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Associazione Thomas
International |
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Gran Bretagna: Niente più
padri né madri ma "genitori"
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Febbraio
2008. Nelle scuole britanniche non
si potrà più dire 'mamma' e 'papà.
Il ministero dell’Istruzione prepara una
direttiva in questo senso. Si potrà dire
soltanto 'genitori', per rispetto di quegli
alunni che si trovino ad avere a casa una coppia
di madri lesbiche, o una coppia di padri gay,
o ogni altra di quelle declinazioni di 'famiglie',
rigorosamente al plurale, di cui la Gran Bretagna
è antesignana e maestra. Due anni fa
andò sui tabloid inglesi la storia di
una coppia gay in cui un partner, in procinto
di diventare chirurgicamente donna, congelò
il proprio seme per potere essere biologicamente
padre grazie a una donna che 'prestasse' il
suo utero. Una situazione ingarbugliata per
il nascituro: papà e la donna che lui
chiama mamma erano la stessa persona. Per evitare,
in questa crescente complessità, traumi
ai ragazzini dunque il Ministero taglia la testa
al toro: di dice 'genitori', e basta, mai più
padre e madre.
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Ricordarsi
di Huxley è inevitabile: quella parola,
'mamma', che ne 'Il mondo nuovo' genera pudichi
gridolini di orrore - come di dame vittoriane
davanti a qualcosa di sconveniente ¬perché
quel mondo nuovo i figli li fabbrica con una
catena di montaggio, e l’idea di una procreazione
carnale s’è fatta indecente. Ma
l’editto del Ministero non ce l’ha
solo o tanto con la mamma, ma anche e altrettanto
con il papà.
Anzi, forse di più. Il padre, alla cultura
del 'gender' - cioè della identità
sessuale definita come pura scelta culturale,
e non come dato originario - risulta ancora
più antipatico della mamma. Il padre
è archetipo di autorità e autorevolezza,
e dunque di maschilismo. Il padre va spazzato
via: concretamente - come in quel sito web inglese
'Man not included', 'Uomo non incluso', che
vendeva on line seme anonimo per aspiranti madri
autarchiche; e anche culturalmente, e perfino
spiritualmente. La nuova versione del Nuovo
testamento dell’Università di Oxford,
- il faro della cultura occidentale - così
trascrive il Padre Nostro: 'Padre/Madre nostra
che sei nei cieli'. Oppure, Gesù ai genitori,
nel Tempio: 'Perché mi cercate? Non sapevate
che io ero nella casa del Padre/Madre?' La 'grida'
del Ministero per l’Istruzione britannico
può fare sorridere. E però, dietro
l’idiozia di pensare di proibire ai ragazzi
di dire 'mamma', sta, sotto le garbate apparenze
del politically correct, una pretesa
dura e brutale. Non dite madre, non dite padre,
questi sono stereotipi, ruoli imposti da una
tradizione oscurantista. Nel nuovo mondo la
cultura del 'gender' disfa tutto: le madri non
sono necessariamente donne, i padri non sono
obbligatoriamente uomini, e di padri se ne può
avere due e di madri nessuna, o viceversa, a
piacere - a piacere, si intende, non dei figli,
ma di chi più o meno naturalmente li
mette al mondo (da “Avvenire”
22/02/2008).
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Francia e Belgio: Continua
il dibattito sull'eutanasia
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Marzo
2008. La francese Chantal Sèbire
è morta per aver ingerito un dose letale
di barbiturici. Questo il risultato dell'autopsia.
La donna, sfigurata in volto a causa di una
rara forma di tumore, nei giorni passati aveva
chiesto inutilmente al presidente francese Sarkozy
e ai magistrati il diritto all'eutanasia. Il
19 marzo è stata poi trovata morta nella
sua abitazione. Ora si tenta di capire in che
modo Chantal sia riuscita a procurarsi il potente
veleno, si tratta infatti di un 'barbiturico
ad azione rapida che non è usato in ambiente
medico e non è venduto in farmacia' come
ha sottolineato il procuratore della repubblica
di Digione che sta indagando sul caso. In Belgio,
invece, lo scrittore Hugo Claus, affetto da
morbo di Alzheimer, ha potuto farsi dare la
morte: «Non ha voluto prolungare la sua
sofferenza — ha detto la sua terza moglie,
Veerle De Wit — e ha scelto lui il momento
della sua morte, in lucidità».
