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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 6 - Maggio 2008 
     
 

La legge n. 194 del 1978
Considerazioni de iure condito et de iure condendo

di Sergio Salvato*

 

 

 

 

L’8 maggio 1981, alla vigilia del referendum sull'aborto, il Corriere della Sera ha pubblicato un'intervista di Giulio Nascimbeni a Norberto Bobbio, nella quale il filosofo, annoverato tra i massimi esponenti della cultura laica del dopoguerra, spiegava le sue ragioni a favore della vita: «Quello dell’aborto è un problema molto difficile, nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e doveri. Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto». E aggiungeva: «C'è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c'è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite».

Alla domanda “Non le sembra che, così posto, il conflitto fra questi diritti si presenti pressoché insanabile?”, il filosofo rispondeva:  «E' vero, sono diritti incompatibili. E quando ci si trova di fronte a diritti incompatibili, la scelta è sempre dolorosa. Ma bisogna decidere. Ho parlato di tre diritti: il primo, quello del concepito, è fondamentale; gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati. Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l'aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all'aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere. Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il 'non uccidere'. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».

Sulla scorta di queste considerazioni esamineremo, nella prima parte, alcuni aspetti della legge che disciplina in Italia l’interruzione volontaria della gravidanza, riservando alla seconda parte alcune considerazioni di carattere generale sui rapporti tra il diritto e la democrazia.

 

 

A. ANALISI DEL CONTENUTO DELLA LEGGE

 

 

Può preliminarmente affermarsi che il “diritto alla vita” è un diritto costituzionalmente protetto, anche se la nostra Costituzione non lo menziona esplicitamente. Infatti, l’inserimento di un tale diritto tra quelli garantiti dalla nostra Carta Costituzionale può farsi derivare sia dalle convenzioni europee dei diritti dell'uomo e dalla carta internazionale dei diritti del bambino, le quali conferiscono al diritto alla vita una rilevanza costituzionale attesa la loro ricezione nel novero dei nostri diritti fondamentali; sia da un’attenta lettura della nostra stessa Carta Fondamentale, che in tanti suoi principi e disposizioni impone certamente la tutela del diritto alla vita e lo riconosce quantomeno implicitamente

è pacifico che, per tutelare determinati valori e principi, non è necessario che vi sia nella Costituzione un’indicazione testuale: ciò che è necessario è che vi sia l'indicazione normativa, ovvero che il testo di legge stabilisca determinati elementi che rendono inequivocabile la tutela anche di un principio non previsto expressis verbis.

Se questo è il modus operandi con il quale si devono interpretare i testi giuridici, deve concludersi che la nostra Costituzione, letta e interpretata sistematicamente al di là del mero dato letterale, permette la piena tutela del diritto alla vita sin dal concepimento.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, l'art. 2 della Costituzione - che riconosce e garantisce i “diritti inviolabili dell’uomo” - deve essere di guida a chi voglia interpretare la perentoria affermazione contenuta nell'art. 1 della legge 194/78, a norma del quale "lo Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio".  Si deve, tuttavia, osservare che tale ultima norma appare prima facie estremamente vaga e, forse volutamente, eccessivamente ambigua: cosa si intende, infatti, per vita umana e, soprattutto, quando essa ha inizio? A tale fondamentale domanda la scienza ha definitivamente risposto: l'inizio della vita umana si ha fin dal concepimento. Dalla fecondazione della cellula femminile (l'ovulo) da parte della cellula maschile (lo spermatozoo), dalla fusione di queste due cellule, emerge un essere interamente originale, che mai si è prodotto prima e mai si riprodurrà in seguito. Da quel preciso momento inizia un processo di crescita senza soluzione di continuità di quell’essere che, senza alcun intervento esterno (se non quello di assistenza al parto), lo porterà a diventare embrione (e cioè organismo pluricellulare), feto e poi neonato.

