Un
caso bioetico: l’attribuzione degli status personae
e la deduzione dei corrispondenti munera nella
filiazione a seguito di surrogazione di maternità
di Alessandro Pizzo
e Giovanna Batia
0. Premessa.
È sempre difficile stabilire con esattezza il
contributo personale quando due intenzionalità
cooperano per realizzare un dato compito. Tuttavia,
dato che viene fatta richiesta di responsabilità
personali nella composizione del presente scritto,
fatta salva l’avvertenza che comunque entrambi hanno
assorbito ed elaborato le idee altrui, Alessandro
Pizzo è autore del paragrafo 2; Giovanna Batia dei
paragrafi 3, 4 e 5. Entrambi sono autori dei paragrafi
1 e 6.
1. Introduzione e delimitazioni concettuali.
L’utilizzo delle moderne tecniche di assistenza alla
procreazione
ha un effetto dirompente sulla maniera d’intendere le
funzioni sociali delle persone e sulla modalità di
considerare conseguentemente l’attribuzione di doveri
sociali. Spesso si ha anzi sentore che proprio questo
supporto tecnologico alle difficoltà riproduttive,
specie nella forma della surroga di maternità, ponga
in essere una natura negoziale
delle pratiche riproduttive. Sembra, cioè, che alcune
particolari tecniche di riproduzione artificiale
vadano ad incidere sullo ius filiationis,
modificandone in profondità il significato elaborato
nel corso dei secoli e, in quanto seguente un preciso
ordine naturale, ritenuto appunto “naturale”.
Inutile dire che proprio l’evoluzione della maniera
attraverso la quale una società
concepisce, e regola di conseguenza, la propria
funzione riproduttiva concorre a modificare
profondamente i medesimi assunti sui quali il sistema
normativo di quella stessa società si fonda. Ciò vuol
dire che istituti “naturali” quali la famiglia
e la sua stessa intenzionalità generativa subiscono la
medesima evoluzione che attraversa qualsiasi altro
oggetto culturale.
Questo effetto della cd. società della tecnica,
tuttavia, non è certo l’unico. Infatti, le pratiche
mediche presenti, concernenti una sostituzione della
maternità attraverso la cooperazione di più attori
sociali, possono incidere sullo status
genitoriale che fino ad ora non era stato messo in
discussione, generando in fin dei conti
un’interscambiabilità di ruoli e/o funzioni che
mettono in questione l’attribuzione degli status
personali a seguito di procreazione. Va da sé, che il
ruolo oggi svolto dalla tecnologia se da un lato
accelera questo processo evolutivo, dall’altro
modifica il senso stesso che il diritto attribuisce ad
aspetti della vita di una comunità. Infatti,
certamente una delle funzioni più importanti per una
società
è la sua conservazione attraverso il ricambio
generazionale. La tecnologia, dunque, per certi
aspetti, incide su tale processo ed apre scenari prima
impensabili. In questo modo, il processo procreativo,
che rientra in una delle sfere più private della
cellula base della società, la famiglia,
assume sfumature diverse da quelle considerate
“tradizionali” dalla cultura, e dalla sua controparte
sociale, il diritto. Infatti, l’uso delle tecniche di
procreazione
medicalmente assistita, specie quando consentono una
filiazione
al di fuori della coppia originaria che si propone di
avere una prole,
richiede una modifica del modello giuridico sin qui
utilizzato. È pur vero che la funzione dell’ausilio
biomedico in questo caso è rivolto alla cura della
sterilità,
finalità quanto mai positiva, ma è altrettanto
indubbio che alcune di queste tecniche incidano sui
modelli giuridici vigenti.
In proposito, l’interesse del presente scritto va alla
maternità
per sostituzione,
la quale s’inserisce ovviamente nel più vasto insieme
delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Tale pratica, originariamente non disciplinata dal
diritto, si colloca in una dimensione privatistica
concernente l’accordo
che le parti conseguono per realizzare un processo
procreativo. In particolar modo, si tratta di
stabilire quale valenza giuridica tale accordo
privato, che viene posto in essere dalle parti, possa
avere. Infatti, la questione è individuare quali
effetti si abbiano sulla sanzione giuridica degli
stati personali e dei conseguenti munera a
seguito della pratica procreativa. In particolar modo,
s’intende mostrare quali siano le conseguenze sulla
società e sul diritto di un tale caso bioetico.
Infine, un’ultima avvertenza prima d’iniziare.
Leggendo si potrà avere l’impressione che gli autori
abbiano una certa accondiscendenza nei confronti della
pratica in oggetto. Ciò è, in realtà, l’effetto della
metodologia prescelta: analisi degli effetti sulla
giurisprudenza di tale caso bioetico, con momentanea
messa tra parentesi di qualsiasi opzione valutativa al
riguardo. Una lettura più attenta, d’altra parte,
consentirà di far comprendere la reale posizione di
chi scrive in merito. Peraltro, quanto viene perso nel
corso del presente scritto è parzialmente recuperato
in sede conclusiva.
2. Le possibilità della “tecnica” e il diritto a
procreare.
Costante dell’orizzonte culturale all’interno del
quale viviamo è certamente l’enorme potenziale che si
apre all’azione umana grazie alle tecnologie:
infatti, sono oggi possibili interventi che sino a
poco tempo fa apparivano impossibili.
Da questo punto di vista non è errato considerare
l’epoca odierna l’età della tecnica e noi tutti, chi
più chi meno, figli della tecnica.
Tuttavia, sembra che il ruolo della tecnica sia
maggiore se si pone attenzione all’importanza che
assume nel campo della riproduzione
umana.
Infatti, essa rende possibili fecondazioni
assistite (in soggetti, o dalle ridotte
capacità generative, o dall’assente potenza
generativa), congiuntamente a tutta una serie di altri
interventi manipolativi su materiale biologico e
genetico umani.
Si pensi, ad esempio, alla clonazione di cellule
umane; alle manipolazioni genetiche; e così via. In
altri termini, ma questo è oramai un vero e proprio
“luogo comune”, la scienza
consente all’uomo di mettere le mani sull’albero
della vita.
Infatti, si esprime una gamma molto ampia di
possibili interventi, che ripropongono, sia pure in
forme molto diverse, l’antico dilemma ben colto dalla
tragedia greca: fermarsi a quanto è “naturale” o
seguire l’impeto prometeico? Si tratta,
infatti, di potenzialità che si pongono al di là
dell’orizzonte culturale già di pochi anni fa.
Potenzialità, dunque, tendenti a modificare
sensibilmente la dimensione antropologica della stirpe
umana, con effetti in parte ancora tutti da valutare.
Pertanto, è quasi inevitabile che si siano generate
discussioni, anche aspre, sulle opposte opzioni che è
possibile mandare ad effetto rispetto alle possibilità
in generale della scienza e della tecnica,
possibilità comunque desiderata per l’innegabile
effetto di miglioramento della qualità della vita.
D’altra parte, non è possibile ignorare come l’enorme
potenziale scientifico
si colleghi alla finalità di ottenere una migliore
comprensione della fisiologia riproduttiva umana allo
scopo, se è possibile, di intervenire per “migliorare”
un processo naturale.
Infatti, se da un punto di vista comune è normale
desiderare una prole,
è certamente desiderabile utilizzare le
tecniche mediche per superare limiti biologici (p.e.
l’infertilità), pur di vedere realizzato il proprio
desiderio.
Anzi, è, forse, possibile registrare la tendenza a
conferire ancor maggior forza a questo desiderio
proprio nei casi in cui per la coppia è più difficile
il concepimento di figli propri. È,
ovviamente, una forzatura, ma ha il pregio di render
bene proprio una delle modifiche antropologiche al
sentire comune. Infatti, il
desiderio procreativo delle coppie è quello di avere
figli legati geneticamente a sé, anziché, piuttosto,
ovviare alle difficoltà riproduttive attraverso i
(sempre difficili) canali adottivi.
In certi casi, il proprio desiderio (privato)
viene considerato, vissuto, qualificato, alla stregua
di un vero e proprio diritto (generale).
In effetti, sembra che l’orizzonte etico venga
modificato di pari passo con l’evoluzione scientifica.
Anzi, sarebbe più corretto dire che è modificato
proprio dal progresso scientifico. Inevitabile,
dunque, che il ««tecnicamente possibile» appaia per
ciò stesso «eticamente lecito»; anzi, in qualche
misura, addirittura obbligatorio per il bene
dell’umanità».
In altri termini, il progredire delle tecniche rende
«la fecondazione artificiale
un fenomeno del nostro tempo».
Ciò spiega, almeno in parte, come mai si tenda più a
servirsi dei ritrovati tecnologici che dei normali
canali adottivi
.
Dunque, in genere, le tecniche di procreazione
medicalmente assistita sono tutte quelle tecniche (per
ciò sintetizzate nella locuzione TRA, tecniche di
riproduzione artificiale) le quali intervengono
“artificialmente” nel processo procreativo,
portando alla procreazione (artificiale). Ciò come detto,
anche al fine di evitare le strettoie (soprattutto,
burocratiche) dell’adozione. Ma va precisato come «l’adozione
contempera la legittima aspirazione dei genitori –
adottivi – alla «procreazione»
con il prevalente interesse del minore.
La fecondazione artificiale,
per contro, finisce per soddisfare il solo – posso
dire «egoistico»? - interesse della coppia».
Questa tendenza può anche confluire nella pretesa, da
parte dei singoli, di vedere il proprio desiderio (pur
legittimo) esaudito in quanto qualificato alla stregua
di un (vero e proprio) diritto alla
procreazione.
In questo senso, appare rilevante porsi la domanda se
esista o meno un diritto ad avere figli.
Per di più, essendo compito del diritto regolamentare
fattispecie prima non contemplate, specie al fine di
prevenire eccessi ed abusi, accordando protezione agli
interessi meritevoli di tutela e alle parti più
deboli, ecco che si è fatta pressante, negli ultimi
trent’anni la necessità di fissare regole,
tutele e limiti alle pratiche che
collegano la cura dei problemi di fertilità
con le possibilità della moderna tecnologia
riproduttiva.
Infatti, «da anni orami la scienza
giuridica è attenta alla prepotente affermazione
sociale delle tecniche di procreazione
artificiale. La diffusione del fenomeno pone infatti
gravi interrogativi giuridici che, pur tendendo a
sfumare nella competenza di altre discipline,
dall’etica alla medicina, dalla psicologia alla
teologia, richiedono, anzitutto al mondo del diritto,
risposte di indirizzo».
Questo anche alla luce di uno dei principi
che è possibile considerare fondante degli ordinamenti
giuridici occidentali: il rispetto della vita umana.
