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Quale
fondazione per la norma morale?
di
Pietro Cognato*
1. Premessa
«L’etica occupa finalmente i pensieri
di molti. Ma non bisogna troppo gioirne».
Questo è il pensiero di C. Vigna che noi condividiamo se è
vero che si parla di etica così come si parla di salute
quando la malattia ha il sopravvento. Se l’etica occupa i
pensieri di molti, questi molti spesso non sanno che cosa
è ciò di cui si occupano. La partecipazione appassionata
sulle problematiche etiche, cioè, palesa certamente una
riappropriazione della capacità che ognuno possiede di
esercitare la facoltà di giudizio senza l’ausilio di un
argomento d’autorità. E ciò costituisce ciò che potremmo
chiamare l’etica della contemporaneità ovvero quel
particolare rapporto che l’uomo contemporaneo percepisce e
concepisce con i fenomeni morali. E’ vero anche che in
concomitanza a ciò si è persa di vista la specifica
competenza del moralista (filosofo o teologo che sia),
quella che si costituisce di tutte quelle conoscenze che
permettono di istruire una riflessione specificamente
morale su un contesto operativo senza confusioni di
contenuti (interdisciplinari) e di metodo
(transdisciplinari). S. Privitera utilizza l’immagine
della piazza per descrivere la concezione che spesso
dell’etica si ha, distinguendosi così da altre discipline
che sono castelli arroccati sulla cima di un monte.
Altrimenti detto, in molte questioni che sollevano quesiti
di natura etica non è raro trovare riflessioni non
rigorosamente morali, perché dal punto di vista
strettamente metodologico viene equivocata la specificità
della riflessione morale, che è di natura assiologica e
non di natura empirica o giuridica. Per fortuna non è
sempre così.
È nostra intenzione riflettere su che cosa si intenda per
norma morale e che cosa comporti una certa concezione
della norma morale per l’intero concetto di etica.
Vorremmo espletare il
compito di spiegare che cosa si intenda per norma morale
perché siamo convinti che ci può essere confronto sul
terreno delle problematiche etiche solo se si è d’accordo
sul concetto di “norma morale” e che tale confronto può
mantenere la sua natura di confronto se è animato dalla
consapevolezza che esiste un dovere morale di orientarsi
sempre verso il bene. E ciò ci rimanda all’unica questione
metodologica dell’etica normativa consistente nel mettere
a punto una pista argomentativa che sia all’altezza di
fondare una norma morale.
2. La natura della
norma morale
La domanda “quale
fondazione della norma morale può avere una risposta
chiara solo se ci chiediamo che norma è quella morale. E
ciò perché la domanda “quale fondazione” non è mai
irrelata dalla domanda “quale norma”. Se la norma viene
intesa come una norma di natura sociologica oppure
culturale, la sua fondazione sarà di tipo sociologico o
culturale. Ritenendo scontato che cosa sia una norma
morale, non si riflette abbastanza sulla sua natura e
quanto ciò sia vero è presto rinvenibile nel momento in
cui al quesito: che cos’è una norma morale? le risposte
sono tante quanti sono tutti coloro che vi tentano una
soluzione. A questa difficoltà si aggiunge il fatto che la
questione relativa alla possibilità di conoscere cosa sia
una norma morale è correlata alla questione di sapere che
cos’è l’etica. Perciò risulta indispensabile riformulare
la domanda iniziale: non tanto “quale fondazione della
norma” bensì “che cos’è la norma perché noi la possiamo
fondare?
2.1. La norma è morale
perché è assoluta
Oggi si pensa che quello
dell’assolutezza è un problema più che una soluzione di
ciò che sia morale.
Pensiamo che un motivo per cui le questione bioetiche sono
attraversate dal duopolio
“sacralità-qualità”, “laico-cattolico”,
“disponibilità-indisponibilità” e caratterizzate da
continue relative rivendicazioni
della bontà dell’una e dell’altra parte, sta nel fatto che
il termine assoluto venga assunto come discriminante tra
alcune norme ed altre norme, tra quelle dette
intrinsecamente cattive e quelle che prevedono delle
eccezioni, giudicando quest’ultime, appunto, non assolute.