Il diritto non può avere una posizione o una pregiudiziale scientifica propria, ma deve recepire e prendere atto di quanto la scienza definisce: non può, neppure con una legge votata da un Parlamento democraticamente eletto, cambiare quel che è scientifico. Il legislatore non è onnipotente, come Caligola che, con un semplice decreto imperiale, fece senatore un cavallo! Il diritto non può neanche stabilire apoditticamente una data in cui un “grumo di cellule” si trasforma in “vita umana”, e che il così detto "prodotto del concepimento" sia un essere umano solo dopo 90 giorni dal concepimento (essendo prevista dall'art. 6 una tutela più marcata del concepito, che consente l'aborto solo in casi estremi, e precisamente "quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna") mentre sia una mera escrescenza prima dei 90 giorni (essendo previsto dall'art. 4 la facoltà dell'intervento abortivo praticamente in base alla sola richiesta della madre).

Tale sistema adottato dal nostro legislatore appare ancora più discutibile solo ove si osservi che le interruzioni di gravidanza eseguibili in base all’attuale normativa riguardano embrioni necessariamente in una fase avanzata di sviluppo. Infatti, il primo sospetto di gravidanza sorge nella donna in seguito al ritardo nel ciclo mestruale, quando cioè (se c'è davvero all'origine una gravidanza) l'embrione è alla quarta settimana del suo sviluppo. Deve trascorrere poi almeno un'altra settimana prima che si possa attuare, in base all'art. 5, l'interruzione della gravidanza. L'embrione che viene eliminato ha, dunque, almeno 5 settimane di vita, in un momento in cui il suo sviluppo è in fase avanzata: si sono già formati il sistema nervoso, i polmoni, il fegato, l’intestino, lo stomaco e il cuore. Già dalla terza settimana di vita batte un cuore!

Siamo dunque ben lontani non solo dal momento del concepimento, ma anche da quel 14° giorno in cui alcuni vorrebbero apoditticamente collocare l'inizio della vita umana: così è in Inghilterra, dove è permessa la manipolazione dell'embrione fino al 14° giorno di vita. Lo stesso avviene in Germania, dove una nota sentenza della Corte Costituzionale afferma che si tutela la vita a partire dal 14° giorno successivo al concepimento.

Appare a questo punto opportuno fare un passo indietro ed illustrare l’iter storico giuridico del fenomeno nel nostro Paese e l’evoluzione della normativa in materia.

Com’è noto, il nostro ordinamento prevedeva la punibilità dell’aborto sic et sempliciter.

Il superamento del regime sanzionatorio proprio del codice Rocco risale alla sentenza della Corte Costituzionale del 18 febbraio 1975 n. 27 che, in accoglimento della questione sollevata dal Tribunale di Milano, dichiarava l’illegittimità dell’art. 546 c.p. “nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”, con riferimento quindi agli artt. 31 secondo comma e 32 primo comma della Costituzione. La Corte, premesso il rilievo costituzionale della tutela del concepito ai sensi degli artt. 2 e 31 della stessa carta fondamentale, ritiene che la salvaguardia dell’embrione dovesse cedere il passo di fronte al diritto alla vita e alla salute della madre, introducendo perentoriamente nel giudizio comparativo dei valori la distinzione filosofica tra vita umana e persona, tuttora problematica (si vedano in proposito le conclusioni del parere reso dal Comitato Nazionale per la Bioetica del 22.6.1996, “Identità e Statuto dell’Embrione Umano”).

Con la medesima pronuncia ritiene, inoltre, “obbligo del legislatore di predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione”.

Aderendo a tale autorevole richiamo il Parlamento italiano approvò la legge 22 maggio 1978 n. 194, attualmente vigente.

 

L’art. 1 del dettato normativo testualmente prevede che “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.

L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.
Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.”

Questa previsione normativa si pone in evidente continuità con la sentenza della Corte Costituzionale sopra citata (n. 27 del 1975), e afferma due principi fondamentali, che costituiscono altrettanti canoni interpretativi dell’intera legge, e cioè:

a) il diritto alla procreazione cosciente e responsabile;

b) la tutela della vita umana (significativo l’omesso riferimento al termine persona) dal suo inizio.

Quanto al punto a), risulta pregnante la sottolineatura contenuta nel secondo comma dell’art. 1, ovvero l’estraneità dell’interruzione di gravidanza dal novero dei mezzi di controllo delle nascite, la cui somministrazione, nell’ottica della procreazione cosciente e responsabile, è posta a carico dei consultori familiari istituiti con la precedente L. 29 luglio 1975 n. 405.