Sono certamente molti i rischi determinati da un uso
non regolato delle pratiche di cura dell’infertilità
in quanto è possibile perpetrare degli “abusi”, specie
nei confronti dei soggetti meritevoli di tutela.
Per questo motivo, alla riflessione sui canoni e sui
criteri da seguire nel fissare delle regole
in materia, tensione in cui certamente consiste il
diritto, s’è accostata nel tempo la riflessione
bioetica,
tesa a codificare i valori, e conseguentemente
le regole, tesa cioè a informare la
pratica medica e la legislazione.
In effetti, si parla oggi, proprio per riferirsi al
complesso ambito dei rapporti tra medicina e diritto,
di biogiuridica,
intendendo con tale locuzione la riflessione su come
il diritto debba porsi la questione della tutela dei
diritti dal momento che le scienze biologiche mettono
ormai in discussione i complessi di conoscenze
acquisite.
Tuttavia, la necessità di una scienza
libera
e le moltissime opinioni discordanti hanno impedito in
passato di trovare un accordo
su cosa (e come) sia lecito fare, e cosa no,
rendendo di fatto possibile un lungo far west,
specie nella Procreazione Medicalmente Assistita,
e specialmente in Italia,
ove il dibattito ha risentito anche di problemi
politici contingenti, nonostante che la pubblica
opinione fosse comunque (in parte) cosciente delle
tendenze cliniche: «clamorosi episodi
giurisprudenziali hanno segnalato alla pubblica
opinione alcuni tra i gravi problemi etici, sociali e
giuridici suscitati da tale fenomeno, e l’incertezza
su risposte che almeno in taluni casi la coscienza
sociale non sembra pronta ad offrire».
Necessario è apparso così operare un bilanciamento
tra le opposte ragioni e le finalità dell’operato dei
valori
dell’ordinamento
al fine di tutelare la vita umana,
così come i diritti individuali,
cercando anche di mettere al riparo la filiazione
umana da (onnipresenti) tentazioni economiche.
In alcuni casi anche ci si è chiesti se fosse il caso
di regolare le pratiche di fecondazione artificiale,
se cioè non fosse il caso di lasciarle al buon gusto
dei privati,
pur tenendo conto, comunque, che in ogni caso, a
livello più generale, il progresso scientifico mette
seriamente a dura prova la coscienza umana.
Più limitatamente, intenzione del presente scritto è
riflettere sui profili giuridici di un
caso bioetico direttamente generato dalla PMA:
la surrogazione
di maternità.
Prima di procedere, però, è bene illustrare alcune
sfumature tra le TRA. Infatti, è possibile osservare
come molti interpreti abbiano utilizzato
indistintamente locuzioni quali “maternità
surrogata”,
“maternità per sostituzione”,
“locazione d’utero”,
e così via. In realtà, a nostro sommesso parere,
ciascuna locuzione sottende fattispecie differenti.
Tuttavia, è anche vero che una sola è la tecnica
procreativa umana e che tutte le metodiche di PMA,
in qualche modo, realizzano una sua surrogazione
per via artificiale. A questo punto, è bene tenere
presenti quali siano le varie tipologie di PMA
adoperate:
1. FIVET
(fecondazione in vitro e trasferimento degli
embrioni);
2. ICSI
(iniezione introcitoplasmatica di sperma);
3. GIFT
(gametes intra felloppian transfert);
4. ZIFT
E TET
(combinazione degli strumenti usati per la FIVET
e per la GIFT,
con diverso stadio di sviluppo degli embrioni
trasferiti nella tube);
5. ECTOGENESI
(sistemi di gravidanza
artificiale, sostitutivi di quella parentale).
Le malattie nocumento della fertilità
umana si distinguono fondamentalmente in due
categorie: a) quelle che diminuiscono, ma non
annullano, la fertilità della coppia; e, b) quelle che
annullano la fertilità della coppia. In
funzione di questa diversità si utilizzano tipologie
differenti di intervento medico
teso, rispettivamente, ad aumentare la
fertilità
umana (aumentando così anche le chances
riproduttive), oppure a sopperire, per via
artificiale (p.e. la fertilizzazione in vitro),
al processo procreativo
umano non altrimenti realizzabile (sterilità).
Distinguendo, pertanto, tra ridotta capacità e
assente capacità riproduttiva, ne conseguono
diversi tipi di PMA
espressi con le sigle precedenti.
Con la FIVET
s’intende il prelievo degli ovuli e il loro
incontro con gli spermatozoi
in provetta, con impianto successivo degli embrioni
nell’utero
materno.
Essa presenta alcune problematiche non indifferenti:
(1) elevati costi; e, (2) modesta resa. La prima
difficoltà è dovuta alla estesa durata della
procedura, che è poi anche fonte di «sforzo fisico non
indifferente, sottoponendo l’organismo a stimoli
ormonali non fisiologici, a mini-interventi chirurgici
(il prelievo degli ovociti)
e almeno a una analgesia profonda (o a una anestesia)».
La seconda difficoltà, a dispetto delle attese, indica
che «le coppie considerano complessivamente molto
bassa»
la percentuale di successi.
Con la ICSI
s’intende una microiniezione di spermatide (cellula
che dà origine allo spermatozoo) nell’apparato
genitale femminile.
Questa tecnica, a differenza della precedente, dà
buoni risultati,
ma può essere usata solo nei casi di sterilità
maschile la quale, a differenza di quella femminile,
può essere trattata con altre terapie.
Con la GIFT
s’intende una manipolazione di gameti in maniera da
determinare la fecondazione nell’organismo femminile.
La scelta tra la FIVET
e la GIFT negli anni è stata basata sul seguente
problema: «scegliere tra le due tecniche significa
privilegiare un metodo più invasivo, ma più efficace
(la GIFT) o un metodo meno efficace, ma meno invasivo
(la FIVET)».
Con ZIFT
(zigote Intrafalloppian Transfer) e TET
ci si riferisce ad una combinazione degli strumenti
utilizzati nei procedimenti FIVET
e GIFT.
Con la ECTOGENESI
(sviluppo completo di un feto fuori dal grembo materno)
s’intende una (futuribile) tecnica che sostituisce in
modo artificiale l’organismo materno nella
fecondazione e nello sviluppo embrionale, sottraendo
quasi integralmente l’umanità dell’atto procreativo.
Com’è facile avvedersi, con FIVET,
ZIFT,
TET
(in parte) e ECTOGENESI
si cura la sterilità, mentre con ICSI
e GIFT
l’infertilità.
È bene, però, non confondere tra differenti tecniche e
conseguenti pratiche diverse. Infatti, ad esempio la
FIVET
consente la pratica dell’«affitto d’utero»
(se si desidera che il concepito abbia un legame
biologico
con entrambi i genitori committenti), che è cosa
diversa dalla «maternità
surrogata».
Infatti, il primo caso è quello di un rapporto preciso
tra una coppia committente
e una donna che accetta la gestazione
di embrione
non suo, ottenuto tramite fecondazione in vitro
da materiale biologico dei committenti, trasferito nel
proprio utero che funge, dunque, da utero surrogato.
È, invece, maternità per surrogazione:
«la maternità
di quelle donne che si prestano ad avere una
gravidanza
e a partorire un figlio non per sé ma per un’altra
donna».
Oppure, il realizzarsi della situazione seguente:
«[ovvero] una donna, per soddisfare esigenze di
maternità
e di paternità altrui, dietro corrispettivo, o a
titolo gratuito, contrattualmente noleggia, con il
richiesto consenso del marito, se sposata, il proprio
utero
ad una coppia di coniugi
impossibilitata ad avere figli per sterilità della
partner, impegnandosi a farsi fecondare
artificialmente con il seme del marito di
quest’ultima, a condurre a termine la gravidanza,
nel rispetto di determinate norme di comportamento, ed
a consegnare alla predetta coppia di coniugi
committente il figlio così concepito, rinunciando ad
ogni diritto su di esso».
Questa appare la definizione generale della maternità
surrogata, ma ciò non vuol dire che non sia possibile
anche individuare casi singoli rispetto al quadro
generale.
Infatti, un altro caso di maternità surrogata
può essere considerato il seguente: «[la
situazione è la seguente] una coppia di coniugi
priva di figli per sterilità della donna. Un’altra
donna, la madre
surrogata, consente (in cambio di un vantaggio
economico) all’inseminazione artificiale
tramite il marito della donna sterile, si impegna a
condurre a termine la gravidanza
risultante ed a consegnare il frutto alla coppia».
In linea generale, è possibile osservare come «uno dei
problemi più scottanti, sollevati dalla biogenetica, è
quello relativo alla pratica della surroga, tecnica in
virtù della quale una donna si assume l’obbligo di
portare a termine la gestazione
per conto di una coppia, alla quale dovrà poi
consegnare il bambino».
Il ricorso a tale pratica, comunque, è dettato
dall’essere l’ultima risorsa all’impossibilità
generativa quando non si vuol ricorrere all’adozione,
unico rimedio all’impossibilità di un legame di sangue
tra la prole e i genitori.
A questo punto, è possibile definire la pratica della
“maternità
surrogata”:
(Definizione)
la pratica
della maternità
surrogata è quel particolare accordo,
instauratosi tra tre o più parti volta a regolare un
rapporto di filiazione
tra: (1) una donna
che, pur volendo diventare madre,
non può generare;
(2) il marito
di lei che, pur fertile, non può generare per via
dell’infertilità della moglie;
e, (3) un’altra donna, la quale, pur non avendo
necessariamente alcun rapporto specifico (di
parentela, di amicizia, etc.) con la coppia,
decide liberamente di mettere a disposizione la
propria capacità generativa, facendosi fecondare dal
seme
dell’uomo
della coppia,
per portare avanti una gravidanza,
sostituendosi alla donna infertile della coppia,
e per partorire un figlio sul quale rinuncia ad ogni
pretesa e che consegna alla coppia
affinché quest’ultima possa allevarlo come figlio
proprio.
Questa definizione, com’è facile vedere, individua tre
distinti attori le azioni congiunte dei quali
producono la pratica
della maternità
surrogata.
Essi sono i seguenti:
(1)
la donna
della coppia
sterile: desidera una prole
ma non può generare;
(2)
l‘uomo
della coppia
sterile: desidera una prole
e pur essendo fertile non può generare
perché la moglie
è infertile;
(3)
un’altra donna,
esterna alla coppia
sterile: può generare
e lo fa al posto della donna infertile della coppia
sterile.
A questo punto, sono utili ulteriori chiarimenti sui
principali termini dell’accordo
di surrogazione.
