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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 5 - Gennaio 2008 
     
 

Recensioni:

G. Di Gesù, Lo sciamano, il mago, il santo. Scienze umane e medicina: un binomio inscindibile dell'era postmoderna, Plumelia, Palermo 2007, pp. 77, € 20

 

 

Il problema della cosiddetta “umanizzazione della medicina” e del rapporto medico-paziente è, da sempre, al centro delle riflessioni di bioetica. Tra i meriti di questo denso e agile volume di Giuseppe Di Gesù c’è, senza dubbio, quello di aver mostrato l’ambiguità dell’espressione “umanizzazione della medicina”. La medicina, infatti, non andrebbe a rigore “umanizzata”, per il semplice motivo che essa è, già da sempre, un’impresa autenticamente umana. Quello che oggi occorre fare, piuttosto, è riscoprire le radici di un’arte, prima ancora che di una scienza, ormai soffocata dal “management sanitario”, e cioè dalla presenza, sempre più invadente, di una gestione di tipo strettamente economico (p. 23). Di Gesù, naturalmente, non ignora il problema dei costi per l’assistenza sanitaria e, di conseguenza, la necessità di una loro attenta ed equilibrata “razionalizzazione” (p. 25). Tuttavia, non si può negare che nel rapporto «tra la struttura aziendale erogatrice del servizio e il cittadino», oltre che «nel nuovo tipo di contratto professionale instaurato tra medico e paziente, oggi viene a mancare, ed è ormai definitivamente scomparsa, l’”anima”» (p. 32). Il tradizionale rapporto di fiducia tra medico e paziente subisce un duro colpo da questa situazione. Di Gesù dipinge con efficace realismo quella che è ormai diventata una relazione difficile: da un lato «il paziente e i suoi familiari assumono il ruolo di osservatori attenti e critici», «sempre pronti a cogliere quelli che ai loro occhi possono essere valutati come eventuali errori» o omissioni del medico, dall’altro lato il medico rischia di dover misurare tutte le proprie mosse in funzione di aspettative che lo investono di una scomoda infallibilità. Come fronteggiare questa nuova emergenza? Come “rianimare” un corpo professionale in fase terminale?

La proposta dell’Autore è di riattivare l’antica sinergia tra medicina e attitudine alla cura e alla solidarietà, attraverso quelle che oggi vengono chiamate “scienze umane” (p. 38). Il “modo di essere medico”, infatti, «è condizionato profondamente dalla formazione umana e culturale, oltre che da quella strettamente professionale» (p. 50). Il medico, in altri termini, non può ignorare la complessità della società odierna, in cui l’intreccio tra politica ed economia e l’evoluzione costante dei paradigmi interpretativi della scienza lo chiamano a un impegno supplementare di riflessione circa le possibilità e i limiti del proprio intervento. Si giustifica, da questo punto di vista, il capitolo dedicato da Di Gesù alle principali prospettive che hanno animato il dibattito scientifico e filosofico dello scorso secolo (pp. 39-45). Va però ricordato che la consapevolezza dei diversi (e sempre rivedibili) parametri con cui la scienza offre alla medicina le sue basi è una condizione necessaria ma non sufficiente per “rianimare” l’attività del medico. Storicamente, infatti, la medicina, a differenza delle scienze c.d. “positive”, si è dovuta misurare in modo diretto con la sofferenza, la malattia e la morte, facendosi interprete delle ansie, delle paure e delle incertezze sia dei medici sia dei malati (p. 47). Per queste ragioni, «la società ha attribuito da sempre alla figura del medico un ufficio di sacralità, consistente nel compito, a lui delegato, [...] d’indurre le condizioni di salute, mettendo in atto i mezzi e gli strumenti idonei ad interrompere la serialità di causa ed effetto responsabili della malattia, della sofferenza e della morte» (p. 48).

Ancora oggi, del resto, nell’immaginario popolare il medico continua a rappresentare quello che, nelle varie epoche storiche e nelle varie culture, erano stati lo sciamano, il mago e il santo (pp. 51-57). Questi elementi sociali, culturali e religiosi, aggiunge l’Autore, «non possono essere ignorati, tanto meno sottovalutati; essi vanno invece riconosciuti, identificati e analizzati, in quanto patrimonio fondamentale dell’uomo e della società» (p. 56). Come si può notare, a differenza di molti colleghi, che spesso, pur rigettando la mentalità sacrale antica finiscono per riproporla quando attribuiscono alla scienza medica il ruolo di panacea dei mali dell’umanità, qui Di Gesù mostra una lucida consapevolezza dello spessore autentico della medicina. E infatti, se il medico, storicamente, comincia a ritagliarsi una sua autonomia cercando di «ridurre quanto più possibile lo spazio destinato agli interventi straordinari e ultraterreni», tuttavia, «nessuno meglio di lui» conosce i limiti del suo campo di azione. E per questo, prosegue Di Gesù disegnando la figura del buon medico, egli «accetta di condividere le proprie responsabilità con le diverse entità del mondo soprannaturale», ricordando alla società che l’eventuale insuccesso del suo intervento non deve essere attribuito necessariamente alla sua responsabilità (p. 51). Con un’intuizione senz’altro originale, L’Autore vuole dirci, in altri termini, che mentre viene tenuto a distanza affinché la medicina possa nascere e progredire, il mondo soprannaturale deve al tempo stesso essere tenuto costantemente presente come la cornice dentro cui essa si muove, rendendola così consapevole dei propri limiti. Ci sembra, questo, un modo felice di coniugare progresso scientifico, aspettative di guarigione e senso della finitezza umana: il medico, in effetti, ha scelto una professione in cui alla fine perde sempre, perché alla fine c’è la morte. Ma, nonostante ciò, egli ha deciso di porsi al servizio della vita.  

 

 

Luciano Sesta

 
     
     
 
 
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