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A
commento dei due casi, riportiamo alcune riflessioni
di Francesco D’Agostino: «I fautori
del¬la legalizzazione dell’eutanasia
amano portare esempi di alcuni, singoli pazienti,
la cui decisio¬ne di porre termine alla
loro vita appare conso¬lidata e irreversibile.
Raramente essi considera¬no la situazione
della stragrande maggioranza dei malati oncologici
e terminali, la cui autenti¬ca volontà
non è quella di morire al più
presto, ma si riassume nel semplicissimo desiderio
di non essere abbandonati, né da amici
e familia¬ri, né dai medici. Ogni
legislazione eutanasica – per il solo
fatto di essere, come tutte le legislazioni,
generale ed astratta – non può
che burocratiz¬zare i processi ai quali
si riferisce e non può non trasformare
singoli casi umani, unici nella loro drammaticità,
in casi 'statistici'. Non so se Hu¬go Claus
fosse davvero competente, quando ha chiesto
l’eutanasia; il solo fatto che fosse colpito
dall’Alzheimer mi induce a dubitarne.
Ciò però che so è che la
sua richiesta, nella logica buro¬cratizzante
della legge, corre il rischio di diveni¬re
'esemplare' e di essere sottoposta a tutti gli
al¬tri malati, nelle sue stesse condizioni,
come una richiesta meritevole di attenzione
o addirittura di elogio.
Abbandonare i malati e poi indurli indiretta¬mente
(ma a volte anche esplicitamente: si vada a
vedere quel piccolo, recente capolavoro che
è il film 'La famiglia Savage') a rinunciare
alle te¬rapie o a chiedere di lasciare al
più presto questa vita: questo è
il rischio più subdolo e più ignobi¬le
che si nasconde dietro le innumerevoli pres¬sioni
che si stanno moltiplicando in questi anni a
favore di un’eutanasia legalizzata»
(F. D’Agostino, Quel tranello
rende plausibile l’eutanasia, “Avvenire”
22/03/2008).
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Strasburgo: Via libera al
"diritto" di aborto |
Aprile
2008. L'assemblea parlamentare del
Consiglio d'Europa ha approvato il 16 aprile
scorso la risoluzione 1607 che invita i 47 Stati
membri a orientare, laddove necessario, la propria
legislazione in maniera da garantire effettivamente
alle donne "il diritto di accesso all'aborto
sicuro e legale". Il documento è
stato approvato con 102 voti a favore, 69 contrari
e 14 astenuti, dopo un lungo dibattito che ha
deciso sull'inclusione nel testo provvisorio
di ben 72 emendamenti proposti in precedenza.
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Riportiamo
alcuni brani tratti da un commento di Elio Sgreccia:
«La risoluzione approvata inizia ribadendo
il principio che in nessuna circostanza l'aborto
deve essere inteso come un mezzo di pianificazione
familiare e che, nei limiti del possibile, esso
deve essere evitato (cfr n. 1). A tal fine,
la risoluzione raccomanda che sia messo in atto
ogni mezzo, purché compatibile con i
diritti delle donne, per ridurre sia le gravidanze
indesiderate che gli aborti stessi. Sembra dunque
che, almeno in linea di principio, l'introduzione
del documento riconosca e affermi chiaramente
che l'aborto è una realtà in se
stessa negativa, da evitare nei limiti del possibile
con ogni sforzo.
Nel testo viene poi ricordata la presenza nella
maggior parte degli Stati membri di dispositivi
di legge che, sotto precise condizioni e circostanze,
"permettono" l'aborto nei casi previsti.
È qui che la risoluzione manifesta una
preoccupazione concreta: il pericolo che in
alcuni dei Paesi del Consiglio europeo dove
l'aborto è permesso, di fatto, non possa
essere garantito alle donne che lo richiedessero
"un effettivo accesso ai servizi per l'aborto
che siano sicuri, sostenibili, accettabili ed
appropriati" (n. 2), e ciò a causa
di condizioni eccessivamente restrittive previste
dalle apposite disposizioni legislative, che
finirebbero per provocare effetti discriminatori
tra le donne. Ed è proprio a questo punto
che nel testo spunta la parola "diritto",
riferito all'effettivo accesso all'aborto. Ciò
stupisce in quanto è la prima volta che
in un documento ufficiale del Consiglio d'Europa
- così come in quelli delle Nazioni Unite
- si parla dell'aborto come di un "diritto".
