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Recensioni:
M.
Sandel, Contro la perfezione. L'etica nell'età dell'ingegneria
genetica, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 123,
€ 12
Il
tema di cui si occupa il volume di Sandel è senza dubbio
estremamente complesso e coinvolgente: il ruolo
dell’etica nell’epoca dell’ingegneria genetica.
Quest’ultima, se da un lato promette che «forse potremo
presto curare e prevenire un gran numero di gravi
malattie» (p. 22), dall’altro lato ci inquieta dal punto
di vista morale, poiché la sue “terapie”, tese a
migliorare la nostra muscolatura, la nostra statura e
memoria, a selezionare il sesso dei figli, mirano «al di
là della semplice salute, raggiungendo un’efficienza
fisica o mentale che oltrepassa il mero buon
funzionamento» (p. 24). L’ingegneria genetica, cioè,
mette capo a un’etica della “perfezione”. Ma in che modo
le pratiche di bioingegneria minacciano la nostra
dignità, «per quali aspetti della nostra libertà […]
esse rappresentano un pericolo?» (p. 37).
Nell’ambito sportivo, per esempio, l’etica della
perfezione, oltre a mettere in pericolo la salute degli
atleti con l’uso dei farmaci, viene a intaccare il
telos dello sport, la sua stessa essenza, che è la «la
celebrazione del talento e delle doti naturali» di un
atleta (p. 53), riducendolo semplicemente a uno spettacolo
in funzione dei fruitori e avvilendo quindi il senso della
sua prestazione.
Ma
l’ingegneria genetica e il suo ideale di miglioramento si
insinuano, purtroppo, anche nel rapporto tra genitori e
figli, laddove i primi vogliono «padroneggiare il mistero
della nascita» selezionando il sesso dei figli o influendo
sulle loro qualità atletiche e intellettuali (p. 58). Un
atteggiamento discutibile, secondo Sandel, tanto quanto la
propensione di alcuni genitori a fare i “supergenitori”,
eccedendo nel controllo e nelle aspettative verso i figli,
i quali finiscono, fin dalla più tenera età, per subire
questa forte pressione. Per il nostro Autore, invece,
«Apprezzare i figli in quanto doni significa accettarli
come sono e non come oggetti di un nostro progetto» (p.
55).
Dopo
aver brevemente esposto la storia e i caratteri
dell’eugenetica, che mira a «migliorare la composizione
genetica della specie umana» (p. 71), Sandel ha il grosso
merito di indicarci palesemente le ragioni per cui deve
preoccuparci il trionfo dell’ingegneria genetica, e non
tanto come colpa “individuale”, quanto come «stile di
pensiero e modo di essere» (p. 97). E infatti, in un mondo
in cui i genitori “progettano” i loro figli, viene a
mancare la componente dell’umiltà, cioè del riconoscimento
dei figli come un “dono” gratuito. Se l’essere umano
decide i propri tratti genetici, insieme a quelli dei suoi
figli, allora si accresce notevolmente il peso della
responsabilità per le proprie capacità e performances;
responsabilità che sarebbero imputabili a Dio o alla
natura nel momento in cui non fossimo «padroni del nostro
retaggio genetico» (p. 90). In un mondo in cui ciascuno si
sceglie le proprie caratteristiche, viene sicuramente a
mancare la solidarietà per chi è in fondo alla scala
sociale e svantaggiato. Difatti, laddove concepissimo la
vita come governata dalla sorte, saremmo solidali per
coloro che non sono stati premiati dalla “lotteria
genetica”. Ma se ciascuno ha la possibilità di
“progettarsi” come vuole, a questo punto i “malriusciti”
sono solo bisognosi di una “messa a punto” e non della
nostra solidarietà (pp. 92-94).
Ma
perché nasce l’ingegneria genetica? L’Autore sostiene che
essa è «l’espressione più recente di vederci in sella al
mondo, come i signori e padroni della natura» (p. 100).
Sembra dunque che l’uomo voglia migliorarsi sempre di più
per meglio adattarsi al mondo dimostrando la sua potenza;
in realtà, nota acutamente Sandel, questo atteggiamento è
espressione di “impotenza”. Migliorare può solo
significare impegnarsi a «creare assetti sociali e
politici più accoglienti nei confronti dei doni, e dei
limiti, di noi imperfetti esseri umani» (p. 98). È il
mondo che occorre perfezionare, non noi stessi.
L’epilogo del saggio tratta del dibattito sulle cellule
staminali. L’Autore condanna la clonazione di embrioni
destinati alla ricerca sulle cellule staminali poiché, pur
non ritenendo che l’embrione sia un essere umano ma
solamente una persona “potenziale” allo stesso modo in cui
una ghianda è una potenziale quercia (p.114), tuttavia
esso non è una “cosa” a nostra disposizione e «ci sono dei
limiti all’uso che possiamo farne» (p. 122). Così egli
avalla la ricerca, a scopo curativo, sulle cellule degli
embrioni utilizzati nella fecondazione in vitro e che
risultano in sovrannumero rispetto a quelli impiantati
nell’utero, che in ogni caso andrebbero congelati e poi
distrutti.
Salvo Messina |
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