Oggi si tende a non accettare la possibilità di formulare
una norma assoluta a motivo della perfettibilità
dell’intenzione umana. Poiché, cioè, si incontrano delle
difficoltà nella realizzazione di un comportamento, ciò
basta per rifiutare a priori che una norma morale sia
assoluta. C’è da far notare che per quanto nessuno
possieda gli elementi per giudicare correttamente
l’intenzione con cui viene posta un’azione, tutti hanno la
possibilità ma anche il dovere di formulare una norma sul
comportamento, che può esprimersi solo in due modi: o quel
comportamento è moralmente errato o è moralmente
corretto. Il rifugiarsi nell’atteggiamento interiore di
una persona, il nascondersi dietro alla comprensione che
si deve alla considerazione dell’incapacità della persona
di essere perfetta, di non sapere sempre quello che è
giusto fare o non fare, finisce per essere una chiara
negazione dell’assolutezza della norma morale, della sua
categoricità.
Ma, il problema della
fondazione delle norme morali, lo abbiamo già annunciato
sopra, è speculare al problema della fondazione della
morale. Nel momento in cui si ritiene inutile e superfluo
trovare un fondamento alla morale, si riterrà almeno
eccessivo il tentativo di affibbiare la caratteristica di
categoricità alle norme morali. È in gioco la
pre-comprensione che si ha dell’etica come riflessione e
come vita vissuta. Se guardiamo al fenomeno morale, vero
ed unico oggetto dell’etica, e se questo fenomeno si
sostanzia principalmente per il suo carattere valutativo,
per la sua spinta verso l’ideale, per la sua non
identificazione con il piano fattuale e, ancora, se i
giudizi morali vengono elaborati come risposta a questo
piano ideale, risulta indispensabile la caratteristica di
assolutezza della norma morale, che tradisce l’in sé
dei valori e smentisce il per me di un valore. La
domanda da fare è: è il modello di etica che si assume che
decide della pertinenza normativa del suo discorso oppure
è l’insistenza normativa sul discorso morale in quanto
tale che decide della natura del suo modello? Nella nostra
intenzione la domanda è retorica in quanto l’etica non può
che avere un fondamento assoluto che è, a sua volta, la
condizione di possibilità per formulare un giudizio morale
vero. Tra il fondamento assoluto e la possibilità di
formulare un giudizio morale vero c’è una logica
connessione che evita da una parte un’etica della
situazione dall’altra il decisionismo. E questo non
conduce inevitabilmente all’idea, allora, secondo cui una
morale così concepita, cioè fondata sull’assoluto, conduca
all’individuazione di norme morali assolute nel senso di
intrinsecamente illecite distinte da quelle che prevedono
eccezioni. Se assumiamo il termine assoluto come
“incondizionatezza” e per incondizionatezza indichiamo
quell’esigenza che si aggettiva come etica e che si
distingue da tutte le esigenze che una persona può
avvertire nella sua vita, allora non possiamo sfuggire
alla seguente conclusione: non c’è etica senza assoluto a
meno che non si voglia intendere per etica l’ethos
vigente; e non vi sono norme morali non categoriche, a
meno che il rifiuto della categoricità delle norme camuffi
il rifiuto di un certo modo di fondare le norme morali. In
questa prospettiva, quelle che vengono chiamate eccezioni
alla norma sono solo nuove formulazioni normative e
nient’altro che possano minare la categoricità della norma
in quanto morale.