Dal punto di vista legislativo, infatti, una
cosa è permettere o depenalizzare l'aborto
effettuato in determinate circostanze, altro
è definirlo come un "diritto",
a cui dovrebbe logicamente corrispondere anche
un "dovere" di tutela del medesimo.
Ma è davvero possibile postulare fondatamente
un "diritto all'aborto"? Su quali
basi si potrebbe giustificare il diritto di
interrompere la vita di un essere umano innocente
e, per di più, debole e indifeso? A meno
di adottare criteri antropologici discriminatori
e arbitrari, che non riconoscano a ogni essere
umano uguale dignità e diritti fondamentali,
questa pretesa è del tutto infondata
e arrogante; essa può essere giustificata
solo da impostazioni di pensiero fortemente
ideologiche e parziali, che non pongono la persona
umana - o almeno, non ogni singola persona umana
- come fine ultimo e misura della vita sociale,
e quindi della regolazione legislativa.
Anche l'affermazione che "l'aborto non
deve essere vietato entro limiti gestazionali
ragionevoli" (n. 4) suscita domande e perplessità.
La ragionevolezza cui si fa riferimento, infatti,
sembra essere commisurata su motivi riguardanti
esclusivamente la salute della donna ed i costi
sociali. Nulla si dice invece sulla realtà
dell'essere umano (embrione) da abortire, la
cui dignità essenziale è legata
alla sua stessa natura, al fatto stesso di appartenere
alla specie umana e non alle tappe del suo sviluppo
biologico. In relazione al suo "diritto"
di tutela della vita, dunque, non esistono e
non possono esistere "limiti gestazionali
ragionevoli" entro i quali sia possibile
derogare a tale diritto fondamentale, poiché
la vita umana individuale possiede il suo valore
peculiare ed inalienabile in ogni momento della
sua storia personale.
Nella stessa direzione, proseguendo nella lettura
della risoluzione 1607, un altro elemento crea
forti perplessità; si tratta della riaffermazione
(cfr n. 6), di per sé opportuna e giusta,
del diritto di ogni essere umano - e non si
capisce perché il testo senta il bisogno
di specificare "incluse le donne",
cosa che appare del tutto scontata e, quindi,
offensiva nei confronti delle donne stesse -
al rispetto della propria integrità fisica
e alla libertà della gestione del proprio
corpo. Sulla base di questa affermazione, il
testo conclude che "la decisione ultima
di ricorrere o no all'aborto è una questione
che appartiene alla donna interessata, la quale
deve avere i mezzi per esercitare questo diritto
in maniera efficace". La conclusione non
sembra del tutto coerente con l'affermazione
di principio iniziale. Se, infatti, viene riconosciuto
il diritto alla tutela dell'integrità
corporea di ogni essere umano, ciò va
rivendicato appunto per tutti gli esseri umani,
senza distinzione; ora, nel caso dell'aborto,
la donna è solo uno degli esseri umani
direttamente coinvolti, non l'unico. Anche il
figlio, embrione o feto, lo è. Se è
sacrosanto rivendicare il rispetto per l'integrità
corporea della madre, altrettanto lo è
affermare e rivendicare quella del figlio, tanto
più che quest'ultimo non è in
condizioni di reclamare e difendere da solo
i propri interessi. Nel caso dell'aborto, da
questo punto di vista vi sono due fronti d'interesse
da far convergere e tutelare insieme: la salute
della madre e quella del figlio. Il concepito
non può certo essere ridotto a "parte
del corpo della donna gravida", come ormai
dimostra senza alcuna ragionevole incertezza
la più moderna embriologia. La risoluzione
1607 glissa troppo velocemente su questo fondamentale
aspetto, tentando di far passare come del tutto
scontate affermazioni di significato antropologico
e valoriale che sono invece del tutto discutibili,
se non altro in nome di quel pluralismo di pensiero
tanto rivendicato proprio dai sostenitori di
queste affermazioni. Di conseguenza, è
del tutto artificiale e "populistica"
la reiterata accusa, mossa alla Chiesa cattolica
da parte di alcuni parlamentari in sede di discussione
del documento, di agire e parlare col fine di
"privare le donne del loro diritto più
fondamentale: quello di disporre del loro corpo".
