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Recensioni:
Laura
Palazzani (a cura di), La bioetica e la differenza
di genere, Studium, Roma 2007, pp. 297
Solo di recente la problematica della differenza sessuale è
divenuta tema centrale di aperta discussione nell’ambito
della bioetica che si va accostando alla realtà
complessa del maschile e del femminile interrogandosi
sul senso e sul significato della differenza sessuale
nel tempo della post-modernità. Questa rinnovata
attenzione al tema della differenza nasce dalla
consapevolezza dell’estrema complessità dei nostri
tempi. Di fatto incontriamo, nel postmoderno, due
fenomeni tipici di vasta portata. Per un verso,
l’avanzamento biotecnologico le cui profonde
implicazioni in merito alla corporeità umana sono tali
da non potere essere trascurate. Le biotecnologie
applicate alla generazione umana tendono a impoverire la
corporeità in quanto la svincolano da quella realtà
originariamente inscritta in esso: il sesso. Le tecniche
di riproduzione artificiale rendono possibile la
riproduzione sotto forma di clonazione umana, che tende
a configurarsi nell’immaginario collettivo come una
variante riproduttiva asessuata ed agamica, trasformando
di fatto la differenza sessuale in una indifferenza.
Si tratta, infatti, di una procreazione che prescinde
dall’apporto genetico di due individui di sesso diverso.
E, inoltre, come le teoriche femministe hanno più volte
affermato, le tecniche di manipolazione dei gameti
offrono numerose possibilità alle donne di emanciparsi
dal destino anatomico del corpo e dal potere
maschilista, in quanto non escludono, in linea di
principio, la possibilità di una riproduzione senza il
concorso della cellula germinale maschile, come già
sperimentato in alcune specie di animali attraverso la
clonazione. A questo panorama si aggiunge anche la
diffusione di tecniche ectogenetiche (accolte con favore
positivo da molte teoriche femministe, tra le quali S.
Firestone, ma anche da un noto studioso come P. Singer)
che consentono la formazione e la crescita di embrioni
umani al di fuori del corpo materno in una sorta di
uteri artificiali. Il compito della bioetica è,
dunque, quello di tenere sempre aperta la domanda di
senso: perché la differenza sessuale è un valore
ed è, dunque, superiore all’indifferenza sul
piano morale?
E, inoltre, essendo la differenza
sessuale radicata nel bagaglio biologico oltreché
antropologico della specie umana, la tecnologia può
essere compatibile con queste radici dell’umano o può
procedere come se tale dato non ci fosse, sulla base di
una visione astratta e vuota del soggetto?
Per un altro verso, l’altro fenomeno che incontriamo è di
carattere culturale e riguarda proprio l’interpretazione
della differenza sessuale come realtà che non ha in sé e
per sé un significato e un valore. Si tratta cioè
dell’idea che i confini tra uomini e donne non siano
naturali, ma prodotto unico di una costruzione culturale
che ha fatto sì che la differenza sessuale non trovasse
più corrispondenza in una realtà biologico-corporea e
fosse di fatto privata di un ancoraggio fisico. Tale linea
di pensiero impone di leggere le categorie dell’essere
uomo e dell’essere donna come un dato che non sarebbe
anche la conseguenza della struttura corporea e biologica
dell’individuo, ma esclusivamente il prodotto della
cultura e, dunque, come fatto culturale e storico diverso
da cultura a cultura.
In questo contesto di aperto dibattito bioetico su tale tema,
appare molto interessante il contributo che viene offerto
dal volume curato da Laura Palazzani sulla questione del
legame della bioetica con la differenza di genere. La tesi
fondamentale che pare sia condivisa e sostenuta dagli
autori e dalle autrici, che hanno dato luogo ai diversi
contributi contenuti nel libro, trova fondamento nella
ricerca di un senso e di un significato del dimorfismo
sessuale presente all’interno della stessa umanità. Nello
stesso tempo viene posta l’attenzione alla provocatoria
invasività delle biotecnologie riproduttive nei riguardi
della corporeità umana, e nel tentativo di recuperare
l’identità dell’umano si adotta il paradigma della
complementarità nella lettura della differenza sessuale,
paradigma molto diverso da quello tradizionale di per sé
maschilista e androcentrico.