Essendo la coppia
sterile il polo che dà via alla pratica
che commissiona la generazione di un figlio, con
parziale
(e solo per parte maschile) presenza di legame
biologico, ad una donna
esterna, essa viene anche detta “coppia
committente”.
Le parti della coppia committente,
essendo coloro le quali in futuro alleveranno in via
esclusiva il figlio generato e partorito dalla donna
terza, verranno considerate anche come i genitori
intenzionali,
ovvero coloro che posseggono l’intenzione di avere un
figlio, e come genitori sociali,
ovvero coloro che, pur non essendo i genitori
biologici
del figlio (la qual cosa, tuttavia, è vera in parte e
per quanto riguarda la madre),
esercitano a livello sociale tutte le prerogative (la
gamma dei diritti – doveri) che normalmente esercitano
i genitori, sono cioè riconosciuti nella qualità piena
di genitori dalla società.
A sua volta, la donna
che si mette a disposizione per render possibile la
filiazione
della coppia
committente,
sostituendosi in ciò alla donna della coppia,
proprio per il fatto che sostituisce, o surroga,
nel ruolo di madre
la donna della coppia
committente, prende il nome di madre surrogata
(di madre, cioè, che è la sostituta
di quella non biologica, ma sociale). Pertanto, la
coppia
committente
commissiona un figlio ad una terza donna
la quale, sia per ragioni di solidarietà
sia in cambio di denaro, accetta i termini dell’accordo,
obbligandosi a portare avanti una gravidanza
nel migliore dei modi e a partorire un figlio che non
terrà con sé (pur potendo vantare su di esso un legame
biologico), ma che cederà in via esclusiva alla coppia
committente la quale, a sua volta, lo alleverà come
suo. In genere, si spiega la volontà da parte di una
donna a prestare il proprio organismo facendo
riferimento a motivi economici
oppure altruistici.
In altri termini, la madre surrogata,
o sostituta,
accetta di prestarsi alla realizzazione del desiderio
procreativo
della coppia committente
o perché spinta da un interesse economico,
il compenso che per le sue prestazioni i genitori
committenti mettono a disposizione, o perché motivata
da uno spirito di liberalità volto ad aiutare chi, pur
desiderando ardentemente una prole,
non può procreare naturalmente. La storia dell’umanità
è piena di esempi di solidarietà
simile (p.e. il contratto di baliatico). Nuove sono,
invece, le tecniche utilizzate che incidono in modo
più preponderante sui ruoli tra persone diverse che
entrano temporaneamente in contatto solo al fine di
realizzare lo scambio di un bene.
Per questo motivo, ad esempio, la tecnologia
riproduttiva ha tanto ispirato il dibattito bioetico:
è possibile dare libero corso a tutte le pratiche
mediche rese possibili dalla scienza
senza tener conto di tutte le conseguenze, anche
emotive, comportate?
Infatti, la riflessione intorno al cambiamento
dell’immagine culturale tradizionale della
procreazione,
secondo la quale una sola è la madre
e si è sempre sicuri di chi lo sia (mater semper
certa est), entra in crisi a causa dell’irrompere
di nuove figure le quali in qualche modo partecipano
al processo procreativo,
esattamente come avviene nel caso presente. Tant’è che
si possono avere, come minimo, due madri, l’una
uterina, l’altra legale. Infatti, è
possibile leggere nell’ordinanza del Tribunale di Roma
del 17 febbraio 2000 quanto segue: «con la maternità
per sostituzione,
ove una donna assume l’obbligazione
di condurre a termine una gravidanza
per conto di una coppia, la quale riceverà e terrà
come proprio il neonato,
si crea un profondo mutamento nella dimensione
antropologica e culturale della genitorialità, si
assiste ad una scissione innegabile tra genitorialità
biologica e sociale, ad una destrutturazione
dell’identità materna».
Secondo una mentalità più pratica, invece, le nuove
possibilità della PMA
non modificano sostanzialmente un atteggiamento che
già le comunità umane avevano rispetto alla filiazione:
«tutte le culture e le società
umane hanno conosciuto tentativi di controllo della
procreazione
attraverso l’intervento sulla fertilità.
Le pratiche attuali si distinguono da quelle passate
per la quantità di conoscenza che le sorregge, per la
stretta connessione con la scienza
bio-medica».
Il diritto, così, è chiamato a farsi carico di un
insieme complesso e polimorfico di casi, attori e
principi
che bisogna contemperare nella regolazione della cura
dell’infertilità.
3. Gli accordi di
maternità.
V’è, dunque, differenza tra la locazione d’utero
e la maternità
surrogata.
In breve, due sono le possibilità in campo: (a) quando
una coppia desiderosa di figli, tuttavia incapace di
portare a termine una gravidanza,
trova una donna terza disposta ad accogliere nel
proprio grembo l’embrione,
fecondato in vitro, della coppia, si ha allora l’affitto
d’utero;
mentre, (b) se la donna terza offre, oltre al proprio
utero,
tutta la sua capacità riproduttiva (ella accetta di
farsi fecondare col seme del marito della coppia
committente),
si ha una surrogazione
di maternità.
Tuttavia, la linea di confine tra le due pratiche è
alquanto sottile. Infatti, è necessario sottolineare
che in entrambi i casi la fecondazione dei gameti, a
prescindere dalla loro provenienza, avviene sempre più
frequentemente in vitro. Cioè, prima si procede alla
produzione di un embrione
fuori da un organismo ospitante e solo dopo lo si
trasferisce nell’utero
della donna che lo accoglie. Questo vuol dire che, da
un punto di vista strettamente medico,
passa in secondo piano la provenienza dei gameti che
verranno fusi nel processo procreativo
artificiale (possono venire: (1) dalla coppia
committente;
(2) dall’uomo della coppia e dalla madre
sostituta;
(3) dalla madre sostituta
e da un donatore; (4) da donatori esterni), mentre
quel che risalta è il ruolo della surrogazione
del processo procreativo naturale
della madre sostituta.
Seguendo questa linea di pensiero, si possono
considerare tanto l’affitto d’utero
quanto la surrogazione
di maternità
quali casi particolari di un fenomeno più generale e
che attiene all’aiuto offerto alla filiazione
umana dalla PMA:
la surroga della procreazione
umana.
In entrambi i casi, si osservi come la coppia
committente
ha trovato l’accordo
di una donna a portare avanti una gravidanza
(oppure a farsi ingravidare con seme della coppia, a
partorire il nascituro)
e a rinunciare a qualunque pretesa su di lui. Più
precisamente, nel caso della maternità
per sostituzione
si è realizzato un accordo dietro il pagamento
di un compenso (economico o altro) tra tre
attori:
(1) il padre intenzionale e
biologico del nascituro;
(2) la madre
intenzionale e non – biologica del
nascituro;
e,
(3) la madre
surrogata.
Si tratta di tre attori da cui discende per il diritto
la deduzione dei doveri sociali conseguenti alla
procreazione di esseri umani. Il punto critico è che
viene meno il classico collegamento tra realtà
biologica e munus sociale. Infatti, la madre
sociale potrebbe non essere colei che partorisce.
Oppure, colei che partorisce potrebbe sì essere la
madre biologica del nascituro, ma non colei che
eserciterà lo status sociale di madre. L’attore
(1) è, in genere, l’unico della coppia committente
ad avere un legame biologico
col bambino. Egli è sicuramente il padre
naturale del nascituro.
L’attore (2), invece, pur volendo essere la madre
del bambino non può, come visto, realizzare e portare
avanti una gravidanza,
dovendosi far sostituire in ciò da una terza persona.
Pertanto, essa viene considerata come la “madre
sociale” del nascituro
in quanto, sulla base dell’accordo
intercorso tra le parti, sarà lei la madre
riconosciuta del bambino, ossia la parte che
eserciterà le prerogative sociali della maternità.
Infine, l’attore (3) è la donna che surroga
quella che non può concepire e far nascere il proprio
figlio. Quest’ultima, cioè, sostituisce nel ruolo
generativo la donna impossibilitata, ella è una “madre
sostituta”
o “surrogata”. Data la dinamica della procreazione,
la si può definire come la madre uterina (e genetica)
del nascituro,
ma non anche la madre sociale.
Secondo un filo di pensiero, certo non accettato
pacificamente, si costituisce così un contratto
a tutti gli effetti.
Emergeranno in seguito alcuni degli aspetti
problematici comportati.
Tuttavia, è bene soffermarsi ancora sulle differenze
tra le due pratiche in oggetto. Si parla, a volte,
indifferentemente di:
a) maternità
per sostituzione;
b) locazione d’utero.
Invece, ognuna di queste locuzioni sottende
concetti e situazioni diverse.
Infatti, più propriamente è meglio parlare di:
§
maternità
per sostituzione
(surroga parziale)
quando l’inseminazione avviene direttamente nell’utero
della donna surrogata con seme dell’uomo della coppia
committente
(in questo caso la sostituta
sarà sia madre
genetica che gestazionale del nascituro);
§
locazione d’utero
(surroga totale)
quando si realizza il solo impianto nell’utero della
surrogata di un embrione
già fecondato in vitro, di solito, con entrambi
i gameti della coppia committente
(in questo caso si ha una scissione del ruolo di madre
genetica e madre gestazionale).
Tuttavia, non è maternità
per sostituzione
(surroga parziale) il caso in cui una donna offra i
propri ovuli ad un’altra (fattispecie della
donazione d’ovuli)
affinché quest’ultima possa avere un figlio
proprio. Infatti, si parla di maternità surrogata
solo nel caso in cui una donna si presta ad avere
una gravidanza
per un’altra.
Diverse sono le ipotesi di maternità
surrogativa.Così,
si possono avere:
(a) il caso in cui la fecondazione della volontaria
avviene mediante l’inseminazione artificiale,
conseguita per mezzo dell’introduzione del liquido
seminale direttamente nella cavità uterina,
permettendo tra l’altro la formazione dello zigote nel
suo ambiente naturale (e non in vitro). Questo
caso prende il nome di maternità
surrogata
propriamente detta;
(b) il caso in cui si realizza una donazione
di ovociti
(da parte di terzi) per sopperire
all’impossibilità di generare da parte della donna
interessata (la quale, concepisce e porta avanti la
gravidanza
in prima persona);
(c) il caso in cui l’embrione,
una volta che sia stato ottenuto artificialmente,
viene trasferito nell’utero
della donna della madre
surrogata affinché porti avanti la gravidanza
e partorisca il bambino (affitto d’utero).
