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La definizione di bioetica. Un
contributo epistemologico
di Alessandro Pizzo
1. Premessa.
Si potrebbe iniziare il
presente scritto delimitando l’orizzonte di discorso e
tentando di delineare una cornice concettuale all’interno
della quale definire la bioetica. Per la verità, si
potrebbe ma non verrà fatto. Infatti, quel che un tale
procedere ometterebbe di fare, e di dichiarare, è il
precisare l’orizzonte epistemologico alla base di un
discorso intorno alla definizione della disciplina in
oggetto. Compito del presente lavoro non è, pertanto,
discutere una possibile definizione, una tra le tante, di
bioetica, ma discutere il problema di una sua definizione
attraverso la delucidazione dei presupposti epistemici in
virtù dei quali è possibile parlare di “bioetica”.
Si vedrà anche come un
tale approccio non condurrà lontano dalla discussione
sulla natura della disciplina e come, in realtà, proprio
un esame epistemologico della questione consenta di porre
nella giusta luce il senso di alcune delle principali
argomentazioni bioetiche, quelle che, almeno in Italia, si
contendono il primato nell’agone pubblico.
D’altra parte, non si
comprende come mai sia quasi assente una riflessione che
prenda in considerazione la natura delle argomentazioni
del discorso bioetico. Infatti, è possibile chiarire
parecchie presupposizioni che, silenti, agiscono
nell’orientare le varie posizioni. Pertanto, proprio una
puntuale discussione di natura epistemica, vertente
sull’esame della forma logica assunta dalle argomentazioni
del discorso bioetico, consente di fornire un contributo
alla più vasta discussione sulla materia, e, quindi, anche
di fornire una (possibile) definizione di bioetica.
2. Necessità di una
bioetica.
La condizione culturale della nostra
vita quotidiana è profondamente pervasa dalla
tecnologia, da un sapere procedurale il
quale ha, nel tempo, in realtà in un brevissimo periodo di
tempo, rivoluzionato il patrimonio culturale della
popolazione umana, soprattutto, ma non soltanto, nei paesi
occidentali. Per di più, nella misura in cui questa
rivoluzione culturale ha investito la dimensione biologica
dell’essere umano più pressanti si sono fatti i timori,
così come i problemi, che tale invasione tecnologica
potesse in qualche modo andare a detrimento della medesima
vita umana.
D’altra parte, a tale travolgente
divenire tecnologico non è corrisposta adeguata
elaborazione culturale al punto che ci si è trovati spesso
nella difficoltà ad inquadrare, non ancora a pensare,
fattispecie biologiche impensabili, perché non esistenti,
solo qualche anno prima (p.e. la clonazione di specie
viventi, sino all’estremo caso della clonazione umana; la
liceità degli OGM, sino all’estremo caso della
modificazione del genoma umano; la fecondazione
artificiale, sino all’estremo della sostituzione delle
figure genitoriali in surrogati meccanici; il trapianto
d’organi, sino all’estremo della trapiantabilità di
qualsiasi tessuto, anche non umano; la contraccezione
umana; l’aborto; le chimere, sino all’estremo dell’unione
di organismi con origine da regni differenti, anche non
soltanto animale; etc.).
Allora, di fronte al progresso
scientifico, e alla sua curvatura pratica, la tecnologia,
la cultura (occidentale) ha tentato di porsi il
problema di una regolazione delle condotte
interessate, soprattutto quando questa tocca aspetti
pubblici della sfera biologica.
In questo contesto è stata formulato un sapere,
chiamato bioetica, consistente in una «scienza
della sopravvivenza»,
o etica della vita,
ossia una disciplina, via via sempre più multidisciplinare,
coinvolgente ontologie regionali differenti (p.e. la
filosofia; la sociologia; il diritto; la
psicologia; la biologia; etc.), avente per
scopo la formulazione dei criteri di condotta
adatti ai vari casi resi possibili dalla rivoluzione
tecnologica (di regole, criteri, canoni,
significati dei termini,
e in grado di «garantire la sopravvivenza e il benessere
dell’uomo».
