa cifra è ribadita dal demografo
Massimo Livi Bacci. Dunque la 194 è clamorosamente
fallita: non ha estirpato neanche la piaga della
clandestinità. E lo stesso fenomeno è
accaduto in Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi,
in Germania, Giappone, Russia Polonia, Romania
e via dicendo. Ma se la 194 non ha cancellato
l’aborto clandestino – a 30 anni
dalla sua approvazione – cos’ha
prodotto? Rendere legale, facile, assistito
e gratuito l’aborto può solo banalizzarlo
e moltiplicarlo. E così è stato.
Da 20-30 mila clandestini a 150-200 mila legali.
Due ricercatori dell’Università
di Trento, Erminio Guis e Donatella Cavanna
(“Maternità negata”, Milano
1988) hanno scoperto che il 32 per cento delle
donne che hanno abortito non l’avrebbe
fatto se non ci fosse stata la legge 194 a permetterlo.
Quindi migliaia di aborti che – in mancanza
della 194 – sarebbero stati evitati. “Risultati
del tutto analoghi” aggiunge Mario Palmaro
“sono stati condotti in Francia. Il significato
di questi dati è evidente: la legge incide
in modo decisivo sui comportamenti”. E’
vero che c’è stata una relativa
diminuzione degli aborti legali dal 1978 ad
oggi, ma intanto bisogna considerare la diffusione
di abortivi chimici. In secondo luogo il fenomeno
è tutto italiano ed è dovuto a
una forte sensibilizzazione sui temi della vita
fatta dalla Chiesa italiana (basti dire che
i Centri di aiuto alla vita, anche concretamente,
hanno salvato circa 80 mila bambini e altrettante
mamme). Infatti negli altri Paesi europei, come
Francia e Inghilterra, dove la presenza cattolica
(e la cultura della vita) è irrilevante,
gli aborti legali non sono in discesa, ma semmai
in salita. Infine 30 anni fa si costruì
un’assordante campagna sulle “morti
per aborto clandestino”, ma perché
oggi non si parla delle morti per aborto praticato
legalmente e assistito? Perché tanto
silenzio sulle morti che hanno fatto clamore
in America in relazione alla pillola abortiva
(New York Times, 23.11.2005)? La sorte delle
donne non interessa più?
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Italia: Regione
Lombardia: niente interruzioni di gravidanza dopo
le 22 settimane e 3 giorni |
Gennaio
2008. Stop agli aborti dopo le 22 settimane
e 3 giorni e più risorse (per 8 milioni
di euro) ai consultori pubblici e accreditati
per fornire alle donne in difficoltà
per una gravidanza l’opportunità
di un sostegno plurispecialistico (medico, psicologico
e sociale) che favorisca la rimozione degli
ostacoli alla nascita del bambino. Sono le misure
adottate dalla Regione Lombardia per dare attuazione
alla legge 194 illustrate ieri dal governatore
Roberto Formigoni.
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Dalla
comunità scientifica sono venute le conferme
alla scelta della politica regiona-le: «L’atto
di indirizzo – ha detto Alessan¬dra
Kustermann, responsabile del Servizio diagnosi
prenatale della Mangiagalli e di Milano –
rappresenta un passo avanti nel¬la attuazione
della legge 194: le donne non desiderano abortire
ma essere aiutate». E sottolinea che «non
è vero che quando vie¬ne diagnosticata
un’anomalia, la strada ver¬so l’aborto
è obbligata: da noi in Mangia¬galli
– ha puntualizzato la Kustermann –
se una donna sceglie di interrompere la gra¬vidanza,
altre quattro preferiscono conti-nuarla, se
sono proposti percorsi assisten¬ziali multidisciplinari
adeguati». Favorevole all’atto di
indirizzo regionale è anche Fabio Mosca,
direttore della Neonatologia e terapia in¬tensiva
neonatale della stessa clinica milanese: «Il
limite alla vita autonoma del feto che la legge
non indica e che trent’anni fa era forse
di 25-24 settimane, ora è all’inizio
della 23ª» (E. Negrotti,
Lombardia, segnali a favore della vita, “Avvenire”
23 gennaio 2008).
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Italia: lettera
all’ONU per moratoria sull’aborto |
Gennaio
2008. Prosegue la campagna per la moratoria
internazionale sull’aborto sottoscritta
da diverse personalità del mondo scientifico,
culturale e giuridico in Europa e negli Stati
Uniti. Martedì sul quotidiano “Il
Foglio” è stata infatti pubblicata
una lettera di Giuliano Ferrara indirizzata
al Segretario generale dell'Organizzazione delle
Nazioni Unite, Ban Ki-moon, contenente un appello
in difesa della vita. Pubblichiamo, a seguire,
il testo della lettera in inglese e l’elenco
di alcuni dei firmatari.