Sono evidenti le ripercussioni, sociologiche,
psicologiche, antropologiche, giuridiche, che derivano
dall’utilizzo dell’una o dell’altra pratica. Infatti,
nell’ipotesi della maternità
surrogata
(surroga parziale) non vi è dubbio che
la “madre”,
sotto un profilo genetico e gestazionale, sia la
sostituta.
Dunque, se essa si rifiuta, al termine della
gravidanza,
di consegnare il nato alla coppia committente,
è alquanto difficile ritenere che sia obbligata a
rispettare i termini dell’accordo.
Invece, nell’ipotesi di locazione d’utero
(surroga totale)
ci si trova dinnanzi ad una scissione netta tra il
ruolo di madre genetica e quello di madre
gestazionale. Per cui, si dà adito a complessi
dibattiti dottrinali su quale dei due legami debba
prevalere e, in definitiva, su chi sia la “madre” del
bambino.
Di conseguenza, se la madre sostituta
decide, al termine della gravidanza, di non consegnare
il nato alla coppia, la madre committente potrà far
valere le sue ragioni sostenendo di essere lei la
“madre” del nato e obbligando la sostituta
a rispettare i termini dell’accordo.
Del resto, la procreazione,
pur appartenendo ad una delle sfere più personali
della vita umana,
è, ed è stata nel corso della storia, oggetto di
condizionamenti e di giudizi.
Non potrebbe certo essere diversamente se si tiene
conto che in questo caso si viene a costituire un
contratto
tra due o più persone volto a trattare un tipo
particolarissimo di “bene”: l’embrione.
Nell’ipotesi che sia possibile scambiare quest’ultimo
come un bene (economico),
è possibile considerare la pratica di “maternità
surrogata”
quale un “contratto” tra due parti (coppia committente
e madre
surrogata).
Si definisce “contratto”
l’accordo
di due o più parti per costituire, regolare
o estinguere tra loro un rapporto giuridico
patrimoniale
(art. 1321 c.c.). In altre parole, in attuazione della
libertà di esplicazione della personalità umana
(art. 3, comma 2, Cost.) e della libertà di iniziativa
economica (art. 41 Cost.), diverrebbe possibile per
delle persone stipulare accordi
vincolanti (obbligazioni) per le parti,
producendole in conformità con l’ordinamento
(art. 1173 c.c.). Per di più, è riconosciuta alle
parti la facoltà di stipulare contratti che non
appartengano ad una categoria specifica purché
rispettino lo spirito dell’ordinamento
(artt. 1322 - 1323 c.c.). Tuttavia, l’art. 1325 c.c.
indica quali requisiti del contratto: (1) l’accordo
tra le parti (anche: art. 1326 c.c.); (2) la causa
(anche: art. 1343 c.c.); (4) l’oggetto (v. art.
1346 c.c.); e, (5) la forma.
Comunque, anche se l’iniziativa economica privata è
libera (art. 41, comma 1, Cost.), a meno che non
si svolga in contrasto con l’utilità sociale o
arrecando danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.), resta
perplesso il caso degli accordi
di maternità.
Infatti, tali accordi toccano aspetti molto intimi (e
delicati) della vita umana,
ed anche intaccano il modello antropologico di base
(la famiglia)
della società.
Per questa ragione, essi suscitano inevitabili
reazioni. Infatti, l’iniziativa economica non sempre
si concilia con il rispetto della dignitas
umana, specie quando si realizzano pratiche che
abbiano ad oggetto l’embrione,
un ente dal problematico statuto metafisico.
Inoltre, è bene sottolineare che un contratto
per essere valido deve poter scambiare beni economici
disponibili alla transazione. Tale aspetto riguarda da
un lato la possibilità di disporre o meno degli
embrioni, il loro poter essere oggetto di scambio
economico
e, dall’altro lato, la disponibilità di parti del
proprio corpo
al fine di conseguire un utile economico. D’altra
parte, il diritto occidentale è incardinato sul valore
dell’integrità umana.
Da tale punto di vista, infatti, la pratica della
surrogazione
viola il principio dell’indisponibilità di
parti del proprio corpo,
ledendo la dignità delle donne, specie se compiuta
dietro corrispettivo in denaro.
Ritornando alle caratteristiche essenziali che deve
avere un contratto per essere ritenuto tale dal codice
civile, tra esse vi sono l’oggetto e la sua natura
patrimoniale.
Ora, nel caso in cui le parti di un accordo
di surrogazione
di maternità
convengano lo scambio tra le prestazioni gestazionali
della sostituta
e un compenso economico elargito dalla coppia
committente,
tale accordo conferisce una natura “patrimoniale” all’embrione.
Tale “patrimonialità” non può essere considerata
lecita in base ai principi
dell’ordinamento
in quanto il bene “embrione” non rientra tra i beni
disponibili e quindi commercializzabili. Tale accordo,
dunque, non può essere definito come contratto
e non può essere fatto valere coercitivamente nel caso
in cui la madre
sostituta
si rifiuti di rinunciare a qualsiasi diritto sul nato.
Tuttavia, qualora l’accordo sia preso per ragioni
altruistiche, e dunque senza il pagamento di nessun
corrispettivo in denaro, viene meno la volontà delle
parti di rendere patrimoniale e commercializzabile
l’embrione. In tale ipotesi, l’accordo preso non
andrebbe contro i principi generali del nostro
ordinamento e potrebbe essere fatto valere per
l’affidamento del nato innanzi alle autorità
giudiziarie, esattamente come accaduto nei vari casi
giudiziali italiani succedutisi nell’arco di tempo
1989 - 2000.
4. Il dibattito.
Il tema della maternità
surrogata
è oggetto di vivaci discussioni dagli anni ’70 in poi,
quando cioè si realizzarono i primi episodi in tal
senso. Il sorgere di questa nuova fattispecie ha
certamente colto alla sprovvista il diritto, lasciando
senza una chiara regolamentazione i casi interessati.
Così, quando sorsero contrasti (p.e. sullo status
di genitori committenti
e surrogati; sullo status del nato;
sui diritti e doveri della madre
surrogata; sugli interessi singoli delle parti in
causa; etc.), si dovettero prendere in considerazione
le norme esistenti, lasciando i giudici al loro ruolo
di interpreti delle leggi e al (contemporaneo)
difficile compito di sciogliere i contrasti. Tale
compito è ovviamente apparso più agevole presso gli
ordinamenti di Common Law,
nei quali vige una maggiore elasticità e dove è
possibile superare l’ostacolo delle lacune normative
per il tramite dell’interpretazione delle norme
e dei precedenti, esprimendo così uno spirito
complessivo dell’ordinamento.
Presso gli ordinamenti di Civil Law
(per i quali vige il primato della legge sulle
considerazioni dottrinarie), la mancanza di regole
chiare e precise al riguardo ha comportato la
difficoltà di dover valutare le fattispecie concrete
alla luce della regolamentazione per materie certo
affini ma differenti. Emblematici al riguardo sono
rispettivamente il Caso Baby M.
(1987) negli USA
e la sentenza del Tribunale di Monza
(1989) in Italia.
Infatti, nel primo caso la flessibilità dell’ordinamento
americano ha reso possibile superare la mancanza di
leggi al riguardo, dirimendo la controversia
sull’affidamento della nata da un contratto
di surrogacy,
disponendo per la nullità del contratto ma accogliendo
la richiesta di affido della minore
da parte dei coniugi
committenti Stern (salvo concedere, in appello la
possibilità di visita per la madre
surrogata),
ritenendo maggioritario, su ogni altra considerazione,
l’interesse del minore (the best interest of a
child).
Invece, il tribunale italiano, chiamato a pronunciarsi
su un caso di “maternità
surrogata”,
ha dichiarato nullo il contratto
di “surrogazione”
perché in contrasto con la Carta Costituzionale
(artt. 2, 30, 31 Cost.) e con il “principio di
indisponibilità degli status
personali”
(art. 5
c.c.). Questo perché la Costituzione
italiana non prevede, almeno non esplicitamente, alcun
diritto alla procreazione
(e, dunque, constata l’assenza di un diritto, nel vero
senso del termine, a procreare) e perché la figura di
contratto atipico,
realizzato mediante accordo
di surrogazione di maternità,
pur potendo sottrarsi ad un giudizio di illiceità, è
apparso censurabile in merito ai mezzi e ai
modi impiegati (le prestazioni dedotte in
obbligazione
e gli effetti strumentali).
Infatti, l’accordo di “maternità surrogata”, pur non
intaccando in maniera permanente l’integrità
delle persone coinvolte, non è un negozio
giuridico o un contratto,
ma un «mero atto di volontà lecito, ma sempre
revocabile e, in caso contrario, integra un atto
illecito»,
e non possono essere dedotti in obbligazione né una
prestazione consistente nello sviluppo fetale del
nascituro,
che non è un bene giuridico, né il fatto in sé della
riproduzione
umana.
Peraltro, il tribunale ha ravvisato altri due profili
di nullità del contratto:
illiceità della causa (art. 1343 c.c.) (filiazione
scambiata con denaro)
e frode della legge (art. 1344 c.c.) qualora si
dimostrasse che sia stato stipulato tale contratto al
fine di aggirare le norme in materia di adozione.
In proposito va comunque osservato come nei vari casi
di “maternità
surrogata”
non sia in discussione tanto l’accertamento della
paternità dei genitori committenti rispetto alla donna
che offre in prestito (gratuitamente o dietro
corrispettivo) le proprie capacità riproduttive,
quanto piuttosto lo stato di figlio del
nascituro.
Infatti, il tribunale è chiamato in causa non per
decretare la nullità di un contratto e di tutti i suoi
effetti giuridici, ma per decidere a chi spetti la
patria podestà. Tant’è vero che queste sono quasi
sempre cause di affidamento del minore,
conteso tra i genitori committenti e la madre
surrogata. In questo modo, appare chiaro come i
giudici si siano indirizzati, nel bilanciamento dei
principi
e degli interessi in gioco, al riconoscimento del
miglior interesse del minore.
Hanno, cioè, in genere, deciso le cause in favore
delle parti che meglio garantissero uno sviluppo
completo del nato e che, da questo punto di vista,
offrissero maggior affidamento.
È necessario però che l’interesse del minore
venga perseguito nella certezza del rapporto di
parentela. Infatti, tale rapporto, secondo la dottrina
maggioritaria, s’instaura con la madre
uterina, mentre al padre
biologico è concessa come unica alternativa quella di
riconoscere il figlio della madre surrogata
(ex art. 250 c.c.) e chiederne la
legittimazione, per provvedimento del giudice (art.
281 c.c.), e l’inserimento nella sua famiglia
legittima (art. 252/2 c.c.). In questo caso, la madre
sociale può chiedere solo l’adozione
del minore (ex art. 44 lett. B), L. 184/1983).
