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Recensioni:
P. BECCHI, Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 190, € 12,50
Morte
cerebrale e trapianto di organi,
di Paolo Becchi, è un volume intrigante. Non solo per la
tesi sostenuta, e cioè che i soggetti in stato di morte
cerebrale da cui oggi preleviamo gli organi non sono
davvero morti
(tesi proposta per la prima volta, come è noto, da Hans
Jonas), ma anche per il modo in cui viene sostenuta: la
scrittura è chiara, l’argomentazione lineare e
l’attenzione critica alle posizioni degli interlocutori
passati in rassegna sempre rispettosa. Questo accade
forse anche per il clima relativamente pacato del
dibattito sull’argomento, che non risente dei toni
conflittuali e ideologicamente virulenti che
caratterizzano invece altre tematiche come l’eutanasia,
l’aborto, la fecondazione in vitro ecc. Nel caso della
“morte cerebrale”, tuttavia, la tranquillità del
dibattito non dipende, secondo Becchi, dal fatto che si
riesca ad affrontare serenamente il problema ma dal
fatto che si tende a rimuoverlo. E infatti, nonostante
da oltre un decennio nella comunità scientifica
internazionale sia in atto «un notevole ripensamento»
sulla validità dei nostri attuali criteri di
accertamento della morte, in Italia vige ancora, almeno
su questo, «un patto di ferro tra laici e cattolici che
nel tentativo di incrementare il più possibile le
donazioni di organi, impedisce una seria discussione
sulle condizioni in cui vengono effettuati gli espianti»
(p. 97).
Quali
sono queste condizioni? Già Jonas – autore al quale Becchi
è particolarmente affezionato, anche per averne curato
l’importante
Technik, Medizin und Ethik
– aveva sostenuto che, in qualche modo, lo stato di morte
cerebrale è il prezzo da pagare alle moderne tecniche di
rianimazione. Queste, infatti, se a volte consentono di
salvare la vita di pazienti che altrimenti sarebbero
morti, altre volte finiscono per prolungarne l’agonia,
facendoli piombare in una sorta di limbo tra la vita e la
morte che pone inquietanti interrogativi. Nel 1968,
proponendo di definire “morti” pazienti prima considerati
in stato di “coma irreversibile”, il celebre
Ad Hoc Committee
dell’Università di Harvard ha messo a tacere questi
interrogativi dando una svolta epocale alla prassi medica
successiva e alle legislazioni di tutti i Paesi del mondo,
con la parziale eccezione del Giappone. Il Comitato di
Harvard, infatti, impose l’equivalenza tra la morte
cerebrale e la morte
tout court,
e cioè
l’idea che si debba essere considerati morti non, come
avveniva prima, una volta cessate le attività del c.d.
tripode vitale (cuore, cervello e polmoni) ma per
l’estinguersi totale e irreversibile delle funzioni
dell’encefalo (tronco e corteccia), anche qualora
rimangano vitali, con l’ausilio dei macchinari, altre
funzioni organiche. In questo modo, di fronte a soggetti
in morte c.d. “cerebrale”, fu possibile non solo staccare
il respiratore, consentendo al processo avviato di
compiersi, ma anche prelevare i loro organi mentre il
respiratore è ancora acceso. Benché sia difficile
«considerare cadavere un essere umano con temperatura
corporea intorno ai 37° C., di colorito roseo, le cui
braccia e gambe seppur immobili non sono rigide, il cui
torace continua ad alzarsi grazie a una macchina che
insuffla aria nei polmoni e il cui cuore batte con
regolare frequenza, facendo circolare il sangue nelle
arterie», il c.d. “criterio di morte cerebrale” è
considerato oggi «un dato scientifico acquisito ormai in
modo definitivo» (p. 11). L’interrogativo a cui il volume
di Becchi vuole offrire una risposta, pertanto, è il
seguente: «come si è giunti a dichiarare cadaveri persone
che non presentano quelle caratteristiche che di solito si
attribuiscono ai cadaveri? E perché?» (p. 13).