 

L'art. 2, lettera d, assegna ai consultori il compito di contribuire a "far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza".

Questa disposizione normativa appare una giusta direttiva, ma, di fatto, il contesto legislativo è tale per cui i consultori sono in realtà ridotti a meri centri di distribuzione di contraccettivi e di certificati per l'aborto.

Cosa ben diversa avviene invece nei consultori privati o nei Centri di aiuto alla vita, nei quali viene attuata una piena prevenzione ed offerto un concreto sostegno alle situazioni di difficoltà. Nel 2002 il Movimento per la vita italiano ha presentato un rapporto nel quale, pur non contestando la legge 194/78 – che pure è da questa organizzazione ritenuta una delle più permissive del panorama legislativo al mondo – insiste nella richiesta di applicazione di quelle norme, abitualmente trascurate, finalizzate proprio a rimuovere gli ostacoli che inducono le donne ad abortire, in conformità, peraltro, allo spirito ed al tenore letterale dell’art. 2 di detta legge. Questo dossier dimostra, inoltre, che tale attività di prevenzione è non solo doverosa ma fattibile, e spesso efficace, con dei risultati strabilianti. Secondo questo rapporto si può prudenzialmente ritenere che in 25 anni di attività dell’opera volontaria dei 260 Centri di aiuto alla vita disseminati sull’intero territorio nazionale, i bambini nati con il contributo del volontariato in questione sono stati almeno 55 mila!

 

Lo stato di cose appena descritto è acuito dalle disposizioni dettate in materia di obiezione di coscienza: l'art. 9, 1° comma riconosce, infatti, al personale sanitario il diritto di non prendere parte agli interventi per l'interruzione della gravidanza, prevedendo la facoltà di sollevare appunto l'obiezione di coscienza. L'ultimo comma di questo articolo stabilisce, tuttavia, che tale obiezione di coscienza si intende automaticamente revocata quando chi l'ha sollevata prenda parte ad interventi abortivi.

Se appare condivisibile tale revoca laddove l’obiettore prenda parte a procedimenti abortivi, altrettanto non può dirsi del fatto che l’obiezione di coscienza venga revocata anche a chi prende parte alle procedure che precedono l'aborto. Ci riferiamo, per esempio, ai colloqui che avvengono quando la donna si presenta al consultorio per chiedere di interrompere la gravidanza. In tal stato di cose, la gestante che pensa di abortire incontra sulla propria strada solo personale quantomeno indifferente alle tematiche etiche connesse all’aborto, o, al limite, convinto sostenitore del medesimo. Con il che, di fatto, si finisce per vanificare quanto disposto dall'art. 2 lettera d.

 

            L’art. 4 prevede che Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a) , della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.”.

E’ in tal modo regolamentata l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, consentita nell’ipotesi di “serio pericolo per la salute fisica e psichica” della madre ricollegabile alla prosecuzione della gravidanza, al parto o alla maternità, pur “in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito”: sono cioè enumerati i casi in cui la donna, entro i primi 90 giorni, può inoltrare la richiesta di interruzione di gravidanza. Tale casistica risulta talmente ampia, vaga e generica che, di fatto, qualunque motivo può essere sufficiente.

 

L’art. 6 prevede che “L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.”

Sono sostanzialmente ristrette, dopo i primi novanta giorni, le ipotesi di accesso alla pratica abortiva, cui si può ricorrere solo in caso di “grave pericolo per la vita della donna” (a) o in presenza di un accertamento di “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (b).

 

Ciò consente di affermare che la legge 194/78 non ha introdotto propriamente nel nostro ordinamento il diritto all’interruzione di gravidanza, quale interesse in sé e per sé giuridicamente tutelato, ma si è limitata ad ammetterne il ricorso in funzione di tutela della salute e della vita della madre.

