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Recensioni:
G. Di Gesù, Lo sciamano, il mago, il santo. Scienze umane e medicina:
un binomio inscindibile dell'era postmoderna, Plumelia, Palermo 2007, pp. 77, € 20
Il problema della cosiddetta “umanizzazione della
medicina” e del rapporto medico-paziente è, da sempre,
al centro delle riflessioni di bioetica. Tra i meriti di
questo denso e agile volume di Giuseppe Di Gesù c’è,
senza dubbio, quello di aver mostrato l’ambiguità
dell’espressione “umanizzazione della medicina”. La
medicina, infatti, non andrebbe a rigore “umanizzata”,
per il semplice motivo che essa è, già da sempre,
un’impresa autenticamente umana. Quello che oggi occorre
fare, piuttosto, è riscoprire le radici di un’arte,
prima ancora che di una scienza, ormai soffocata dal
“management sanitario”, e cioè dalla presenza, sempre
più invadente, di una gestione di tipo strettamente
economico (p. 23). Di Gesù, naturalmente, non ignora il
problema dei costi per l’assistenza sanitaria e, di
conseguenza, la necessità di una loro attenta ed
equilibrata “razionalizzazione” (p. 25). Tuttavia, non
si può negare che nel rapporto «tra la struttura
aziendale erogatrice del servizio e il cittadino», oltre
che «nel nuovo tipo di contratto professionale
instaurato tra medico e paziente, oggi viene a mancare,
ed è ormai definitivamente scomparsa, l’”anima”» (p.
32). Il tradizionale rapporto di fiducia tra medico e
paziente subisce un duro colpo da questa situazione. Di
Gesù dipinge con efficace realismo quella che è ormai
diventata una relazione difficile: da un lato «il
paziente e i suoi familiari assumono il ruolo di
osservatori attenti e critici», «sempre pronti a
cogliere quelli che ai loro occhi possono essere
valutati come eventuali errori» o omissioni del medico,
dall’altro lato il medico rischia di dover misurare
tutte le proprie mosse in funzione di aspettative che lo
investono di una scomoda infallibilità. Come
fronteggiare questa nuova emergenza? Come “rianimare” un
corpo professionale in fase terminale?
La proposta dell’Autore è di riattivare l’antica sinergia
tra medicina e attitudine alla cura e alla solidarietà,
attraverso quelle che oggi vengono chiamate “scienze
umane” (p. 38). Il “modo di essere medico”, infatti, «è
condizionato profondamente dalla formazione umana e
culturale, oltre che da quella strettamente professionale»
(p. 50). Il medico, in altri termini, non può ignorare la
complessità della società odierna, in cui l’intreccio tra
politica ed economia e l’evoluzione costante dei paradigmi
interpretativi della scienza lo chiamano a un impegno
supplementare di riflessione circa le possibilità e i
limiti del proprio intervento. Si giustifica, da questo
punto di vista, il capitolo dedicato da Di Gesù alle
principali prospettive che hanno animato il dibattito
scientifico e filosofico dello scorso secolo (pp. 39-45).
Va però ricordato che la consapevolezza dei diversi (e
sempre rivedibili) parametri con cui la scienza offre alla
medicina le sue basi è una condizione necessaria ma non
sufficiente per “rianimare” l’attività del medico.
Storicamente, infatti, la medicina, a differenza delle
scienze c.d. “positive”, si è dovuta misurare in modo
diretto con la sofferenza, la malattia e la morte,
facendosi interprete delle ansie, delle paure e delle
incertezze sia dei medici sia dei malati (p. 47). Per
queste ragioni, «la società ha attribuito da sempre alla
figura del medico un ufficio di sacralità, consistente nel
compito, a lui delegato, [...] d’indurre le condizioni di
salute, mettendo in atto i mezzi e gli strumenti idonei ad
interrompere la serialità di causa ed effetto responsabili
della malattia, della sofferenza e della morte» (p. 48).
Ancora oggi, del resto, nell’immaginario popolare il
medico continua a rappresentare quello che, nelle varie
epoche storiche e nelle varie culture, erano stati lo
sciamano, il mago e il santo (pp. 51-57). Questi elementi
sociali, culturali e religiosi, aggiunge l’Autore, «non
possono essere ignorati, tanto meno sottovalutati; essi
vanno invece riconosciuti, identificati e analizzati, in
quanto patrimonio fondamentale dell’uomo e della società»
(p. 56). Come si può notare, a differenza di molti
colleghi, che spesso, pur rigettando la mentalità sacrale
antica finiscono per riproporla quando attribuiscono alla
scienza medica il ruolo di panacea dei mali dell’umanità,
qui Di Gesù mostra una lucida consapevolezza dello
spessore autentico della medicina. E infatti, se il
medico, storicamente, comincia a ritagliarsi una sua
autonomia cercando di «ridurre quanto più possibile lo
spazio destinato agli interventi straordinari e
ultraterreni», tuttavia, «nessuno meglio di lui» conosce i
limiti del suo campo di azione. E per questo, prosegue Di
Gesù disegnando la figura del buon medico, egli «accetta
di condividere le proprie responsabilità con le diverse
entità del mondo soprannaturale», ricordando alla società
che l’eventuale insuccesso del suo intervento non deve
essere attribuito necessariamente alla sua responsabilità
(p. 51). Con un’intuizione senz’altro originale, L’Autore
vuole dirci, in altri termini, che mentre viene tenuto a
distanza affinché la medicina possa nascere e progredire,
il mondo soprannaturale deve al tempo stesso essere tenuto
costantemente presente come la cornice dentro cui essa si
muove, rendendola così consapevole dei propri limiti. Ci
sembra, questo, un modo felice di coniugare progresso
scientifico, aspettative di guarigione e senso della
finitezza umana: il medico, in effetti, ha scelto una
professione in cui alla fine perde sempre, perché alla
fine c’è la morte. Ma, nonostante ciò, egli ha deciso di
porsi al servizio della vita.
Luciano Sesta |
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