Raccogliendo alcune delle più significative posizioni di
un dibattito che egli stesso, soprattutto in Italia, ha
cercato di animare, Becchi propone la sua tesi,
decisamente
tranchant
e provocatoria: la “morte cerebrale” è stato un abile
espediente per considerare “morte” persone che, pur
versando in condizioni ormai irreversibili, di fatto sono
ancora vive
(p. 158). Ciò, si badi, non significa che tali persone
vadano tenute in vita comunque anche in questa condizione:
«significa soltanto che stacchiamo il respiratore non
perché sono già morte, ma per lasciarle morire
dignitosamente» (pp. 158-59). E se non stacchiamo il
respiratore lo facciamo «affinché il prelievo degli organi
avvenga in condizioni ottimali». Ma in questo caso,
aggiunge Becchi, «il donatore dovrà essere informato con
grande chiarezza sulla condizione in cui avviene il
prelievo» (p. 159). Come si può vedere, se la tesi
sull’effettiva condizione dei soggetti in morte cerebrale
è dirompente, la proposta riguardo a ciò che dovremmo fare
nei confronti di questi soggetti è invece rassicurante,
perché in linea con la prassi ormai generalmente in uso.
L’indagine di Becchi, che si muove su un registro sia
medico-scientifico sia etico-giuridico, si apre attraverso
un percorso storico (Cap. I.
Quando moriamo? La nuova
definizione di morte e le sue giustificazioni,
pp. 9-35), in cui l’Autore ricostruisce l’antefatto di
Harvard e gli argomenti utilizzati fin dall’inizio dai
difensori del criterio cerebrale. Questi si basano
sull’idea che la morte non sia il venir meno di
tutto
l’organismo ma dell’organismo
come un tutto.
Singoli organi o funzioni vitali, come la circolazione
sanguigna, possono perciò proseguire anche dopo che
l’organismo ha cessato definitivamente di funzionare come
una totalità integrata. E poiché il funzionamento
integrato dell’organismo dipende dall’encefalo, dobbiamo
concludere che la distruzione dell’encefalo equivale, di
fatto, alla distruzione dell’intero organismo, dunque non
alla morte del solo encefalo ma alla morte
tout court.
Se pertanto l’organismo è un sistema complesso formato da
vari sottosistemi, si dovrà riconoscere che tra questi non
c’è una semplice equivalenza e che l’encefalo (o anche il
solo tronco encefalico, come si pensa nella legislazione
britannica) è il vero “sistema critico”. Il criterio
cerebrale, in tal senso, non costituisce un nuovo criterio
di accertamento della morte ma un affinamento del criterio
tradizionale, quello cardio-polmonare (come sostiene, tra
gli altri, il filosofo inglese David Lamb). L’unica
differenza consisterebbe nel fatto che mentre il criterio
tradizionale consentiva una constatazione
indiretta
dell’assenza di funzionalità encefalica (indicata come
già
avvenuta a partire dall’arresto cardiaco), il nuovo
criterio consente una constatazione
diretta
di quell’assenza mediante l’impiego di esami mirati (p.
24). L’intento di questa teoria, detta dell’«integratore
centrale», è perciò quello di «unificare due diversi
criteri per l’accertamento della morte, definito in
termini di perdita irrimediabile dell’integrazione
corporea» (p. 27). Una conferma che la morte cerebrale è
la morte tout court
e non una morte
diversa
da quella tradizionalmente associata all’arresto cardiaco,
consisterebbe nel fatto che pazienti cerebralmente morti
subiscono un arresto cardiaco in un breve lasso di tempo.
Anche se con questa tesi, come fa notare Becchi, si
finisce per dimostrare l’esatto contrario di quello che si
vuole sostenere: dire che in seguito alla morte cerebrale
l’arresto cardiaco è imminente significa, infatti, dire
che il paziente sta per morire e non che è già morto (p.
104).
A
questo proposito nel volume viene evidenziata una
significativa convergenza tra la posizione conservatrice
di Jonas e quella radicale di Peter Singer (Cap. II.
Due posizioni
filosofiche alternative a confronto,
pp. 37-95). Entrambi, infatti, ritengono che il Comitato
di Harvard abbia confuso due questioni diverse, e cioè da
un lato «quando smettere di prolungare il processo del
morire di un paziente in coma irreversibile» e, dall’altro
lato, «quando considerare quel processo concluso» (p. 41).
Che al cospetto di questi pazienti la morte sia qualcosa
che non bisogna più impedire non ci autorizza a
trasformarla in qualcosa di già avvenuto, confondendo il
piano etico-pratico con quello teorico-scientifico (pp.