È chiaro come la conclusione di queste vicende sia
sostanzialmente già prefigurata nell’atto stesso di
stipulazione di questi accordi dato che non è comunque
trascurabile il movente economico nella decisione di
una donna ad affittare la propria personale capacità
riproduttiva. La donna, infatti, potrebbe trovarsi in
una condizione economica difficile e vivere in un
contesto sociale deprivato. Così, qualora quest’ultima
dovesse cambiare idea e rompere l’accordo,
decidendo di tenere con sé il minore,
il tribunale non potrebbe che vedere nei genitori
committenti una migliore garanzia (economica; sociale;
etc.) per l’avvenire del minore, dato che certo non
tutte le coppie con difficoltà economiche potrebbero
permettersi gli alti costi delle pratiche di
“surrogazione
di maternità”.
Una valutazione di tal genere delle pratiche
surrogative è responsabile dell’opinione secondo la
quale la “maternità
per surrogazione”
è di per sé una pratica razzista che consente a
ricchi di poter disporre a piacimento delle
possibilità generative
di donne povere.
Si potrebbe, tuttavia, anche verificare il caso di un
tentativo di aggirare, tramite la fattispecie della
“maternità
surrogata”,
la legge sulle adozioni, celando dietro un accordo
fittizio la cessione, dietro pagamento, di minore.
Proprio onde evitare questo rischio i sostenitori
della “maternità surrogata” ravvisano la necessità di
una sua regolamentazione giuridica.
Variante di quest’ultimo caso è, però, l’idea secondo
la quale l’accordo
di “maternità
surrogata”
non viola i disposti del codice civile in quanto il
legame di parentela tra genitori e figli si origina
nel momento in cui l’accordo tra le parti codifica un
consenso da parte dei genitori (sociali) nei
confronti del nascituro.
Tale consenso può essere equiparato, nei suoi effetti
giuridici, al rapporto coitale tra un uomo e una donna
che decidono di dare luce ad una prole?
In questo modo, infatti, si darebbe maggiore
importanza al momento volitivo (volere
un figlio) che al momento carnale
(congiunzione tra un uomo e una donna).
Considerare prioritaria l’intenzione (o, la volontà)
di avere un figlio rispetto all’unione coitale, pone
in un’ottica diversa il ruolo della madre
intenzionale che diventa colei dalla quale ha inizio
l’iter che porterà alla nascita del bambino.
Ciò vuol dire che l’interpretazione giuridica dei casi
italiani di “maternità
per sostituzione”
va nella direzione di considerare importante non la
modalità concreta di realizzazione del processo
procreativo,
sulla quale pure permane una valutazione negativa, ma
la decisione (o, intenzione) che
dà avvio al processo di filiazione.
In questo modo, infatti, è possibile considerare
equivalenti l’intenzione di una coppia ad avere figli
con l’accordo
che due genitori sterili fanno con una donna fertile
affinché sia quest’ultima ad affrontare la gravidanza
e a consegnare alla coppia il nascituro.
Tale accordo così non sarebbe altro che una variante
del normale processo di deliberazione proprio di una
procreazione
responsabile. Infatti, «la procreazione
non deve e non può esaurirsi con il dono della vita,
ma implica l’assunzione di responsabilità e
l’adempimento di doveri cui la legge non può
consentire di abdicare».
Ciò significa che proprio l’introduzione delle
tecnologie mediche di cura della sterilità
mostra «La possibile irrilevanza del dato naturale o
biologico all’interno della famiglia
legittima. Se per il diritto il dato caratteristico
fondamentale della famiglia è la comunità di affetti,
sarà questo il requisito imprescindibile
dell’esperienza familiare e quindi anche della
filiazione,
sia che i figli siano effettivamente procreati dai
genitori sia che siano introdotti nella famiglia per
adozione:
in altri termini è l’apporto materiale dei genitori, o
vincolo di sangue, a diventare una «non necessità» e
non viceversa».
L’interpretazione giudiziale italiana viene ribadita
con sentenza del Tribunale di Salerno
(15 novembre 1991). Invece, il tribunale dei minori di
Roma (1992) fornisce un’interpretazione diversa: il
metodo seguito dai genitori committenti non è vietato
tout – court dal diritto vigente, occupando uno
spazio vuoto della legge. In altre parole, il
Tribunale di Roma si è dichiarato impossibilitato a
sindacare le circostanze e le modalità in cui fu
deciso, pattuito, attuato e compensato il concepimento
del nascituro. Questa pronuncia presenta interessanti
somiglianze con la decisione assunta durante il caso
Baby M.
Infatti, entrambe le motivazioni evidenziano «la
volontà dei giudici di mirare il loro giudizio alla
soluzione più favorevole per i figli relativamente al
loro collocamento, ritenendo irrilevante la scelta
procreativa della coppia e al contempo riconoscendo,
sia pur indirettamente, la liceità di tali accordi,
quantomeno per carenza normativa».
Sulla stessa linea si pone l’ordinanza del tribunale
di Roma la quale autorizzava un medico
all’impianto di un embrione
nell’utero
di una madre
sostituta.
Nel caso in oggetto
il tribunale si concentra sulle problematiche del
contratto
di maternità
e, ravvisando come esso vada inquadrato nello schema
dell’atipicità, ritiene che occorra, ai fini
della valutazione della sua validità, verificare la
meritevolezza degli interessi perseguiti.
Infatti, il giudice identifica tra gli interessi
meritevoli di tutela l’«aspirazione della coppia alla
realizzazione come genitori» in quanto espressione del
cd. diritto alla procreazione,
e l’interesse dell’embrione
in quanto la vita umana
va tutelata sin dal suo inizio. Ciò comporta che il
principio dell’indisponibilità degli status
resti estraneo alla fattispecie riguardante una
maternità
(meramente) portante poiché la madre
sostituta
“si limita” a portare a termine una gravidanza
di un embrione che, provenendo da fecondazione
artificiale
con materiale genetico dei genitori committenti, è
geneticamente estraneo alla madre sostituta.
In tal caso, cioè, non si ravvisa una rinuncia al
ruolo parentale da parte della madre surrogata.
Infatti «l’attribuzione della potestà genitoriale è
irrinunciabile perché collegata al fatto procreativo».
Quest’ultimo non può essere ridotto alla realizzazione
materiale, ma deve tener conto della volontà umana
volta al desiderio di procreazione
non rintracciabile nelle pratiche di mera locazione d’utero,
quando è da ritenersi estranea una qualsiasi volontà
di assunzione del ruolo genitoriale. È un’analisi che
«tiene conto dei mutamenti avvenuti nei rapporti
familiari, in particolar modo in quelli relativi alla
filiazione».
Detto questo, va comunque riconosciuto che in effetti
la distanza dalla sentenza del Tribunale di Monza
risieda nel fatto che non viene ignorato il principio
dell’indisponibilità degli status
personali,
ma s’intende verificarne la portata in contesti
diversi da quelli tradizionalmente considerati.
Infatti, il Tribunale di Roma ritiene che la donazione
d’utero,
nel rispetto delle condizioni di salute
della madre
surrogata, non comporti una diminuzione permanente
dell’integrità
fisica (e, dunque, un’alienazione permanente di una
parte di sé).
Alla luce dei principi
costituzionali, il potere di disposizione del proprio
corpo non è inteso quale espressione di un diritto
di proprietà, ma come la libertà di disporne,
come strumento di attuazione dello sviluppo della
personalità (liberando la persona dal vincolo di non
poter usufruire in maniera difforme dall’andamento
naturale di parti di sé, senza che ciò comporti
ipso facto un comportamento immorale). Peraltro,
così disposto il comportamento qualificato quale “contratto
di maternità
surrogata”,
nella forma assunta nella fattispecie considerata, non
è contraria all’ordine pubblico e al buon costume.
Inoltre, ostando tale accordo
la mancanza di un corrispettivo per la prestazione e
valutando la causa (la volontà dei genitori
committenti), il giudice ha escluso nel caso
considerato anche gli estremi per configurare un
negozio
in frode alla legge perché l’accordo non è volto ad
eludere le norme sull’adozione
e sull’indisponibilità degli status.
Una volta ammessi tali accordi,
emergono delle difficoltà, che sono poi quelle in
genere affrontate dai tribunali nella soluzione di
questi casi. Infatti, «Aspetti assai problematici
della maternità
per sostituzione
sono quelli riguardanti l’attribuzione legale della
genitorialità e l’affidamento dei bambini nati in
seguito a tali rapporti».
A fronte di tali difficoltà di diverso avviso è la
posizione della Shalev,
secondo la quale il rapporto che si viene a realizzare
tra i poli dell’accordo di surrogazione
(coppia committente
e madre
surrogata), proprio perché differenti dalla filiazione
ordinaria, può a tutti gli effetti venir inquadrato
nella tipologia contrattuale, deducendone tutta una
serie di obbligazioni giuridiche conseguenti le quali
rendono impossibili, ad esempio, il cambiamento d’idea
da parte della madre surrogata
quanto anche un ripensamento da parte della coppia
committente.
Ciò perché l’autrice concepisce il comportamento di
colei che si presta a surrogare la maternità
altrui quale «vendita di servizi personali»,
un prestito «di servizi di procreazione
a vantaggio dei genitori sociali».
Tuttavia, benché l’ipotesi consenta di estendere il
campo del diritto oltre fattispecie prima non
contemplate,
colmando vuoti del diritto vigente, la posizione della
Shalev
non appare condivisibile per tutta una serie di
ragioni che afferiscono alla diversità di ordinamento
giuridico.
L’orizzonte giuridico italiano cambia in modo radicale
nel 2004 quando il Parlamento promulga la
regolamentazione della PMA
(L. 40/2004 “Norme in materia di procreazione
medicalmente assistita”), la quale vieta espressamente
la pratica surrogativa (art.12, commi 1 – 2) e
qualsiasi realizzazione, organizzazione
o pubblicizzazione di tale pratica (art. 12,
comma 6), riconoscendo come validi i divieti del
codice deontologico dei medici (art. 42).
Anche la riflessione dottrinaria si orienta
decisamente in maniera negativa dei confronti delle
ipotesi surrogatorie in quanto si sostiene che: «La
maternità
surrogata
è quanto di più offensivo ci possa essere per la
dignità di un essere umano: privato del legame con la
madre
gestazionale, oggetto di compravendita (non solo
economica), quel bimbo – voluto a tutti i costi – non
è altro che un oggetto da possedere. La donna, pur
credendo di fare un servizio ad altri, è in effetti
uno strumento e, anche se consenziente, viene umiliata
nella sue dignità di persona».