2.2. La norma è morale
perché è universalizzabile
La norma è assoluta nel senso che essa
per essere tale deve sottostare alla logica della
universalizzabilità, che è quella che attiene al piano
dell’idealità assiologica, piano, giustappunto, specifico
dell’etica. Ne consegue che innanzitutto, la certezza
sulla verità di una norma morale non è data dal consenso:
la questione della fondazione delle norme, cioè, si
consuma solo nei termini del “se”, “quando” e “perché”
un’azione è lecita o illecita e non nei termini di ciò che
afferma una maggioranza totale o parziale o una stessa
minoranza. Significa, in secondo luogo, che per ogni
comportamento umano c’è una ed una soltanto norma morale
giusta. Il tentativo di oggi non è quello di superare
qualsiasi prospettiva relativistica attraverso la
negazione che vi possano essere due giudizi veri sulla
medesima azione e il proponimento dell’etica nella
globalità delle sue esigenze, anche e soprattutto quelle
di natura normativa, ma quella di bypassare ciò riportando
il discorso etico sul binario del “minimum”.
Dalla prospettiva che stiamo cercando di delineare il
dissenso che vige riguardo a ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato non deve essere interpretato come
l’impossibilità di conoscere oggettivamente i valori, ma
piuttosto come conseguenza della incompleta perché
limitata capacità conoscitiva dell’uomo. La mutevolezza
dei giudizi morali non nega affatto, sempre da questa
prospettiva che è quella dell’universalizzabilità, la loro
dimensione assiologica ma è la conseguenza della non
sempre completa conoscenza di tutti quegli elementi utili
alla loro formulazione. La difficoltà a formulare una
norma di comportamento non deve essere il criterio di
legittimazione dell’idea secondo cui tutto è relativo,
soprattutto se ciò attiene alla responsabilità personale
di fare o non fare un’azione, bensì deve nutrire il dovere
della ricerca di ciò che è buono.
2.3. La norma è morale
perché è morale
Da che cosa dipende
l’assolutezza e l’universalizzabilità di una norma morale?
La domanda è tautologica: l’assolutezza di una norma
morale dipende dal fatto che la norma è morale. Non c’è
morale senza assoluto, non ci sono norme morali non
assolute. Allora, non è neanche la diversità di piste
etico-normative battute che determina una maggiore
assolutezza della norma morale. Se una pista o
un’argomentazione è etico-normativa è già funzionale alla
formulazione di norme morali assolute, altrimenti non
sarebbe un’argomentazione etico-normativa ma
relativistica. Le piste etico-normative in quanto tali
convergono nel riconoscere il dovere di osservare la norma
che viene formulata a partire dalle loro argomentazioni.
La dimensione prospettica che qui è stata evidenziata è
quella della necessità di comprendere l’assolutezza come
modo d’essere delle norme morali per meglio identificare
la problematica di quale argomentazione etico-normativa
porti ad una norma che sia l’esatta riformulazione
prescrittiva di un giudizio morale. L’assolutezza di una
norma morale non dipende dal tipo di procedimento
etico-normativo in quanto il procedimento in se stesso non
può avversare ciò per cui è stato posto, ovvero la
formulazione di una norma morale che in quanto tale è
assoluta.
3. Deontologia e
teleologia: il senso di un dibattito
Quali sono queste piste etico-normative?