Il volume si articola in tre parti suddivise in diversi
capitoli, tutti corposi e densi di spunti per la
riflessione; di questi capitoli solo alcuni vengono, in
questa sede, presi in considerazione non per maggiore
importanza o valore, ma per ovvie esigenze di sintesi.
Viene sostenuta l’importanza di una correlazione tra i
fattori biologici e quelli culturali nella formazione
dell’identità sessuale, nel senso di una corrispondenza e
non di un’opposizione tra la corporeità biologica,
comunemente definita sesso biologico, e il genere cioè
quella dimensione consaputa dell’appartenenza ad un sesso
piuttosto che ad un altro. Si pone altresì attenzione al
valore delle dinamiche interpersonali, diverse nei due
sessi, in relazione all’immagine materna nei primi tre
anni di vita (cap. II). Ora, tale linea di pensiero non
riduce la differenza tra uomini e donne a fattori
puramente culturali, ma rinvia costantemente al corpo nel
quale essa si trova già inscritta e a partire dal quale
ogni essere umano si interpreta e costruisce la propria
identità. Le filosofie della differenza sessuale hanno
ritenuto, infatti, di poter rivendicare la differenza del
femminile dal maschile proprio a partire da quel corpo di
donna, che è la radice femminile di ogni umano perché,
come afferma Adriana Cavarero, il vivente umano non è che
un caso di generazione sessuata all’interno di una natura
che genera per sessuazione e che, dunque, porta in sé
inscritta la differenza sessuale. Ciò comporta la
necessità di leggere le categorie del femminile e del
maschile superando la visione dicotomica natura/cultura,
poiché se la natura determina che sia il corpo a definire
l’identità sessuata e a differenziare il maschile dal
femminile, è anche vero che ogni donna così come ogni uomo
attribuirà alla propria dimensione dell’essere sessuato/a
dei significati assolutamente unici ed irripetibili,
declinando in modo singolare e personale la propria
esistenza e il proprio modo di essere al mondo. E,
inoltre, se «la biologia determina che siano soltanto le
donne a generare figli, ciò che le donne fanno di questa
esperienza non può essere determinato biologicamente»
(cap. II, p. 62).
Femminile e maschile sono, perciò, forme naturali
dell’umano con eguale dignità e valore e il loro
costruirsi avviene nel duplice senso della ricerca
dell’identità e della differenza.
Ne deriva una prospettiva critica nei riguardi di una
cultura dominante, che, a partire dalla fine degli anni
sessanta del Novecento, si è imposta nella lettura della
differenza sessuale dando luogo ad un paradigma dicotomico
maschile/femminile, impedendo che tali categorie possano
essere pensate in un’ottica di complementarità.
In primo luogo, la filosofia femminista di Simone De
Beauvoir sintetizza tale orientamento di pensiero nel noto
aforisma “Donna non si nasce, ma si diventa” e di
fatto si orienta verso una vera e propria rimozione
dell’ontologia della differenza sessuale, proponendo la
liberazione dal sesso come liberazione delle donne dal
destino anatomico del corpo e dalla maternità che ha
portato alla loro subordinazione al potere patriarcale
implicito nel modello universale dell’umano rappresentato
dall’uomo maschio, adulto, bianco e civilizzato (cap. II).
Significativa appare, inoltre, la critica delle istanze
postmoderne del femminismo radicale di matrice americana,
che sottolineano l’aspetto parziale e a volte fluido del
sesso e dell’abitare sessualmente il corpo, aprendo la
prospettiva dell’identità sessuale come scelta flessibile
e revocabile anche più volte nel corso della vita dalla
stessa persona. A partire dalla critica delle principali
tesi argomentative del femminismo post-moderno, sostenute
da
Donna J. Haraway, Rosi Braidotti e altre pensatrici, viene
rilevato come il corpo, invaso dalla tecnologia, stia
progressivamente perdendo l’identità che in modo specifico
lo caratterizza e lo definisce sessualmente (cap. XI). La
nozione di “identità sessuata” richiede, perciò, di essere
discussa e re-interrogata contro un riduzionismo
tecnologico, che la bioetica mostra di combattere quale
indebita pretesa culturale del nostro tempo.