Il problema, in altri termini, è stato quello di elaborare
un’etica, spesso, ma non solo, di carattere
filosofico che fosse in grado di fornire criteri adatti
per la condotta bioetica,
per la risoluzione di tutti quei
dilemmi,
causati dalla rivoluzione scientifica, i quali richiedono
sovente una scelta morale.
È evidente che sorge subito una
questione non più storica né storiografica, ma
dall’indubbio sapore epistemico: perché (un’)
etica della vita? La vita necessita forse di un’etica?
Cosa può l’etica nei confronti della vita? La domanda,
magari a dispetto delle apparenze, non è oziosa. Infatti,
il collegare due termini, etica e vita,
ethos e bios, implica che l’orizzonte di senso
sia preciso e nasca dalla loro reciproca congiunzione:
etica per la vita.
Ma perché la vita (oggi) dovrebbe aver bisogno di
un’etica? Perché è avvertita la forte necessità, quasi
l’impellenza, di una (nuova) etica rivolta agli aspetti,
certo non tutti, della vita umana? È evidente, da questo
punto di vista, ma anche secondo l’esperienza comune, che
la vita di oggi è differente da quella di una volta, che
esiste una divaricazione antropologica profonda tale da
richiedere una nuova, e diversa, consapevolezza, una nuova
“riflessività” di fronte alla rivoluzione tecnologica in
atto in biologia, una rivoluzione umana in primo luogo,
del pianeta Terra in secondo luogo; si richiede, cioè, un
ripensamento etico generale che delinei il limes di
quanto è lecito, ossia possibile realizzare, e di
quanto è illecito, ossia impossibile realizzare.
Antropologicamente, infatti, si è rovesciato il
rapporto tra la legge (nomos) e la
natura (physis): non v’è più una dipendenza
della prima dalla seconda, ma quest’ultima può essere
modificata dalla prima.
3. Quali sono le
presupposizioni epistemiche nei giudizi bioetici?
Dato il carattere pervasivo assunto
dalla tecnologia, si potrebbe anche dire che la bioetica
riguardi non soltanto casi particolari, spesso eclatanti,
ma sempre più la nostra vita quotidiana.
Il problema, allora, è il seguente: qual è il criterio
in virtù del quale giudicare della liceità, così
come dell’illiceità, delle condotte chiamate in
causa dalla rivoluzione biologica attuale?
Appare chiaro, infatti, che tale criterio,
perlomeno quello dichiarato, in realtà sia giustificato da
presupposizioni epistemiche concorrenti tra
loro, in virtù della quale opposizione si mette capo ad
opzioni morali differenti e
confliggenti sui diversi aspetti,
e casi, del nascere,
del morire,
del curarsi.
Sono tutti aspetti, forse anche dimensioni, della nostra
vita umana, in breve del vivere, chiamati in causa
dato che la scienza ci ha ormai messo nelle condizioni di
mettere definitivamente le mani sull’albero della vita.
Pertanto, il senso delle precedenti questioni va
individuato nella necessità di chiarire i presupposti che
producono le varie argomentazioni bioetiche. Infatti, sono
questi presupposti epistemici che producono i valori in
virtù dei quali una comunità umana riconosce ai soggetti
dei “diritti”, successivamente riconosciuti come tali e di
conseguenza sanzionati socialmente all’interno di una
cornice giuridica, veste istituzionale di una comunità.
Così diventa chiaro anche come mai la
bioetica presenti rilevanti punti di contatto con la cd.
biogiuridica,
dato il nesso ineludibile sorto tra le possibilità della
tecnica e la rivendicazione di “diritti” soggettivi alla
loro traduzione in concreto.
D’altra parte è pur vero
che le questioni sollevate dalla rivoluzione delle
tecniche biologiche presentano un doppio aspetto: (1)
stabilire quali sono i valori cui ispirare le
condotte pratiche chiamate in causa dalle possibilità
tecniche; e, (2) stabilire il godimento di quali
diritti soggettivi assicurare in una società.
Semplicemente, diciamo che sotto l’aspetto (1) ricade in
gran parte, seppur non del tutto, l’insieme dei discorsi
della riflessione bioetica propriamente detta; invece,
sotto l’aspetto (2) ricade per intero l’insieme dei
discorsi della biogiuridica.