In realtà, si può osservare come il divieto di
realizzare esempi di “maternità
surrogata”
s’inserisca in un ben più ampio quadro concettuale,
espresso dalla norma, secondo il quale vanno
assicurati “i diritti di tutti i soggetti coinvolti,
compreso il concepito” (art. 1). L’affermazione della
necessaria tutela anche per il frutto delle tecniche
di PMA
comporta il ritenere la famiglia
mononucleare (e, dunque, la sola procreazione per
fecondazione omologa) quale sede appropriata, e forse
anche l’unica, per la tutela dei diritti del
concepito. Anzi, si potrebbe osservare l’affermarsi di
una sorta di “diritto alla famiglia”, secondo il
quale: «è inoltre diritto e interesse del figlio avere
una madre
e un padre
che siano tali sotto ogni profilo (genetico,
affettivo, legale). Per questo, la legge vieta il
ricorso alla PMA
eterologa e alla cosiddetta “maternità
surrogata”».
Infatti, la riflessione dottrinaria italiana
s’incentra sulla considerazione della “maternità
surrogata”
all’interno del diritto familiare
dato che si tende principalmente a inserire il “fatto
procreativo” all’interno della realtà familiare,
riconoscendo a livello legale una dinamica che si
considera «naturale».
Proprio la naturalezza del processo procreativo
viene meno una volta che si realizzi un intervento
così massiccio da parte della medicina nel fatto
procreativo, sino a richiedere anche un «superamento
della struttura autoritaria e tradizionale della
famiglia»,
ponendo al centro della riflessione giuridica «il
problema di andare oltre la visione della stessa [famiglia]
come soggetto da tutelare in sé e per sé».
La tendenza, dunque, è quella di demitizzare, così
come di riconsiderare qualcosa di ritenuto ovvio, il
fatto della filiazione,
tendendo conto della «separazione fra sessualità e
riproduzione».
Ecco perché la realizzazione di accordi di “maternità
surrogata”
scuote l’immagine antropologica di base: la filiazione
può avvenire per conto della famiglia
e al di fuori di questa.
Per lo stesso motivo, anche, diventa chiaro come mai
il verificarsi di casi di “maternità
surrogata”
non abbia trovato riconoscimento nelle fattispecie
previste dall’ordinamento.
5. La discussione dei vari casi italiani.
L’attuale legislazione italiana proibisce qualsiasi
attività di maternità per surrogazione. Ciò vuol dire
che il legislatore ha espresso in forma esplicita
quella vaga sensazione di illiceità della pratica che
ha accompagnato tutte le decisioni giudiziali in
merito, a partire dal 1989.
Sembra, allora, possibile isolare in merito alla
discussione sulla “maternità surrogata”, i seguenti
nuclei concettuali:
(1)
la natura negoziale della pratica;
(2)
la liceità giuridica della stessa;
(3)
il rapporto tra le parti;
(4)
l’accertamento di paternità (e, maternità) del
nascituro;
(5)
l’affidamento del minore.
È la “maternità
surrogata”
un contratto? Infatti, realizza la condicio ad hoc
di rapporto sinallagmatico tra tre o più parti? Dato
però che tale accordo
ha una natura non patrimoniale, avendo come bene a
disposizione una vita umana,
un progetto di filiazione,
non potrebbe che rientrare nella categoria dei
contratti “atipici”. Se, qualora alla base
dell’accordo di “maternità per sostituzione”
ci fosse uno scambio economicamente quantificabile, lo
si potrebbe considerare legittimo? De iure condito
non si potrebbe mancare di osservare come sia un
accordo in totale contrasto con la legge.
Esso presenta, inoltre, un ulteriore profilo
problematico: il frutto della negoziazione,
il nascituro,
è un bene disponibile alla contrattazione? In genere,
si ritiene che «La vita umana
è il valore primario e fondamentale, perciò non
disponibile da parte di nessuno per finalità estranee
alla persona vivente».
Vero è che in questo caso non verrebbe commerciato
materialmente il minore
frutto di accordo
di surrogazione,
quanto il suo status di figlio. Tuttavia, un
accordo che ponesse in essere un progetto di vita
futuro può essere considerato lecito? Un accordo
patrimoniale, infatti, prevede una transazione
economica in virtù della quale viene scambiato un bene
materiale. In questo caso tale bene sarebbe il minore.
Pertanto, se si realizzasse una tale ipotesi non si
potrebbe che considerare illecita la pratica in
oggetto, in quanto incorporerebbe l’ipotesi di reato
della commercializzazione di parti del corpo umano.
Il discorso cambia, invece, se tale pratica non
prevedesse alcuno scambio di natura patrimoniale,
se cioè le parti realizzassero una pratica mandata ad
effetto senza che vi sia scambio economico,
ma solo per spirito di liberalità, in piena gratuità.
In questo caso, infatti, l’accordo
di maternità,
pur non qualificandosi nei termini di un contratto,
non andrebbe contra legem, ma prevedrebbe una
possibilità di aiuto gratuito da parte di una persona
verso altre. A patto, ovviamente, che l’esecuzione
delle obbligazioni dell’accordo non comporti una
diminuzione permanente delle capacità riproduttive
della volontaria
che si presta a sostituire nella gestazione
e nel parto la donna committente. Questo limite, in
realtà, rientra nel più ampio insieme delle condizioni
poste dalla salute
complessiva della volontaria. Un accordo che minasse
in maniera irreparabile la salute della madre
sostituta
non potrebbe considerarsi lecito. Resta, comunque, una
difficoltà: se non patrimoniale, l’accordo
di surrogazione
non può essere considerato un contratto, neanche
atipico. E ciò comporta ulteriori problematiche.
Infatti, a quel punto nessuna delle parti può essere
costretta a dar esecuzione ai termini dell’accordo
perché non sussistono obbligazioni ad esso
conseguenti.
Da un punto di vista giuridico, è importate non solo
valutare la liceità di tale contratto e la eventuale
nullità dei suoi effetti, ma anche tutelare gli
interessi meritevoli, in genere quelli del minore
e della donna che partorisce. Infatti, il problema è
individuare la paternità del minore, dato lo scarto
prodotto dalla pratica tra verità biologica
e verità sociale.
Il che, in certi casi, è preliminare all’affidamento
dello stesso ad un’unità familiare, sovente la coppia
committente.
Per quanto riguarda la tutela della partoriente,
invece, si può dire quanto vige ordinariamente per
qualsiasi donna gravida: la legge tutela la sua salute
sopra ogni altra considerazione ed accorda a lei
soltanto la responsabilità delle eventuali scelte che
potrebbero portare alla cessazione del processo
procreativo.
Si può anche vedere come in fin dei conti la
regolazione della pratica surrogatoria
assuma direzioni differenti a seconda che si
realizzino due possibilità circa l’evoluzione dei
rapporti tra le parti del “contratto”: (1) la madre
surrogata adempie a tutti i termini dell’accordo;
e, (2) la madre surrogata
decide di non rinunciare dopo il parto ai diritti sul
minore.
Il caso (1) è quello ovviamente auspicato da tutte le
coppie committenti le quali mettono in azione l’intero
processo surrogativo per coronare il sogno di avere
una prole.
Infatti, la madre
sostituta
una volta partorito il bambino, si fa da parte, non
riconosce il minore
e consente al padre
biologico di riconoscere il figlio come naturale.
Fatto questo, il minore entra a far parte della
famiglia
committente e i genitori intenzionali
diventano anche i genitori sociali.
Nel caso (2), invece, sorgono i contrasti e con essi i
problemi giuridici. Infatti, se a norma di codice,
madre
di un bambino è colei che lo ha partorito (art. 269
c.c.), di chi è figlio il minore?
Finché, la madre sostituta
non riconosce il bambino è aperta la possibilità per
la coppia committente
di attribuire il proprio cognome al minore e quindi di
inserirlo a pieno titolo nella propria famiglia.
Nel momento in cui, invece, la volontaria
dovesse cambiare idea rispetto a quanto concordato coi
genitori intenzionali
si pone il problema della maternità
del minore e soprattutto ci si chiede se sia possibile
obbligare la madre surrogata
a mantenere gli accordi presi.
Innanzi tutto, se tale accordo
potesse essere ricondotto nell’alveo dei contratti, le
parti sarebbero tenute, pena l’esecuzione forzata, al
rispetto delle obbligazioni dedotte. In questo modo,
non si contemplerebbe nemmeno l’ipotesi di un
ripensamento da parte della volontaria
e, se anche vi fosse, dovrebbe essere costretta ad
adempiere comunque a quanto liberamente pattuito, cioè
a cedere ad altri il nato. In genere, questa è la
linea di pensiero dei paesi di Common Law.
Per il nostro ordinamento,
al contrario, l’accordo
di maternità
surrogata
non è un contratto. Quindi, se ne deduce che la
volontaria
non possa in alcun modo essere costretta ad adempiere
alle obbligazioni assunte per il semplice fatto che
tali obbligazioni non sussistono. Anzi, alla luce
della legge 40 del 2004, tale accordo
rientra tra le ipotesi di reato.
Madre del bambino, dunque, nel nostro ordinamento
rimane colei che lo ha partorito. Al riguardo scrive
Cassano:
«L’opinione secondo cui la legge attribuisce la
maternità
alla donna che ha partorito potrebbe certamente essere
messa in discussione. Infatti, si è sostenuto che la
circostanza secondo la quale il bambino partorito da
quella donna sia anche geneticamente proveniente da
lei non era indicato espressamente come requisito solo
perché non era immaginabile che le cose potessero
stare diversamente. Il principio che sta alla base
della regola attuale va letto non riduttivamente, ma
nel suo senso vero, rendendo esplicito ciò che prima
non era necessariamente implicito: è madre
colei che partorisce il frutto della fecondazione del
proprio ovocita. Ma nel caso di doppia maternità manca
la coincidenza implicitamente voluta dalla legge, ci
si trova dinanzi ad una situazione mai finora
disciplinata perché mai prevista dal legislatore».
Una certa impostazione dottrinaria punta l’attenzione
su una revisione della legislazione inerente al
riconoscimento della maternità. Una eventuale
legislazione,
la quale andasse più in profondità, conferendo la
giusta importanza al vero legame tra la madre
e il figlio, consentirebbe di avvicinare il
significato della maternità
legale al significato sociale della stessa, dando
anche conto dell’evoluzione attuale del concetto di
maternità. Ciò, a meno di non modificare il
principio civilista secondo il quale il criterio unico
per l’attribuzione della maternità è quello del
parto (art. 269, 3 comma, c.c.), induce ad
interpretare in maniera differente lo stesso.