 

Tale affermazione trova riscontro nella lettura degli stessi lavori preparatori che precedettero l’approvazione parlamentare della legge 194/78. La relazione di maggioranza alle Commissioni Riunite della Camera (Del Pennino e G. Berlinguer), presentata il 30 novembre 1977, precisava che, pur qualificandosi come penalmente irrilevanti i comportamenti conformi alle fattispecie descritte nella proposta di legge, non poteva da ciò dedursi “alcun giudizio di valore o alcuna affermazione di principio, non può minimamente farsi discendere l’equazione aborto=diritto civile”.

In epoca più recente la stessa Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità di un nuovo referendum abrogativo di alcune norme della L. 194/78, ha ribadito che “ciò che la Costituzione (artt. 2 e 31, secondo comma) non consente di toccare mediante l’abrogazione, sia pur parziale, della L. n. 194 del 1978 è quel nucleo di disposizioni che attengono alla protezione della vita del concepito quando non siano presenti esigenze di salute o di vita della madre” (30.1 – 10.2.1997 n. 35).

Discende da quanto detto che l’ordinamento non appresta tutela ad una situazione giuridica di privacy in sé e per sé considerata, né tanto meno all’interesse della gestante a decidere della prosecuzione della gravidanza a seconda dell’integrità fisica del feto, discriminandone la dignità umana in aperto contrasto con quando disposto dall’art. 3 della Costituzione e dall’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che vieta ogni discriminazione “fondata sulle caratteristiche genetiche (...) handicap (...) età”.

 

L'art. 5 della legge 194/78 riconosce alla sola donna il diritto potestativo di decidere in tema di aborto; il padre non può opporsi dato che la donna può non acconsentire a che venga ascoltato il parere del padre del nascituro.

La Corte Costituzionale venne investita della questione di legittimità costituzionale della norma in questione, per violazione del principio dell'eguaglianza dei coniugi ex artt. 3, 29 e 30 della Costituzione; ma, con ordinanza n. 389, depositata il 31.03.1989, la stessa Corte ne dichiarò la compatibilità con la nostra Carta Fondamentale. La decisione destò, invero, non poche perplessità. La Corte, infatti, affermò che tale circostanza risultava conforme a Costituzione in quanto il Parlamento così aveva deciso che fosse giusto, spogliandosi di fatto del proprio compito istituzionale che è esattamente quello di controllare se le scelte del Parlamento siano o meno conformi alla Costituzione.

 

Infine, a proposito dell'aborto delle minorenni, l'art. 12 esclude che i genitori, ove siano in disaccordo con la minore, possano opporsi. Questa norma, infatti, dispone che il giudice tutelare può autorizzare l'aborto anche contro la volontà dei genitori, addirittura senza sentirli!

Appare a tal proposito opportuno segnalare che si trova pendente innanzi alla Consulta, sollevata da un giudice tutelare, una questione di legittimità costituzionale per violazione della parità di diritti tra la madre ed il figlio concepito, sulla scorta di una sentenza del 1997 della medesima Corte Costituzionale (la n. 39) secondo la quale “il diritto alla vita del concepito, costituzionalmente riconosciuto, deve trovare protezione particolarmente nell’attuazione dell’art. 1 della legge 194”. Questo ricorso si fonda sul fatto che la legge non fissa alcun criterio di competenza territoriale del giudice tutelare cui la minorenne può ricorrere, per cui alcuni giudici hanno fatto presente che molte minorenni, che risiedevano o abitavano fuori dalla loro giurisdizione, hanno attribuito ad essi la competenza del proprio caso. La scelta di un giudice anziché di un altro non sembra essere indifferente per la minorenne, tenuto anche conto del fatto che il provvedimento di autorizzazione all’aborto è immediatamente esecutivo e non reclamabile.

Sicché non si può escludere che una minorenne che si veda negata l’autorizzazione da un giudice, si rivolga ad altro giudice, cosa che in effetti spesso avviene con una triplice conseguenza: 1. Sulla base dei medesimi dati personali e di fatto, si riscontrano decisioni giudiziali contrastanti tra loro; 2.Alcuni giudici di più larga manica si lamentano perché si sentono sottoposti a un superlavoro e a decisioni su cui, in base ai principi generali della competenza territoriale, non avrebbero la competenza di decidere; 3. Infine – ed è questo il motivo specifico del ricorso alla Consulta – in questo caso i soggetti interessati alla decisione del giudice tutelare sono due (la madre e il figlio) in palese conflitto tra loro, ma il concepito può usufruire di una tutela giuridica da parte dello Stato inferiore rispetto a quella della madre, la quale può scegliere un giudice che, a parità di condizioni, la può autorizzare più facilmente.

