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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 6 - Maggio 2008 
     
 

Recensioni:

M. Sandel, Contro la perfezione. L'etica nell'età dell'ingegneria genetica, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 123, € 12

 

 

Il tema di cui si occupa il volume di Sandel è senza dubbio estremamente complesso e coinvolgente: il ruolo dell’etica nell’epoca dell’ingegneria genetica. Quest’ultima, se da un lato promette che «forse potremo presto curare e prevenire un gran numero di gravi malattie» (p. 22), dall’altro lato ci inquieta dal punto di vista morale, poiché la sue “terapie”, tese a migliorare la nostra muscolatura, la nostra statura e memoria, a selezionare il sesso dei figli, mirano «al di là della semplice salute, raggiungendo un’efficienza fisica o mentale che oltrepassa il mero buon funzionamento» (p. 24). L’ingegneria genetica, cioè, mette capo a un’etica della “perfezione”. Ma in che modo le pratiche di bioingegneria minacciano la nostra dignità, «per quali aspetti della nostra libertà […] esse rappresentano un pericolo?» (p. 37).

Nell’ambito sportivo, per esempio, l’etica della perfezione, oltre a mettere in pericolo la salute degli atleti con l’uso dei farmaci, viene a intaccare il telos dello sport, la sua stessa essenza, che è la «la celebrazione del talento e delle doti naturali» di un atleta (p. 53), riducendolo semplicemente a uno spettacolo in funzione dei fruitori e avvilendo quindi il senso della sua prestazione.

Ma l’ingegneria genetica e il suo ideale di miglioramento si insinuano, purtroppo, anche nel rapporto tra genitori e figli, laddove i primi vogliono «padroneggiare il mistero della nascita» selezionando il sesso dei figli o influendo sulle loro qualità atletiche e intellettuali (p. 58). Un atteggiamento discutibile, secondo Sandel, tanto quanto la propensione di alcuni genitori a fare i “supergenitori”, eccedendo nel controllo e nelle aspettative verso i figli, i quali finiscono, fin dalla più tenera età, per subire questa forte pressione. Per il nostro Autore, invece, «Apprezzare i figli in quanto doni significa accettarli come sono e non come oggetti di un nostro progetto» (p. 55).

Dopo aver brevemente esposto la storia e i caratteri dell’eugenetica, che mira a «migliorare la composizione genetica della specie umana» (p. 71), Sandel ha il grosso merito di indicarci palesemente le ragioni per cui deve preoccuparci il trionfo dell’ingegneria genetica, e non tanto come colpa “individuale”, quanto come «stile di pensiero e modo di essere» (p. 97). E infatti, in un mondo in cui i genitori “progettano” i loro figli, viene a mancare la componente dell’umiltà, cioè del riconoscimento dei figli come un “dono” gratuito. Se l’essere umano decide i propri tratti genetici, insieme a quelli dei suoi figli, allora si accresce notevolmente il peso della responsabilità per le proprie capacità e performances; responsabilità che sarebbero imputabili a Dio o alla natura nel momento in cui non fossimo «padroni del nostro retaggio genetico» (p. 90). In un mondo in cui ciascuno si sceglie le proprie caratteristiche, viene sicuramente a mancare la solidarietà per chi è in fondo alla scala sociale e svantaggiato. Difatti, laddove concepissimo la vita come governata dalla sorte, saremmo solidali per coloro che non sono stati premiati dalla “lotteria genetica”. Ma se ciascuno ha la possibilità di “progettarsi” come vuole, a questo punto i “malriusciti” sono solo bisognosi di una “messa a punto” e non della nostra solidarietà (pp. 92-94).

Ma perché nasce l’ingegneria genetica? L’Autore sostiene che essa è «l’espressione più recente di vederci in sella al mondo, come i signori e padroni della natura» (p. 100). Sembra dunque che l’uomo voglia migliorarsi sempre di più per meglio adattarsi al mondo dimostrando la sua potenza; in realtà, nota acutamente Sandel, questo atteggiamento è espressione di “impotenza”. Migliorare può solo significare impegnarsi a «creare assetti sociali e politici più accoglienti nei confronti dei doni, e dei limiti, di noi imperfetti esseri umani» (p. 98). È il mondo che occorre perfezionare, non noi stessi.

L’epilogo del saggio tratta del dibattito sulle cellule staminali. L’Autore condanna la clonazione di embrioni destinati alla ricerca sulle cellule staminali poiché, pur non ritenendo che l’embrione sia un essere umano ma solamente una persona “potenziale” allo stesso modo in cui una ghianda è una potenziale quercia (p.114), tuttavia esso non è una “cosa” a nostra disposizione e «ci sono dei limiti all’uso che possiamo farne» (p. 122). Così egli avalla la ricerca, a scopo curativo, sulle cellule degli embrioni utilizzati nella fecondazione in vitro e che risultano in sovrannumero rispetto a quelli impiantati nell’utero, che in ogni caso andrebbero congelati e poi distrutti.

 

 

Salvo Messina

 
     
     
 
 
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