Pertanto, l’insieme degli elementi costituenti le
tecniche di PMA,
congiuntamente ad una maggiore conoscenza della
fisiologia della filiazione,
potrebbero spingere al «riconoscimento di tale
status [di madre] a colei che possiede più
requisiti dei tre possibili: maternità
genetica, maternità uterina
e maternità sociale. Ne consegue che dovrebbe essere
ritenuta madre
colei che ha fornito l’ovulo
ed ha voluto il figlio (con prevalenza sulla madre
uterina); oppure quella che ha fornito l’ovulo ed ha
partorito il figlio (con prevalenza sulla madre
sociale). Se, in presenza di tre donne, ciascuna
fornisce un contributo, la qualità di madre va
attribuita a chi abbia fornito un contributo
volontaristico, sempre che si aggiunga il fattore del
vincolo matrimoniale con l’uomo che abbia fornito il
gamete. In mancanza resta il criterio del parto».
Questo criterio, che, comunque, appare essere
un’opzione interpretativa, certo differente da quella
canonica, «consentirebbe l’attribuzione del figlio
alla coppia committente
solo nel caso di “locazione d’utero”,
come nel caso in esame, e non di “maternità
surrogata”».
D’altra parte, il nostro codice civile è basato sulla
presupposizione dell’identità tra verità
biologica
e verità sociale, tra la dimensione
fisiologica della maternità (fecondazione in ventre;
gestazione; parto) e suoi effetti sociali.
In questo modo, colei che partorisce è considerata, al
tempo stesso, la madre
biologica e la madre sociale del
nascituro.
Al contrario, invece, il progresso della scienza
biologica consente di scindere i due aspetti,
biologico e sociale, comportando, di conseguenza, la
necessità di riconsiderare la nozione classica di
maternità, anche rovesciando, se è il caso, la
presupposizione d’identità dei due aspetti ai fini
della derivazione di effetti legali. Infatti, «in
precedenza non veniva fatto espresso riferimento al
fatto che il bambino partorito dalla donna fosse anche
geneticamente proveniente da lei solo perché non era
pensabile che la procreazione
potesse avvenire diversamente. In realtà, con
l’avvento della maternità
sostitutiva, in specie nella sua forma meramente
gestativa, diviene necessario esplicitare l’esistenza
di un duplice legame, sia genetico che gestativo,
capace di assicurare l’imputazione della maternità nel
rispetto della disciplina tuttora vigente (art. 269
c.c.)».
L’opinione appena espressa non è ancora un radicale
rovesciamento della dottrina vigente sulla quale si
basa l’attribuzione di maternità, ma comporta comunque
che la piena assunzione responsabile da parte dei
(futuri) genitori degli oneri della filiazione
venga considerata alla luce di un superamento de
facto della disciplina medesima. Il criterio del
riferimento alla sola verità biologica
è, infatti, insoddisfacente perché non consente di
individuare con precisione i legami procreativi tra
gli attori di un processo di filiazione.
In questo modo, «la determinazione della madre
non può dunque dipendere automaticamente dalla
biologia, bensì deve basarsi pure sull’individuazione
di un rapporto sociale con il figlio: diviene sempre
più importante lasciare spazio all’autonomia femminile
in riferimento all’esercizio della propria capacità
riproduttiva».
D’altra parte, si deve pure riconoscere come, pur
richiamandosi al fondamento biologico della pratica
filiativa, il legislatore abbia da sempre contemperato
questo principio con quello di “impugnazione per
difetto di veridicità” del riconoscimento dei
genitori. Ciò perché «Il fattore biologico non è «di
per sé» giuridicamente rilevante ma rappresenta
l’indice di un comportamento a cui il diritto
riconduce precise conseguenze giuridiche in termini di
responsabilità».
Pertanto, è vero che l’ordinamento, nel disciplinare
la pratica della generazione prende in considerazione
il fondamento biologico, e non si vede come potrebbe
fare diversamente, ma è altrettanto vero come lo
stesso non lo ritenga del tutto sufficiente.
Infatti, il nostro ordinamento modera questo
presupposto biologico con la considerazione delle
circostanze e degli atteggiamenti dei soggetti
coinvolti.
Ciò consente di considerare l’atteggiamento del
legislatore come tendente a «limitare l’operatività
del suddetto principio disponendo che, in determinate
fattispecie il dato biologico è insufficiente o
inidoneo o irrilevante a fondare un rapporto giuridico
con il nato».
Si coglie, così, un atteggiamento tutt’altro che
pacifico della dottrina nel considerare gli aspetti
biologici i fondamenti unici degli effetti legali, e
quindi il parto quale criterio unico per attribuire lo
status di madre. Infatti, si fa anche
riferimento alla necessità di prendere in
considerazione, oltre al mero “parto”, elementi
ulteriori i quali rinviano in genere
all’intenzionalità genitoriale e alla volontarietà del
progetto procreativo da parte di attori i quali
possono essere ritenuti i genitori dei futuri figli.
Così gli interpreti hanno suggerito di poter, de
iure condendo, ricavare uno spazio di possibilità
per la “maternità
surrogata”
interpretando in chiave «evolutiva» l’art. 269 c.c.
circa il riconoscimento della maternità.
Se, in effetti, a prima vista esso sembra rendere
impossibile il riconoscimento del nascituro
da parte di terzi esterni alla donna partoriente,
questa interpretazione va corretta. Infatti, «al
momento dell’elaborazione di tale norma il riscontro,
unico, della maternità
era costituito dalla circostanza «materiale» del
parto: ma oggi non può passivamente avvallarsi tale
particolaristica (e certo non di portata generale)
opzione, soprattutto se si riflette sul dato che il
vero «segno della maternità» è costituito dal
patrimonio genetico, che solo la fecondazione – e non
la gestazione
- offre».
Ovviamente, allora, affinché si possa superare il
limite costituito dall’art. 269 c.c.
al riconoscimento della maternità
in maniera diversa dal mero parto, bisogna guardare al
vincolo genetico tra i “veri” genitori. Pertanto, se
prova della maternità non viene più considerato il
parto, il legame biologico
«sembrerebbe aprire la strada alla possibile
attribuzione del suddetto status giuridico alla
madre
genetica, previa dimostrazione della derivazione
biologica del nato e previo accertamento della volontà
della donna a fare un figlio per sé».
Nel caso della surrogazione meramente portante, ovvero
di una donna che accetta di farsi impiantare
l’embrione di una coppia, di portare avanti la
gravidanza e di partorirne il frutto, nonostante che
tale donna partorisca, ella non può essere considerata
madre sociale del nascituro dato che non può vantare
alcun legame genetico con il nato. Questo, ovviamente,
comporta una ri-definizione della maternità, non
legandola più, almeno non più soltanto, al parto.
Infatti, nel caso suddetto la donna che partorisce non
può in alcun modo essere considerata madre del
bambino, al massimo è una madre uterina, ma da ciò non
si possono dedurre effetti legali. Più complicata
diventa la situazione nel caso di surroga totale,
quando cioè una donna offre non solo il proprio utero,
ma anche il proprio ovulo, ai progetti genitoriali di
una coppia sterile. In questo caso, infatti, il fatto
che il nascituro ha un legame genetico non solo con
l’uomo della coppia committente, ma anche con la
volontaria rende difficile l’accertamento della
maternità. In proposito, comunque, bisogna osservare
come la volontaria non decide di diventare madre, ma
solo di offrire le proprie capacità riproduttive in
favore terzi, mentre il completo progetto procreativo
viene deciso dalla coppia committente. Ciò vuol dire
che anche se si sostituisce al criterio del parto il
criterio del legame genetico non ci si trova con una
soluzione completamente soddisfacente. Bisogna
integrare tale criterio con il riferimento a coloro
che pongono in essere una volontà procreativa
(un’intenzione generativa) perché è solo in forza di
tale deliberazione che viene messo in campo una
modalità di PMA e di sostituzione di maternità
attraverso le quali venga realizzato tale desiderio,
riproducendo, sia pure con metodologie differenti, non
coitali, la medesima modalità della filiazione
naturale.
In questo modo, diventa possibile superare gli
interrogativi posti dalle tecniche di PMA
e di surrogazione
di maternità,
ponendo l’accento sull’elemento della volontarietà
della procreazione.
Prendendo in considerazione il chi della
volontà generativa si consente di intravedere il
contesto all’interno del quale poter sottrarre ad un
giudizio d’illiceità la pratica della maternità
surrogata,
perlomeno nella fattispecie della maternità solo
portante. Così, sancendo la prevalenza, sugli altri
criteri di accertamento, della considerazione del
legame genetico, è possibile superare
«l’interpretazione tradizionale dell’art. 269 c.c.».
Dunque, diventa possibile affermare come grazie «ai
progressi della scienza
medica, infatti, è oggi possibile affermare con
relativa sicurezza che il nuovo individuo, con tutti i
suoi indelebili caratteri ereditari, si forma non
durante la gestazione,
ma nel momento di fusione tra sperma ed ovocita».
A ciò va aggiunto, inoltre, che essendo sempre più
tecnicamente possibile la crescita artificiale del
feto, realizzata senza alcun collegamento con un
ambiente biologico umano (la cd. ectogenesi)
«risulta evidente che si potranno avere nascite senza
parto, prive così di quel fatto dal quale si vuol far
scaturire l’attribuzione della maternità
giuridica».
Tuttavia, rimane la necessità di dotare di
un’interpretazione differente la disciplina attuale
della filiazione.
Infatti, la maggiore importanza attribuita, in tale
contesto, all’intenzione espressa dai futuri
genitori sociali,
a partire dalla quale ha inizio l’intero processo
procreativo,
specie all’interno di una cornice generale che preveda
l’utilizzo delle tecniche di PMA,
si lega alla produzione degli accordi di maternità
di cui si è detto, perlomeno ai fini della previsione
certa dei comportamenti ammissibili delle parti e
delle eventuali conseguenze negative in caso di
violazione degli impegni assunti. Tale elemento aveva
spinto a considerare un accordo
di surrogazione
di maternità
alla stregua di un contratto avente natura obbligante
rispetto agli impegni assunti. Ma si è visto, al
contrario, come questa concezione desse adito a varie
difficoltà, e come, in sede giudiziale, abbia condotto
al ravvisamento di diversi profili d’illiceità,
incentrati soprattutto sulla considerazione
dell’incompatibilità tra la natura patrimoniale
del contratto e gli status personali.