Un altro rilievo di natura costituzionale è stato suggerito da alcuni giudici tutelari. La legge 194/78 non soltanto non da il tempo necessario (soli cinque giorni tra la richiesta e l’emanazione del provvedimento), ma neppure consente al magistrato di avviare un’istruttoria, attività che sarebbe necessaria per verificare la gravità e la verità delle motivazioni addotte dalla giovane madre per la richiesta di aborto. Il che appare una violazione dell’art. 111 della Costituzione che prevede che “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”. Come può il giudice motivare adeguatamente la propria decisione e non limitarsi a recepire le dichiarazioni della minorenne? In queste condizioni, nella maggioranza per non dire nella quasi totalità dei casi l’autorizzazione diviene quasi automatica. E allora a che serve il ricorso al giudice?

 

 

 

B. CONSIDERAZIONI GENERALI

 

 

C’è in atto una tendenza alla così detta privatizzazione del fenomeno dell’aborto: molti ritengono che il problema dell’aborto riguardi solo ed esclusivamente la dimensione intima della coscienza della donna, la sua libertà di scelta e che lo Stato debba arrestarsi innanzi a questa soglia, limitando il proprio intervento alla sua regolamentazione legale.

Altri, invece, ritengono che il discorso sull'aborto non possa essere ristretto alla sua dimensione morale in rapporto alla singola persona che lo chiede o lo compie: lo si deve considerare anche in una prospettiva sociale.

In effetti, a noi sembra che l'aborto sia un fenomeno sociale per molteplici motivi: innanzi tutto perché coinvolge in profondità la relazione che lega tra loro i due esseri umani, la donna e il figlio; ha ripercus­sioni sulla coppia e sulla famiglia e, ancor più ampiamente, sull'ambiente sociale entro cui si è inseriti. Per questo l'aborto non può non sollecitare l'interesse e l'intervento dell'intera comunità politica.

Nel panorama delle leggi europee sull'aborto si evidenziano tre tipi di discipline. La prima è quella che vieta l'aborto tramite la penalizzazione di esso. Esempio ne è l'Irlanda che, in seguito all'approvazione del Pro-life Amendment del 07.10.1983, nella sua Costituzione, all’art. 40 3° comma, tutela esplicitamente il diritto alla vita dei bambini non ancora nati: “The State acknowledges the right to life of the unborn and, with due regard to the equal right to life of the mother, guarantees in its laws to respect, and, as far as practicable, by its laws to defend and vindicate that right”. (Lo Stato riconosce il diritto alla vita del non nato e, con dovuto riguardo all’uguale diritto alla vita della madre, ne garantisce nelle sue leggi il rispetto e, per quanto possibile, ne riconosce la tutela giurisdizionale).

Un'altra disciplina, opposta, ne stabilisce invece la piena liberalizzazione, come accade nella legislazione russa del 1920; una terza, intermedia, depenalizza l'aborto soltanto in certi casi.

è quest'ultimo il caso della legislazione italiana, detta del "doppio binario": prima del terzo mese c'è una vera e propria liberalizzazione; dopo i primi tre mesi la stessa è più restrittiva ed il ricorso all'aborto è consentito solo per gravi motivi.

Non riteniamo che, comunque, il problema aborto si possa semplicemente ridurre al binomio autorizzare=liberalizzare ovvero vietare=punire.

Non auspichiamo, in altri termini, l'emanazione di una legge che proibisca come reato l'aborto sempre ed in ogni caso. Una siffatta legge proibizionista-punitiva, infatti, non risolverebbe da sola tutto il complesso e difficile fenomeno sociale dell'aborto.

Neppure riteniamo legittima la positiva autorizzazione dell’aborto da parte dello Stato.

Come diceva Bobbio, lo Stato dovrebbe depenalizzare l'aborto, il che è cosa ben diversa dalla sua positiva autorizzazione!.