Quali sono, dunque, le presupposizioni
in gioco nella formulazione delle argomentazioni
bioetiche? Se si riconosce che sostanzialmente la bioetica
è importante perché operante determinati investimenti di
senso sulla vita umana,
allora se ne possono individuare due delle più importanti,
e che possono partitamente essere così indicate:
[PB1] Etica della
Qualità della Vita; e,
[PB2] Teoria della
Sacralità della Vita.
Ora, la prima presupposizione può
essere indicata brevemente con EQV, mentre la seconda con
TSV. Secondo una certa linea di pensiero la prima è, in
genere, espressione di una bioetica che trae ispirazione
dal pensiero laico, mentre la seconda, alla stessa
maniera, è, in genere, espressione di una bioetica di
ispirazione religiosa.
Ad ogni modo, è bene
specificare come tanto [PB1] quanto [PB2] sono due cornici
teoriche che contengono molte presupposizioni
ulteriormente articolate al loro interno e che, solo in
un’ottica d’insieme, possono venir ricondotte ad unità,
rispettivamente nelle forme dell’EQV e della TSV.
Più specificatamente,
quel che la presupposizione bioetica indicata come EQV
dice è sostanzialmente quanto segue:
a)
La morale ha
un’origine totalmente umana (vale a dire che l’uomo è
il legislatore delle norme di condotta);
b)
Non esiste alcuna
“natura” (in altre parole, non esiste alcuna natura
dalla quale derivare indicazioni sui progetti esistenziali
di singoli e gruppi);
c)
Fondamentale è il
principio di “autonomia” (infatti, essendo l’uomo
legislatore di sé stesso, egli è autonomo e può, anzi
deve, agire etsi Deus non daretur);
d)
La vita è
disponibile (ossia il singolo ha il possesso del proprio
corpo, dei propri status personali, della propria
vita, in tutte le forme e dimensioni che viene ad
assumere);
e)
La conoscenza è un mezzo
di progresso (in altri termini, ogni riflessione sulle
condotte possibili deve tenere fermo il punto cruciale che
fine delle nostre cognizioni è il progresso;
dunque, non è accettabile una bioetica che prescindesse
dalle conoscenze scientifiche);
f)
La sofferenza
non è utile (vale a dire che la sofferenza non è
auspicabile né può in qualche modo essere ritenuta utile
nel complesso di vita dei singoli; di conseguenza, va
rimossa);
g)
Persona si
diventa, non la si è in partenza (in altre parole, il
singolo non è persona in quanto tale, per il fatto che
esiste, ma lo diventa progressivamente; esiste, dunque,
una sostanziale gerarchia tra viventi: alcuni sono più
persone di altre);
h)
Il pluralismo è
l’ordine del reale (ossia le opinioni delle chiese,
ancorché importanti nell’ambito della discussione
pubblica, sono pareri di minoranza e devono, dunque,
cedere il passo al pluralismo multiculturale delle società
occidentali, abbandonando qualsiasi pretesa di verità).
Quel che la
presupposizione bioetica indicata come TSV dice è, invece,
quanto segue:
1)
L’etica ha
origine “divina” (ossia, l’uomo trae massime per la
propria condotta dall’origine “divina” del proprio
essere);
2)
Si
deve cogliere un collegamento con la “natura” (in
altre parole, la natura esiste ed è il metro di
valutazione dei comportamenti umani);
3)
L’uomo non
ha alcuna autonomia (in altri termini,
l’uomo dipende, e fortemente, dal volere della divinità);
4)
La vita non
è disponibile (vale a dire che l’uomo usufruisce
della propria vita, ma non può disporne in contrasto con
l’ordine secundum naturam);
5)
La sofferenza, per
quanto non desiderabile, fa parte
dell’ordine delle cose (in altre parole, la sofferenza va,
dunque, accettata quando occorre);
6)
Si
è persone da quando si esiste, non si diviene
progressivamente (ossia, ciascuno di noi è in partenza una
persona, per il semplice fatto che siamo).