Un'idea del genere è assolutamente estranea
all'insegnamento e agli intenti della Chiesa,
ma soprattutto rappresenta una palese riduzione
distorsiva della realtà: l'aborto volontario
non può essere ridotto a una mera questione
di gestione del corpo della donna; esso, infatti,
include allo stesso tempo la drammatica scelta
di distruggere una vita umana, quella del figlio,
il cui valore di fondo è pari a quello
della madre. (E. Sgreccia, La risoluzione
sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione
contraria ai diritti umani, “L'Osservatore
Romano” 27/04/2008).
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Gran Bretagna.
Fecondazione artificiale senza padre |
Maggio
2008. Dopo il sì alla creazione
di embrioni ibridi uomo-bovino e il via libera
alla creazione di fratellini «salvatori»,
la Camera dei Comuni britannica ha continuato
ieri ad “aggiornare” le norme sulla
fecondazione artificiale e sull’embriologia.
È caduta così un’altra barriera:
l’abolizione della figura paterna come
pre-requisito per l’accesso delle donne
alla fecondazione assistita. Con 292 voti contro
217 la Camera dei Comuni, dopo un aspro dibattito
in aula, ha giudicato non indispensabile la
figura del padre nel procedimento della fecondazione
in vitro. La legislazione richiedeva finora
alle cliniche di considerare come prioritario
il «benessere» del bambino, comprendendo
in questo principio anche la presenza di un
padre accanto alla madre. La nuova norma, invece,
sostiene che il bambino debba semplicemente
avere il «supporto dei genitori»,
non specificando, appunto, la necessità
del padre stesso. Un aspetto fortemente contestato
in aula da diversi deputati, come il conservatore
Patrick Cormack, che ha sottolineato come non
sia possibile eliminare la figura paterna se
non a costo di sfavorire la crescita equilibrata
dei bambini. I sostenitori della norma hanno
affermato invece che si «metterà
così fine alla discriminazione verso
le coppie lesbiche» (o le donne single)
che vogliono un figlio con la fecondazione in
vitro. L’altra notte, invece, dopo il
voto sugli embrioni ibridi, i deputati avevano
dato il via libera anche ai cosiddetti fratellini
«salvatori», pre-selezionati in
vitro e creati allo scopo di fornire tessuti
e organi per curare le eventuali patologie di
quelli nati. La maggioranza dei voti a favore
è stata schiacciante: 342 voti contro
i 163 deputati che avevano appoggiato il divieto
per tale pratica. Un distacco addirittura superiore
a quello registrato per gli embrioni-chimera
(336 contro 176).
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A
quest’ultimo riguardo, è rimasto
inascoltato l’appello del deputato conservatore
David Burrowes, che aveva giudicato sbagliata
la creazione di un bambino con il solo scopo
di dare beneficio a un altro. Considerazioni
che il laburista Des Turner aveva rigettato
sostenendo che «molti bambini moriranno
se non potranno essere curati» grazie
a tessuti e organi dei «fratellini»
appositamente creati. E l’ex ministro
laburista George Howarth aveva parlato di un
«forte imperativo morale» a sostegno
delle misure contenute nella nuova norma. In
precedenza era stato invece dato il via libera
agli embrioni-chimera: la Camera dei Comuni
aveva respinto un emendamento che avrebbe impedito
agli scienziati di creare embrioni umani con
parti di Dna animale a fini di ricerca. A favore
del divieto si erano espressi ministri cattolici
come Ruth Kelly, Des Browne e Paul Murphy. Il
premier Gordon Brown, che ha votato contro il
divieto così come il leader conservatore
David Cameron, aveva lasciato libertà
di coscienza ai propri deputati. Anche un secondo
emendamento, che vietava «veri embrioni
ibridi» (uova umane fertilizzate con sperma
animale o viceversa), era stato bocciato subito
dopo con 286 voti a 223.
Anche in questo caso il dibattito in aula è
stato molto combattuto, con i favorevoli agli
embrioni-ibridi che hanno sostenuto la causa
della ricerca sulle staminali tratte dagli embrioni-chimera,
che potrebbe portare a terapie per malattie
al momento incurabili. I contrari – che
avevano avuto il forte appoggio della Chiesa
cattolica – hanno sottolineato le implicazioni
etiche di quella che chiamano «scienza
Frankenstein». Per i sostenitori della
norma si è posto fine alle discriminazioni
delle lesbiche ma per molti deputati sarà
ora sfavorita la crescita equilibrata dei bambini
(P. M. Alfieri, La Gran Bretagna
dice sì anche ai figli senza padre,
“Avvenire” 21/05/2008).
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