Lo Stato deve piuttosto puntare primariamente su di un intervento educativo, elaborando e diffondendo una cultura rispettosa e promotrice del valore della vita e del senso di responsabilità nei suoi confronti.

Deve inoltre puntare su un intervento sociale, sti­molando e offrendo iniziative, sussidi e possi­bilità di prevenzione e di sostegno per le gravidanze inde­siderate e difficili.

Diventa così necessario anche un intervento legislativo: è il problema della «regolamentazione legale», ossia della posizione della legge difronte a questo fenomeno sociale.

Per giustificare un intervento autorizzativo dello Stato in tema di aborto viene invocato il prin­cipio della tolleranza civile, in forza del quale lo Stato può, o addirittura deve, tollerare qualche male per evitare mali più gravi: «La legge civile non può abbracciare tutto l'ambito della morale, o punire tutte le malefatte: nessuno pretende questo da essa. Spesso essa deve tollerare ciò che, in definitiva, è un male minore, per evitarne uno più grande».

Ma il principio della tolleranza civile, nella sua concreta applicazione, non giustifica affatto la positiva autorizza­zione a sopprimere direttamente un innocente, come se lo Stato potesse concedere il «diritto» ad alcuni di chiedere e ad altri di compiere l'aborto: «La legge umana può rinunciare a punire, ma non può rendere onesto – potremmo dire, lecito - quel che è contrario al diritto naturale, perché tale opposizione basta a far sì che una legge non sia più una legge».

L'applicazione del principio della tolleranza civile al­l’aborto legalizzato è illegittima e inaccettabile perché lo Stato non è la fonte originaria dei diritti innati ed inalie­nabili della persona: non ne è di questi il creatore nè l'arbitro assoluto. 

Da quanto precede concordiamo con quanti, con un giudizio mo­rale netto sulla legge che autorizza l'aborto, ritengono che si tratti di una legge intrinsecamente e gravemente immorale, in quanto autorizza e rende legittimo quello che è stato opportunamente definito un “abominevole delitto”.

Tale legge, diversamente da quelle giuste e oneste, non ha potere di vincolare la coscienza: non può quindi mini­mamente intaccare il principio della inviolabilità di ogni vita umana innocente, che resta immutato e immutabile.

Alcuni obiettano che, in fondo, la legge 194/78 non impone ad alcuno l'aborto: chi non vuole abortire non è costretto a farlo ma si deve consentire, a chi lo desidera, di farlo in un quadro normativo chiaro!

La risposta a questa obiezione impone di fare un passo indietro: qual è il valore ed il posto in uno stato democratico dei così detti diritti fondamentali della persona? qual è il ruolo che lo Stato deve assumere con riferimento agli stessi? E, ancora, cos’è il diritto? Un puro ed asettico strumento per regolamentare il rapporto tra gli uomini oppure è altro?

E’ stato autorevolmente affermato che la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve.

Il rischio dei sistemi democratici è di risolversi in un sistema di regole non sufficientemente radicate in quei valori irrinunciabili, perché fondati sull’essenza dell’uomo, che devono essere alla base di ogni convivenza, e che nessuna maggioranza può rinnegare senza provocare funeste conseguenze per l’uomo e per la società.

Il fenomeno maggiormente positivo della moderna scienza giuridica e delle legislazioni democratiche è stato lo sviluppo dottrinale e normativo sui diritti fondamentali dell’uomo. Una filosofia che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, che non è lo Stato ma la persona umana, con la sua inalienabile dignità e libertà.

Dalla seconda metà del secolo scorso si va affermando nelle leggi ordinarie di molti ordinamenti civili il principio giuridico-positivo, frutto dell’immanentismo filosofico e del relativismo morale, secondo cui in una società democratica la razionalità delle leggi dipenderebbe soltanto da ciò che la maggioranza dei voti decida che venga permesso o stabilito.