Pertanto, sebbene i due elenchi non
siano tra loro perfettamente paritetici, emerge abbastanza
chiaramente come la presupposizione EQV abbia come
componenti essenziali: (i) il riconoscimento del primato
dell’utilità pratica nella vita dei soggetti; (ii)
l’autonomia del soggetto nello scegliere cosa fare
della propria vita;
e, (iii) il riconoscimento di un primato del progetto
di vita nel costituirsi della personalità.
Al contrario, la
presupposizione TSV ha come suoi componenti essenziali:
(w) il riconoscimento del valore intrinseco della vita
dei soggetti; (ww) la responsabilità del soggetto
nello scegliere cosa fare della propria vita rispetto all’ordine
naturale; e, (www) il riconoscimento di un primato
(ontologico) della personalità che accompagna tutti i
singoli dal momento della nascita.
Il fatto che sovente l’EQV sia
accostata alla forma mentale del laicismo e che, di
conseguenza, la TSV sia a sua volta accostata alla
religione deriva dai caratteri propri delle due
presupposizioni, tra loro concorrenti e confliggenti.
Tuttavia, è anche vero che la stessa TSV, ove si
sostituisce al riferimento diretto ad un ordine
trascendente un più vago, e terreno, ordine naturale,
può benissimo essere considerata una posizione laica.
D’altra parte, il suo accostamento alla religione è dovuto
a ragioni interne al dibattito italiano ove importa più il
riconoscimento dell’appartenenza a gruppi cui contrapporsi
che riconoscere interni elementi di pregio e,
soprattutto, di coerenza.
In realtà, il fatto che siano due
presupposizioni, che producono differenti, e contrapposte,
argomentazioni bioetiche, dovrebbe indurre a ritenere che
quel che cambia è il frutto dell’elaborazione
antropologica del rapporto tra la natura e la
tecnica, tra l’ordine delle cose e la
possibilità che abbiamo di modificarlo.
Infatti, a causa dell’invasione tecnologica, non abbiamo
più di fronte a noi soltanto un ordine naturale
(quasi) immodificabile, ma anche la concreta possibilità
di intervenire in esso per dirigerlo verso altri esiti.
Allora, mentre la coscienza antropologica in passato si
limitava a trarre dalla natura un ordine regolarizzante la
condotta umana, adesso la stessa può legiferare senza
tener in alcun conto la natura medesima. Così, si ottiene
che l’antropologia offre risposte diverse
a seconda che, rispettivamente, si attribuisca maggior
importanza all’autonomia umana o al corso
naturale.
In questo modo, passando per il guado
della terra di mezzo tra la natura e la tecnica,
ecco che la cultura umana offre risposte
differenti a domande che scottanti sorgono nelle nostre
pratiche umane.
Infatti, cosa si deve fare al capezzale di un malato
terminale? Cosa si deve fare davanti alla possibilità di
un nato malformato? Cosa si deve fare nel caso in cui la
procreazione naturale può far generare individui affetti
da gravi malattie genetiche? Cosa fare nel caso di
individui con encefalogramma piatto? Cosa fare con i resti
di feti abortiti? Cosa fare con embrioni crioconservati e
non più vitali? Cosa fare con la possibilità che tutti i
tessuti umani possano essere utilizzati nei trapianti?
Molte altre sono certamente le possibili questioni
bioetiche
ma tale elenco è di per sé sufficiente a far cogliere la
profonda difficoltà suscitata dalla rivoluzione
scientifica. Rispetto ad esse, dato che è importante
operare una scelta, e lo si fa secondo opzioni
antropologiche ben precise, magari non dichiarate ma che
ciascuno considera vere, si deve seguire un criterio di
utilità che massimizzi la qualità della vita dei
singoli, ed è il caso della presupposizione antropologica
[PB1], oppure si deve seguire un criterio che consideri
inviolabile qualsiasi vita umana, a prescindere da
quale manifestazione assuma, ed è il caso della
presupposizione [PB2]?
4. La forma logica dei
giudizi bioetici.
Assumendo che dietro ogni
decisione morale, risolvente un dilemma provocato da un
particolare caso bioetico, ci sia un giudizio,
ossia un ragionamento, molto schematicamente è
possibile considerare le rispettive forme
logiche delle argomentazioni bioetiche.