Il femminismo post-moderno delinea, perciò, una linea di
pensiero che va al di là della differenza sessuale verso
la configurazione di una nuova soggettività “oltre il
gender” o, come si potrebbe meglio dire, “post-gender”,
per il fatto che si intende l’identità sessuale come un
dato, che non sarebbe originariamente ancorato al corpo,
ma costruito secondo codici che sono imposti dall’esterno.
Non si riconosce, pertanto, il corpo come polo di
riferimento fondante dell’identità di genere, nella misura
in cui si valorizza un nuovo soggetto che si pretende
anti-essenzialista e postmoderno. Si rende, perciò
incorporea la stessa differenza sessuale, ritenendo il
sesso un carattere non naturale del corpo e della sua
sessualità, ma un elemento variabile, mobile in un
orizzonte, che, come afferma Rosi Braidotti, è nomade
e fluttuante ( cap. XI ).
Il tempo del postmoderno espropria il corpo della natura
sessuata e lo espugna dalla sua identità femminile o
maschile che sia, dando luogo ad un indebolimento sempre
più progressivo delle due forme invarianti della coscienza
di essere al mondo come corpo, cioè come esseri sessuati,
forme di un’appartenenza che finora ha costituito lo
spazio perimetrale all’interno del quale si è costruita la
nostra identità. Il rimando alla corporeità ci consente,
invece, di riconoscere quella struttura originaria della
differenza sessuale nella quale trova espressione in modo
singolare ed unico ogni individualità, maschile o
femminile che sia, e di ripensare tale differenza secondo
il nuovo paradigma della complementarità (cap. III ).
È dato innanzitutto osservare che l’incontro con
l’alterità è originariamente segnato dalla differenza
inscritta nei corpi: di fatto incontriamo sempre persone
che hanno caratteristiche maschili o femminili, con una
loro specifica individualità. Pur tuttavia, per induzione
abbiamo la consapevolezza di ritrovarci dinanzi ad
individui dati nella loro irripetibilità e nella
irriducibile diversità. L’essere rispettivamente un uomo
e una donna è originariamente contrassegnato da
universalità e singolarità: la donna e l’uomo sono cioè
esseri umani singolari e irripetibili, ma segnati dalla
differenza inscritta nel corpo per natura sessuato,
pertanto, originariamente caratterizzati da quell’elemento
che accomuna sul piano universale gli uomini fra di loro
e le donne fra di loro (cap. VII ).
È dato, pertanto, osservare che la donna (e lo stesso
vale per l’uomo) è la stessa dappertutto eppure non è
uguale in nessun luogo. Se le differenze tra il maschile e
il femminile sono considerate unicamente come il prodotto
dei condizionamenti sociali non sarà possibile
individuare un “in sé” della sessualità umana.
Nell’osservazione della differenza sessuale dobbiamo,
perciò, sempre tenere presente la dimensione dialettica
dell’universale, inteso come struttura invariante della
differenza, tale per cui, incontrando delle donne, diciamo
appunto che sono donne, e del singolare, in quanto
l’essere donna o l’essere uomo è sempre anche vissuto dal
di dentro e dunque declinato in modo personale e singolare
(cap. VII).
Sul piano del divenire storico, è dato, inoltre,
constatare che il maschile e il femminile non sempre si
cor-rispondono secondo modalità relazionali autentiche o,
come direbbe Husserl, per Einfühlung,ma in senso
inautentico, in cui il proprio essere nel mondo non è
condiviso con quello dell’altro o vissuto in comune. L’Einfühlung,
intesa come esperienza intersoggettiva empatica,
costituisce lo sviluppo di una fenomenologia della
relazione ego-alter che prefigura tra il maschile e
il femminile qualcosa di comune nonostante le differenze.
L’empatia, infatti, fa sì che la relazione fra uomini e
donne possa tradursi in un percorso comune di reciproco
riconoscimento, che «consente di riconoscere da parte di
qualcuno l’altro come simile a se stesso» (p. 182). La
relazione tra il maschile e il femminile è autentica solo
se risulta contrassegnata dall’empatia, che custodisce
l’alterità delle due soggettività, salvandone le diverse
identità e cioè mantenendone la differenza. La relazione
intersoggettiva tra il maschile e il femminile esprime,
altresì, i segni di una vera e propria analogia, nel
senso attribuito dal filosofo Edmund Husserl: indica,
cioè, una relazione tra due poli, che da un lato
presuppone qualcosa di comune e dall’altro lato serve a
non omologare le due soggettività, ma a segnare una
differenza: che l’altro sia come me non vuol dire
che sia uguale a me.