Vale a dire che la strada che potrebbe consentire di
non considerare illeciti tali accordi non consiste
nell’equipararli alla fattispecie del contratto,
sebbene quello atipico, ma nel considerarli dei
liberi accordi nei quali la validità degli impegni
assunti non è obbligatoria, ma sempre revocabile.
Fatta salva la libertà (di poter cambiare idea) della
volontaria
che si sottopone ai termini dell’accordo,
bisogna osservare il ruolo preponderante assunto dalla
volontà generativa quale criterio in forza del quale
valutare l’attribuzione della maternità
(e della paternità). Infatti, «l’intenzionalità di
generare un figlio appare come nuovo elemento capace
di spostare il criterio fondante della paternità, dal
vincolo biologico e dall’indisponibilità degli
status,
a quello della responsabilità e della perfezione di
accordi sociali, aventi effetti evidenti e duraturi
sulla formazione dei futuri nuclei familiari».
Pertanto, è possibile osservare come «la vera
questione diventa allora l’effettiva rilevanza da
accordarsi al consenso prestato dalle parti alla
realizzazione del progetto procreativo».
Mentre, nel nostro ordinamento
l’accordo
di surrogazione
è invalido perché «non si ritiene possibile estendere
ad esso al disciplina contrattuale del codice civile,
né applicare la tutela in forma specifica, a causa
della particolare natura delle prestazioni negoziali
da esso contemplate».
Tale nullità, che esplica i suoi effetti
principalmente in caso di ripensamento della madre
sostituta,
trova fondamento, come già visto, nell’art. 269, comma
3, c.c. il quale stabilisce il criterio per il
riconoscimento della maternità
legale.
Esso «fa sì che la madre
surrogata non possa essere costretta a cedere i propri
diritti sul figlio, indipendentemente dalla preventiva
stipula di un accordo che la obblighi in tal senso, in
quanto, posto che tale contratto è stato riconosciuto
invalido, è di necessità incapace di far sorgere il
diritto ad un’esecuzione in forma specifica».
Tuttavia, «la rigidità di tale criterio non pare tale
da impedire ampie possibilità di elusione della
disciplina vigente».
Ad esempio, puntare sulla gratuità del gesto di
mettere a disposizione per conto terzi le proprie
capacità generative, a patto che non comportino una
diminuzione permanente delle stesse, consente di
sottrarre ad un giudizio d’illiceità la maternità
surrogata
riguardo alla natura non patrimoniale dell’accordo
e all’oggetto dello scambio. Al riguardo, scrive
Baldini:
«la causa in concreto perseguita dalle parti
nell’ipotesi in cui il contratto sia a titolo
gratuito, sembrerebbe consistere nella volontà di
procurare, per spirito di liberalità, una discendenza
a chi ne è privo, il che, realizzando uno degli scopi
naturali della famiglia,
dovrebbe determinare un giudizio di piena liceità
della funzione suddetta. Inoltre, in assenza di una
qualsivoglia finalità economica delle parti, non
sembra azzardato ritenere che, se il fine perseguito è
di carattere altruistico, in quanto diretto a far
conseguire un figlio ad una coppia sterile per puro
spirito solidaristico, il contratto in esame presenta
evidenti affinità con la donazione di organi tra vivi».
Invece, in presenza di una legislazione
in merito, la quale prevede il suo divieto, il
contratto di maternità
surrogata
deve essere considerato, e trattato conseguentemente,
illecito.
Infatti, la tutela degli interessi meritevoli non
contempla direttamente quelli della coppia committente.
I diritti del padre
del nascituro
sono comunque subordinati a quelli della donna che
porta avanti la gravidanza.
Mentre la moglie, non avendo alcun legame biologico
col nascituro, non vanta alcun diritto sullo stesso.
Dopo il parto, il rapporto che viene a realizzarsi tra
la coppia committente
e il minore
è del tutto particolare: (a) l’uomo è il padre
naturale e può porre in essere l’azione di
riconoscimento del figlio; (b) la madre
intenzionale non ha alcun legame con il minore e può
solo invocarne l’adozione
nel caso in cui la madre sostituta
rinunci volontariamente a qualsiasi diritto sul
minore, disconoscendolo; (c) il bambino nato ha così:
(1) un padre biologico
e sociale; (2) una madre non biologica ma sociale; (3)
una madre biologica che però lo disconosce, dunque,
non sociale.
Per potersi, dunque, in qualche modo realizzare un
accordo
di surrogazione
di maternità
dovrebbero realizzarsi le seguenti condizioni: (a)
che la metodica messa in campo non abbia natura
patrimoniale
(sia cioè scevra da interessi economici e realizzata
per spirito di liberalità); (b)
che la madre
gestazionale non operi riconoscimento nei confronti
del nascituro;
(g)
che l’uomo della coppia committente
abbia un legame genetico col nascituro ed operi azione
di riconoscimento del figlio naturale;
(δ) che la donna della coppia committente operi azione
di adozione
speciale del figlio del marito, chiedendone
l’inserimento nella propria famiglia.
Sulle pretese della futura madre
sociale del nato, un elemento a favore può essere
riscontrato nella considerazione giuridica. In
passato, infatti, i giudici hanno in genere
considerato interesse del minore
trovare un contesto familiare più adeguato al fine del
pieno sviluppo della sua personalità piuttosto che
farlo entrare in un istituto in attesa di adozione
ordinaria.
Così, in caso di assenza certa dei genitori,
l’interesse del minore, meritevole di tutela, è quello
di trovare una sede accogliente che possa favorire il
suo processo di crescita. Questa può essere soltanto
la famiglia
committente e per il tenore di vita che deve
avere per aver potuto rendere possibile l’intero iter
procreativo e perché essa è il centro della
volontà procreativa a partire dalla quale ha avuto
origine l’intero processo.
6. Conclusioni.
La pratica della maternità
per sostituzione,
come si è visto, viene incontro al particolare caso di
incapacità riproduttiva della coppia quando è la donna
a non poter concepire e portare a termine una
gravidanza.
Tuttavia, presenta delle problematiche dibattute
presso qualsiasi ordinamento.
La giurisprudenza italiana, in merito, ha contemplato,
sostanzialmente, due ipotesi, distinte e irrelate, le
quali conducono a conclusioni differenti.
Se le tecniche di PMA, per via del loro contributo
materiale, in qualche modo, realizzano una
surrogazione della procreazione umana, una cosa è
una surroga parziale di maternità,
un’altra una surroga totale della
stessa. Infatti, si hanno due casi differenti che
richiedono una diversa soluzione giuridica:
§
maternità
per sostituzione
(surroga parziale)
quando l’inseminazione avviene direttamente nell’utero
della donna surrogata con seme dell’uomo della coppia
committente
(in questo caso la sostituta
sarà sia madre
genetica che gestazionale del nascituro);
§
locazione d’utero
(surroga totale)
quando si realizza il solo impianto nell’utero della
surrogata di un embrione
già fecondato in vitro, di solito, con entrambi
i gameti della coppia committente
(in questo caso si ha una scissione del ruolo di madre
genetica e madre gestazionale).
Nel primo caso, infatti, si ha una sostituzione della
maternità (un’altra donna concede il proprio organismo
per dare un figlio alla donna della coppia
committente), mentre nel secondo caso l’apporto della
donna esterna alla coppia è più limitato: essa non ha
alcun rapporto genetico con il nascituro, ma si limita
a portare avanti la gravidanza per conto terzi.
Dunque, nonostante la letteratura tenda a non
distinguere tra le due ipotesi, solo il primo caso è
degno di considerazione nella presente trattazione.
D’altra parte, è un caso bioetico proprio perché
l’apporto tecnologico alla sua realizzazione produce
degli effetti sociali i quali modificano la concezione
antropologica intorno alla procreazione umana e alle
relative attribuzioni di status personali
(paternità; maternità; filiazione) e relativi doveri.
Infatti, se la volontaria offre il proprio organismo
per partorire un figlio alla fin fine non suo, dato
che con esso ella non ha alcun legame, per quanto sia
una pratica necessariamente dubbia da un punto di
vista morale, non genera molte difficoltà giuridiche:
ella è madre del bambino che porta in grembo ma alla
nascita può benissimo non riconoscerlo e lasciare che
il padre naturale lo riconosca come tale e, anche, sia
pure indirettamente, che sia adottato all’interno
della famiglia paterna.
Da un punto di vista etico, invece, la questione è
molto più complessa: generare un figlio per cedere ad
altri il proprio status di madre (e correlativi
munera)? Procreare non il figlio come bene
in sé, ma come mezzo (per soddisfare i
desideri procreativi di una coppia)?
Più complicato, ancora, appare il caso in cui colei
che partorisce è anche madre genetica del nascituro.
Infatti, in tal caso, come ci si deve comportare?
Secondo un certo punto di vista, ella è perfettamente
madre del bambino. Per di più, può vantare un profondo
legame genetico. Secondo un altro punto di vista,
avendo sottoposto il proprio organismo ad un accordo
postulante un’intenzionalità generativa per conto
terzi, ella non è la madre del bambino dato che non lo
ha generato per sé, ma per altri. E, in questo caso,
lo status personale della filiazione può essere
trasmesso in funzione di un precedente accordo tra
persone? A chi spetta lo status di padre? Di
madre? A chi il dovere di allevarlo adeguatamente? Può
la madre surrogata ripensare alla propria decisione
per tenere con sé il nascituro?
Come si vede, da queste poche battute, certo non
conclusive né tantomeno risolutive, il presente caso
bioetico è importante perché chiama in causa
direttamente convenzioni antropologiche e sanzioni
sociali correlate. In modo particolare, qualsiasi
pratica che abbia l’effetto di strumentalizzare esseri
umani, ancorché fattibile in regime di assenza di
divieto esplicito e a precise condizioni, non può
essere considerata moralmente incoraggiabile e/o
accettabile.
I dubbi suscitati dal presente caso sono tutt’ora
irrisolti e indicano l’effetto della rivoluzione
biologica in atto: quanto una volta era considerato
del tutto “naturale”, e conseguentemente sanzionato
socialmente (secundum naturam), adesso assume
un altro significato, lasciando le comunità umane nel
(disperato) compito di trovare un nuovo fondamento
antropologico alla propria organizzazione giuridica,
di trovare cioè una bussola morale che, lungi dal
rovesciare la tavola dei valori, sia capace di
conciliare l’universo morale generale con i desideri
soggettivi di singoli e/o gruppi.
A. Santosuosso,
Paternità…cit,
p. 620: «Per nuove tecniche di riproduzione
o nuove tecnologie riproduttive si intende
l’insieme di interventi artificiali nel processo
riproduttivo tesi alla procreazione
e alla nascita di nuovi esseri umani».