Siamo di fronte a quella che è stata giustamente chiamata Democrazia “totalitaria” (espressione usata da Juliàn Herranz, Presidente del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei Testi Legislativi, nella sua Prolusione dal titolo “Persona, Diritto e Morale” pronunziata in occasione dell’Inaugurazione dell’anno giudiziario 2004 del Tribunale Ecclesiastico Regionale Siculo di Palermo il 03.02.2004): “una democrazia, cioè, in cui viene attribuito al Legislatore (come ai tempi dell’assolutismo monarchico, anzi di più), un potere illimitato, assoluto, anche al di sopra dei diritti fondamentali della persona che non sarebbero più innati, indisponibili ed inalienabili”.

In tale contesto il diritto viene inteso come realtà puramente convenzionale, contingente ed individualista. Si deve, viceversa, rilevare che un’autentica democrazia è possibile soltanto in uno stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Stato di diritto non è quello in cui la volontà del cittadino diventa in modo assoluto fonte esclusiva di ogni legge, come se la maggioranza dei voti generasse automaticamente l’autonomia assoluta della legge riguardo alla morale e alla stessa natura delle cose e potesse sottrarre le Istituzioni pubbliche della convivenza sociale ad ogni condizionamento di carattere etico. Stato di diritto è quello in cui le leggi tutelano i diritti fondamentali della persona umana, primo tra tutti il diritto alla vita. Si tratta di diritti naturali, universali e inviolabili: nessuno, né il singolo, né il gruppo, né l’autorità, né lo Stato, li può modificare né tantomeno li può eliminare.

Da questo punto di vista, a noi pare che il passaggio dell'aborto dal campo dei delitti a quello dei diritti possa avere la forza di minare le fondamenta stesse di uno Stato di diritto.

I diritti fondamentali dell'uomo, di cui quello alla vita rappresenta il “diritto fontale” (espressione usata da Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Evangelium vitae del 25.03.1995, n. 72), appartengono infatti all'uomo per natura; lo Stato non li conferisce, ha solo il dovere di riconoscerli dato che spettano a tutti gli uomini in quanto tali.

Lo Stato è privo del potere di conferire alla madre un vero e proprio “ius vitae ac necis" sul figlio; quand'anche una legge facesse ciò, contraddirebbe l'ideale democratico che vuole che le fasce più deboli siano protette; anzi, la civiltà di un paese, il suo livello di democrazia sostanziale si misurano sul livello di protezione dei più deboli, e ci sono persone più deboli, più povere e bisognose di tutela di chi non è ancora nato, ma è già uomo?

Una siffatta legge è antigiuridica; essa non solo non fa scaturire alcun obbligo di obbedienza, ma addirittura fonda il diritto alla resistenza attiva e passiva, alla protesta e a porre in essere tutti i mezzi, democratici s'intende, che consentano di ristabilire la giustizia violata.

Con questo – si ribadisce - non si vuole propugnare una penalizzazione tout court dell'aborto; anzi appare evidente che l'aborto è un problema sul quale lo Stato deve intervenire, ma – si badi - non nel senso di autorizzare la soppressione delle vite umane (lo Stato non ha la facoltà di autorizzare ciò), ma attuando un vasto intervento a sostegno della vita e della maternità e combattendo le vere cause del problema. Ci si riferisce, in concreto, alla previsione di sussidi di tipo anche economico a favore di donne che versano in difficoltà, ad interventi volti a facilitare l'adozione, il diritto alla casa e il diritto al lavoro, nonché al mantenimento dell'occupazione, colpendo più drasticamente quel deprecabile fenomeno dei patti di licenziamento condizionati dall'eventuale maternità. Insomma, interventi come quelli auspicati dal primo comma dell'art. 1 della legge 194 del 1978.

A tal proposito mi sembra opportuno una precisazione.

Spesso si invoca un maggiore intervento dello Stato al fine di prevenire l’aborto, con ciò alludendo in modo pressochè esclusivo, ad una maggiore diffusione dei metodi contraccettivi. L'insistere anche sulla prevenzione ci trova favorevoli ad un’esigenza di chiarezza: la distinzione tra tutela del diritto alla vita ed etica della sessualità e della contraccezione. L’abortismo cerca, infatti, di confondere i due temi, ma va mantenuta la distinzione tra la fase prima e la fase dopo il concepimento. Il precetto “non uccidere” è alla base di ogni ordinamento civile e fa parte del "minimo etico" indispensabile per qualunque convivenza, mentre non appartiene ad esso tutto ciò che si riferisce alla procreazione responsabile. Non viene qui auspicato uno Stato etico che vieti e sanzioni l’utilizzo di strumenti contraccettivi. Se da un punto di vista della morale coniugale, per alcuni tale utilizzo rappresenta un atto gravemente immorale, non sembra rientrare tra i fini che lo Stato deve prefiggersi consigliarne o vietarne l’uso ai cittadini.