In una relazione veramente autentica, possiamo
intuitivamente constatare che il maschile e il femminile
costruiscono insieme un progetto comune a partire da due
diverse visioni del mondo cioè a partire dalla
differenza, in ragione del fatto che l’analogia, come
afferma Husserl, non si predica dei distinti, ma della
loro relazione e del loro con-essere e, per questo, della
loro identità-differenza .
L’inautenticità del rapporto interpersonale tra i due
sessi richiama all’attenzione la modalità di correlazione
tipica nella dialettica servo-signore, già espressa da
Hegel, in cui l’assenza di un reciproco riconoscimento
mostra come l’alterità, che chiede di essere riconosciuta,
non possa essere affermata come un valore, al contrario
viene ridotta ad oggetto degli interessi della coscienza
e delle sue arbitrarie e soggettive configurazioni di
senso. Il dato che emerge da tale dialettica è, infatti,
un rapporto inautentico fra le due autocoscienze che
rimangono opposte e determinate in una vera e propria
contesa, dovuta al fatto che l’alterità è posta come
ostacolo e negatività e ciò esclude ogni rapporto con
l’altro, che sempre arricchisce ed impreziosisce ogni
esperienza umana. Nell’esperienza storica e politica delle
donne questo aspetto è probabilmente una costante che ha
dato luogo ad un vero e proprio conflitto della differenza
(cap.VI).
Da qui il bisogno di un’antropologia della persona in
ragione del fatto che l’agire morale affonda le radici in
una visione antropologica dell’umano. Per queste ragioni
affrontare il tema della differenza sessuale significa
occuparsi delle questioni relative all’essere dell’uomo e
all’essere della donna ossia pensare ad un’ontologia della
persona sessuata, che ci restituisca una visione
essenziale della natura umana, del corpo umano, della
sessualità, aspetti che caratterizzano l’esistenza di ogni
persona.
L’antropologia di cui ci stiamo occupando è
un’antropologia della differenza e non genericamente
un’antropologia dell’uomo. La persona non esiste in
astratto, ma nella concretezza della sua sessualità:
esiste come persona umana donna e come persona umana uomo
e tale differenza attiene al suo stesso corpo e ne
determina una irriducibile diversità. La persona che abita
il mondo nella concretezza del suo essere è uno spirito
incarnato, non uno spirito che dimora in un corpo, ma
una persona sessuata, una persona che è il suo corpo ed
esiste attraverso il suo corpo. Il sesso pertiene perciò
all’essere stesso dell’uomo e della donna cioè inerisce ad
una vera e propria ontologia duale della sessualità umana
se non altro perché, per usare un’espressione di Merleau
Ponty, “io sono il mio corpo”: essere corpo si
traduce in essere maschi o femmine.
L’istanza teleologica che muove lo sviluppo della
sessualità umana verso la determinazione della natura
sessuata dei corpi rivela il profondo valore di una verità
empirica: la natura sessuata dei corpi apre alla
dimensione relazionale della sessualità umana (cap.VIII).
Recuperare l’aspetto di espressività e relazionalità del
corpo significa, quindi, restituire alla relazione
maschile-femminile quel carattere comunicativo,
tipicamente specifico della sessualità umana, in cui i due
sessi si configurano come soggetti diversi, ma
complementari (cap. VIII). La dualità dell’umano è,
dunque, da intendersi nel senso di una ontologia
relazionale della differenza, per tali ragioni la
differenza dei sessi non si definisce, come afferma Laura
Palazzani, come modalità irriducibile, ma, al contrario,
nel senso di modalità relazionale (cap. VII). La
bioetica e il biodiritto sono, perciò, chiamati, afferma
la curatrice, a difendere la relazionalità tra
uomini e donne come condizione di possibilità della stessa
identità umana.
Maria Rita Fedele |
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