Fondamentalmente soltanto due se ci limitiamo a
descriverne l’ossatura logica essenziale, sebbene si
precisi che bisognerebbe anche distinguere in due modi le
due piste, avendo quindi non solo due piste
etico-normative ma due modi di utilizzare tale
distinzione, uno filosofico ed uno teologico:
la pista deontologica e la pista teleologica. Quest’ultima
diverge dalla prima perché fonda le norme morali sempre e
per tutte le azioni sulle conseguenze di esse, invece la
deontologia ritiene che almeno per alcune azioni non è
necessario rifarsi alle conseguenze delle stesse. Le
azioni che vanno valutate non in base alle conseguenze
sono quelle concernenti la sfera della sessualità, della
vita umana e del linguaggio, sebbene solo per quelle
concernenti la sessualità, almeno il magistero cattolico,
non si guarda veramente mai alle conseguenze. Le due piste
sono per definizione contraddittorie nel metodo di
individuazione delle norme ma convergono nel fatto che
vogliono individuarle per osservarle. Sebbene sul piano
normativo questo si traduca nella distinzione tra il modo
di procedere relativistico e quello che è il modo di
procedere delle due piste etico-normative che non è
relativistico e sebbene ogni argomentazione non
relativistica si identifichi sempre o come argomentazione
deontologica o argomentazione teleologica, succede
sistematicamente che il passaggio da una argomentazione
deontologica a quella teleologica è letta come il
passaggio da una argomentazione etico-normativa al
relativismo. E’ automatico pensare che guardare alle
conseguenze significa ritenere meno assoluta la norma. Ma
se l’assolutezza di una norma, come abbiamo cercato di
mostrare, non dipende dall’argomentazione ma da se stessa,
il passaggio equivale semplicemente ad un cambiamento
argomentativo nel momento in cui l’argomentazione fino a
quel momento utilizzata si rivela poco efficace
nell’aderire alla realtà che si sta giudicando. Quello che
dovrebbe impegnare il dibattito non dovrebbe essere tanto
se si è deontologi o se si è teleologi, bensì se i giudizi
che le due piste etico-normative riescono sempre e
comunque a formulare sono universalizzabili, quindi
assoluti e morali. Il confronto sul piano argomentativo
dovrebbe condurre alla verifica delle argomentazioni e
alla disponibilità a cambiarle nel caso in cui dovessero
risultare deficitarie del principio di universalizzabilità.
Chiedersi perché il deontologo nel seguire la sua teoria è
incapace di applicarla a tutti i contesti operativi
potrebbe far molto riflettere, così come sarebbe più
proficuo nel dibattito evidenziare che il giudizio operato
in base alle conseguenze non si identifica tout court con
uno sconto dell’assolutezza delle norme morali se queste
conseguenze sono prese tutte in considerazione. A motivo
di ciò bisognerà chiedersi se il rifiuto dell’assolutezza
predicata per le norme morali sia il rifiuto
dell’argomentazione deontologica oppure il rifiuto della
categoricità in sé delle norme morali e se l’affermazione
dell’assolutezza si identifichi spesso e volentieri solo
con l’argomentazione deontologica, escludendo da questa
possibilità l’argomentazione teleologica.
* Istituto di Studi
Bioetici “Salvatore Privitera”. Vicedirettore
della rivista “βio-ethoς”
Scrive Reichlin: «La distinzione tra deontologia e
teleologia è più complessa di quanto generalmente non
si pensi. In primo luogo, perché con tale distinzione
si indicano due scansioni diverse, benché chiaramente
correlate. Da un lato, in ambito filosofico, essa è
utilizzata per distinguere tra teorie morali fondate
su un insieme di proposizioni che definiscono a priori
ciò che è giusto e che vincolano al rispetto di tali
principi la produzione di conseguenze positive, e
teorie morali che invece definiscono il giusto in
funzione della bontà delle conseguenze, ossia per le
quali la validità di ogni principio normativo dipende
dalle conseguenze di aderirvi o non aderirvi in
ciascuna circostanza particolare. D’altro lato, in
ambito teologico, la distinzione è utilizzata per
distinguere due diversi modi di fondare o giustificare
le norme morali materiali: la fondazione deontologica
è basata sull’identificazione della “natura
intrinseca” di certi atti — come ad esempio uccidere o
mentire — che le norme rispettivamente vietano o
impongono come doverosi, la fondazione teleologica è
basata sull’attitudine degli atti vietati o imposti a
promuovere certi valori o evitare certi disvalori. I
due modi di utilizzare la distinzione non sono
identici, ma chiaramente si richiamano l’un l’altro»
(M. Reichlin, Sulla fondazione e la validità delle
norme morali: tra deontologia e teleologia, in
«Questioni di Bioetica» (il presente numero).
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