Non ci dilunghiamo su di esse, ma, molto schematicamente,
osserviamo come la loro presentazione consenta di cogliere
la fisiologia delle presupposizioni epistemiche nella
decisione bioetica.
Un’argomentazione
bioetica potrebbe essere la seguente:
[AB1]
1.
Se
il caso X può essere risolto secondo i principi (a) – (h)
e (i) – (iii), allora si darà la soluzione Y;
2.
Il caso X è
risolvibile in accordo ai principi (a) – (h) e (i) – (iii);
3.
(allora) si
dà la soluzione Y.
Oppure, si potrebbe avere
la forma seguente:
[AB2]
I.
Se
il caso W può essere risolto secondo i principi (1) – (6)
e (w) – (www), allora si darà la soluzione J;
II.
Il caso W è
risolvibile secondo i principi (1) – (6) e (w) – (www);
III.
(allora) si
dà la soluzione J.
Al di là della specifica
forma logica di tali ragionamenti, il cd. Modus Ponendo
Ponens, e al di là della possibile obiezione di una
loro eccessiva astrattezza, emerge con forza “come”
agiscano le varie presupposizioni epistemiche nella
formulazione dei ragionamenti bioetici, quegli stessi che
informano le discussioni intorno allo statuto, e
definizione, della disciplina.
Quel che un’ottica epistemica offre è,
dunque, la seguente considerazione ulteriore a partire
dalla quale considerare il problema definitorio in
bioetica: quando si opera una scelta bioetica, è
importante quanto è (tecnicamente) possibile
o quanto è giusto fare?
In effetti, sembra quasi che la veemenza del dibattito
bioetico si concentri tutta qui: nella tensione tra le
possibilità teoriche e le (loro) bontà
pratiche.
5. Conclusioni.
Come si diceva in
precedenza, e come è oramai chiaro, delucidare i
presupposti epistemici non fornisce direttamente
una definizione di bioetica, ma consente di “chiarire” i
termini del discorso all’interno del quale viene definita
la disciplina. Infatti, se varrà la presupposizione [PB1],
producendo l’argomentazione bioetica esemplificata con
[AB1], si dirà, grosso modo, che la bioetica è quella
disciplina che, basandosi sull’autonomia dell’individuo,
sulle sue aspettative qualitative e sulle
possibilità della tecnica, consente di
scegliere nei singoli casi quale condotta adottare.
Analogamente, ma con un impianto valoriale assolutamente
altro, se non contrapposto, valendo la presupposizione
[PB2], producendo l’argomentazione bioetica esemplificata
con [AB2], si dirà, grosso modo, che la bioetica è quella
disciplina che, basandosi sull’ordine naturale,
sulla dignità della persona umana e affermante la
necessità di una regolazione etica della
tecnologia, nei casi controversi ci dice qual è la
condotta giusta.
Prima di concludere è
però bene ricordare due elementi che vengono lasciati in
ombra nel presente lavoro. In primo luogo: le
presupposizioni indicate sono solo due tra le molte
disponibili. In termini più generali, ciò vuol dire che a
seconda della presupposizione epistemica, di origine
antropologica, si fornisce una ben precisa definizione di
bioetica. In secondo luogo: non compete al presente lavoro
stabilire una questione ulteriore circa la possibilità
che, nel giudicare dei singoli casi, chi giudica aderisca
preliminarmente all’una o all’altra opzione assiologica,
espresse rispettivamente nei termini di presupposizioni
[PB1] e [PB2].
Tuttavia, resta da
indagare la maniera attraverso la quale gli uomini
derivano conseguenze antropologiche dall’esame della
realtà. Questo compito, però, esula dalle finalità del
presente scritto.
Cfr. M. Galletti, Bioetica,
in L. Floridi (a
cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2006, p.
1029: «Le nuove tecnologie che, a partire dagli anni
’60 e ’70 del secolo scorso, offrono una straordinaria
capacità di intervenire sulla vita biologica sollevano
molti interrogativi etici. In breve la riflessione
critica sulla rivoluzione bio-medica tende a mettere
in discussione l’astratto imperativo per cui “tutto
ciò che è tecnicamente possibile è moralmente
doveroso”. La bioetica è la riflessione
sull’accettabilità di pratiche vecchie e nuove».
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