Ma, allorquando il concepimento è avvenuto, un’altra vita è apparsa, sia pure ancora nascosta all’interno del grembo materno, lo Stato può, deve interessarsi di questo essere. Come opportunamente affermava Bobbio nella citata intervista, “una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere”.

Certo il grave fenomeno degli aborti clandestini imponeva ed impone una regolamentazione legale; ma l’intervento statale, sia pur necessario, non giustifica affatto la positiva autorizzazione a sopprimere vite umane. Lo Stato non può concedere il diritto ad alcuno di chiedere e ad altri di compiere l'aborto, proprio perchè è privo di tale potere; può tutt'al più rinunciare a punire, ma non può certamente rendere lecito quel che è contrario ai diritti naturali dell'uomo. Legiferando in tal modo, lo Stato contraddice radicalmente se stesso e il senso stesso della sua presenza, e compromette in modo gravissimo l'intero ordinamento giuridico; una legge che si oppone ai diritti nativi ed inalienabili della persona non solo è intrinsecamente immorale, ma non può nemmeno dirsi una legge. E' infatti da tutti riconosciuta, a prescindere dalle singole ideologie, l'affermazione perentoria secondo la quale lo Stato non è la fonte originaria dei diritti dell'uomo.

 

C. CONCLUSIONE

 

 

Nei primi 25 anni di applicazione della legge 194/78, in Italia si sono registrati oltre 4 milioni di aborti legali. Senza considerare poi quelli clandestini, la cui piaga non è stata affatto eliminata da questa legge, contrariamente agli intenti dei suoi sostenitori, e come puntualmente sottolineato dal Ministro della Giustizia nella sua Relazione sull'attuazione della legge relativa all’anno 1992; al punto che da più parti si è parlato a questo proposito di "abortopoli". Secondo le stime dell’ISTAT ci sarebbero almeno 20 mila casi di clandestinità l’anno.

Quattro milioni di esseri umani uccisi con l'autorizzazione e con l'aiuto dello Stato nelle strutture sanitarie, a spese dell’intera collettività essendo l’interruzione volontaria della gravidanza a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale. Questi dati sono tratti dalle Relazioni sull'attuazione della legge che ogni anno ex art. 16 il Ministro della Sanità e quello della Giustizia hanno l’obbligo di presentare al Parlamento.

Uno scenario che conferma che la legge 194/78 svolge una funzione incentivante e moltiplicativa.

“Lecito giuridico” per molti è diventato sinonimo di “lecito morale” cosicché l’abbattimento della barriera della penalizzazione ha influito sul fenomeno amplificandone i numeri, come è confermato anche dall'esperienza americana. Negli Stati Uniti, da una stima presuntiva di 100.000 aborti annuali, tutti illegali, del 1972, si è passato a 750.000 nel 1974, un anno dopo la storica sentenza Roe/Wade che legalizzò appunto l'aborto, e agli 1.600.000 aborti annuali odierni. E’ stato calcolato che in Francia l'incentivo della legalità ha pesato per oltre il 40 per cento.

Si parla in questi casi di "reazione a catena", perché è noto che, se da una serie di comportamenti devianti si trae lo spunto per modificare una norma penalizzante, la nuova norma permissiva - appena introdotta - incide ulteriormente sul costume sociale.

Il vecchio brocardo "non omne quod licet honestum est" - che da 2000 anni ha voluto sottolineare come il comportamento che si muove nell'ambito della "liceità giuridica" non significa che sia corrispondente alla "onestà morale" - perde significato,  e la liceità giuridica determina la persuasione della liceità anche morale.

 

 

 

 

* Avvocato

 
     
     
     
 
 
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