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Dear
Dr Ban Ki-Moon
Secretary General of the United Nations
Dear
Honourable Prime Ministers and Heads of State
of the United Nations
Over
the last 60 years, notable measures have been
adopted and efforts made to strengthen the legal
framework designed to ensure the ideals expressed
in the Universal Declaration of Human Rights
that was approved in Paris on 10 December 1948.
Over the last thirty years, more than a billion
abortions have been performed, at an average
of roughly 50 million a year. According to the
latest report by the United Nations Population
Fund, in China, tens of millions of unborn children
are in danger of being aborted - through incentives
or coercion - in the name of family planning
and national demographics. In India, millions
of babies have been eliminated prior to birth
over the last 20 years for sexist reasons. In
Asia, the demographic balance is threatened
by mass infanticide, which is taking on extraordinary
proportions. In North Korea, the use of selective
abortion is leading to a radical way of eliminating
all forms of disability. In the western world,
abortion has also become the tool of a new form
of eugenics that is violating the rights of
unborn children and equality among mankind.
Originally, prenatal diagnosis was designed
to help people prepare and care for their unborn
children, but it is becoming a way a improving
the human race and, in doing so, destroying
the universalistic ideals that underlie the
Universal Declaration of 1948.
We are calling on you to look at our request
for a moratorium on public policies that encourage
any form of unjustified or selective enslavement
of a human being in the womb through the arbitrary
use of the power to annihilate, which violates
the right to birth and to motherhood. Article
3 of the Universal Declaration states that "Everyone
has the right to life, liberty and security
of person". We are calling on the representatives
of national governments to back a key amendment
to this part of the declaration, by adding in,
after the first comma, the words "from
conception to natural death". Indeed, the
Universal Declaration refers to "equal
and inalienable" human rights and solemnly
proclaims the "inherent dignity...of all
members of the human family" (Preamble).
Science has shown us - and some of the major
discoveries in the field of genetics come after
the declaration - the irrefutable presence from
the first stage of development of the human
genetic pattern in the embryo, a pattern that
is unique and unrepeatable. In 1984, the Warnock
Commission in the UK determined that 14 days
after conception an embryo is not only a human
being, but also entitled to the right not to
be used for experimental purposes.
Governments must preserve and protect these
natural rights, which include "the right
to inherit a genetic pattern which has not been
artificially changed".
The 1948 Declaration was the response by the
free world and international law to the crimes
against humanity that had been prosecuted at
Nuremberg three years earlier. In 1948, in response
to the eugenic practices of the Nazis, the World
Medical Association adopted the Declaration
of Geneva, which stated: "I will maintain
the utmost respect for human life from its beginning".
Article 6 of the United Nations' International
Covenant on Civil and Political Rights (1966)
sets out that "Every human being has the
inherent right to life". Today, selective
abortion and selective in vitro engineering
are the main ways in which eugenic, racial and
sexual discrimination are perpetrated against
human beings. These are the same human being
who are protected by article 6 of the United
Nations charter of rights. Sixty years on from
the Universal Declaration of Human Rights it
is necessary to renew the primary basis of our
humanitarian inspiration through an amendment
to article 3. As such, we call on all governments
to truly ensure the respect of the rights of
people, including above all the right to life.
Yours faithfully
René Girard, anthropologist
member of Académie française,
Lord David Alton, member of the House of Lords
Roger Scruton, British philosopher at Birbeck
College
John Haldane, Philosphy professor at St. Andrews
University
George Weigel, biographer of Karol Wojtyla and
Joseph Ratzinger
Robert Spaemann, Philosophy professor emeritus
at Universität of Munich
Sister Nirmala Joshi, General mother superior
of Missionaries of Charity
Paolo Carozza, member of Inter-American Commission
for Human rights
Josephine Quintavalle, director of Comment on
Reproductive Ethics
Paola Bonzi, Center for life help at Mangiagalli
Clinic of Milan
Pierre Mertens, president of the International
Federation for Spina Bifida, Jean-Marie Le Mené,
president of Fondation Jérôme Lejeune
Alan Craig, president of British Christian Peoples
Alliance
Richard John Neuhaus, chief editor of di First
Things
Carlo Casini, president of Movimento per la
vita Italy
Lucetta Scaraffia, professor of history at Università
La Sapienza di Roma
Bobby Schindler, Terri Schiavo’s brother
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