43-44). E invece, trasformando una «prognosi infausta» in
una «diagnosi di morte», i membri del Comitato ci hanno
autorizzati a sospettare che il vero movente
dell’operazione non sia stato quello di capire se questi
pazienti fossero vivi o morti, ma la volontà di rendere
lecito il prelievo dei loro organi. La morte cerebrale
sarebbe dunque, per Jonas e Singer, «un falso
scientifico». Ma mentre per Jonas smascherare questa
falsità significa denunciare l’immoralità del prelievo di
organi, «dal momento che in questo caso sarebbe proprio il
prelievo di organi a uccidere il paziente» (p. 92), per
Singer significa invece dimostrarne la piena liceità,
visto che nell’utilitarismo sposato dal filosofo
australiano è moralmente lecito uccidere un uomo che non
può ricavare più alcun beneficio dalla vita a favore di
altri che, viceversa, potrebbero avvantaggiarsi dei suoi
organi.
Al di
là del sospetto che la definizione di Harvard sia stata un
mero escamotage,
è comunque possibile, secondo Becchi, dimostrare che gli
odierni criteri di morte cerebrale falliscono proprio in
ciò che vantano, e cioè la possibilità di accertare la
perdita irreversibile di
tutte
le funzioni cerebrali (Cap. III.
Il dibattito
medico-scientifico intorno alla morte cerebrale,
pp. 97-111). A questo riguardo vengono citati i principali
risultati di alcune ricerche e osservazioni cliniche, «in
contro tendenza alle voci più ascoltate» (p. 97), che
mostrano casi di pazienti diagnosticati come cerebralmente
morti, i quali, al contrario, presentano funzioni
cerebrali ancora attive. Una delle osservazioni più
inquietanti, riportate dai medici Robert Troug e James
Fackler, è che «alcuni pazienti continuano
insospettatamente a reagire agli stimoli esterni, come
dimostra ad esempio l’aumento della frequenza cardiaca e
della pressione sanguigna a seguito dell’incisione
chirurgica prima del prelievo degli organi» (p. 99). Il
neurologo statunitense Alan Shewmon, considerato uno dei
«più implacabili critici» dell’identificazione della morte
umana con la morte cerebrale, contesta, tra l’altro, anche
l’idea che «la distruzione del tronco encefalico di per sé
comporti necessariamente la perdita della capacità di
coscienza e di capacità respiratoria» (p. 106). A voler
utilizzare una metafora, in effetti, «la distruzione di un
collegamento elettrico non comporta la perdita della
capacità di illuminazione di una lampada» ma soltanto che
«quella lampada non riceve più corrente». Allo stesso
modo, «la distruzione del tronco encefalico impedisce la
manifestazione di funzioni coscienti, in quanto il sistema
[...] contenuto nel tronco non stimola più gli emisferi
cerebrali, ma ciò non implica la perdita della capacità di
coscienza» (pp. 106-107). E anche nel caso della
respirazione, si deve dire che la distruzione del tronco
encefalico «comporta la perdita della spontaneità
dell’atto respiratorio» e non della «capacità
respiratoria», intesa «come capacità di effettuare scambi
gassosi a livello di tessuti e organi» (p. 107). Se questa
capacità non vi fosse, infatti, lo stesso respiratore
artificiale, una volta collegato al paziente, non potrebbe
ossigenarne meccanicamente il sangue.
Da
queste e da altre indagini emerge, dunque, quanto sia
discutibile l’idea su cui finora si è basata la
credibilità del criterio cerebrale di morte, e cioè che
l’encefalo sia «l’organo responsabile dell’integrazione
delle parti corporee che rendono l’organismo un tutto
organizzato e funzionante» (p. 107). In realtà, come
sostiene Shewmon (ma anche Jonas sulla scorta di
Aristotele), «l’unità integrativa
non
è un’imposizione
dall’alto
di un “integratore centrale” a un conglomerato di organi
altrimenti non integrato. (Se lo fosse, anche il corpo in
salute sarebbe privo di una
vera
unità, ma consisterebbe piuttosto di un encefalo portato
in giro e tenuto vivo da parti corporee microgestite in
modo per così dire dittatoriale.) Essa è invece una
caratteristica non localizzata, olistica fondata sulla
mutua interazione di tutte le parti del corpo» (p. 108).
Da qui la ricorrente critica – a dire il vero non sempre
giustificata – rivolta ai sostenitori della morte
cerebrale: affermare che la persona non esiste più quando
il suo cervello non funziona è un’indebita riduzione della
persona alle sue attività cerebrali.
Vengono in mente, al riguardo, le provocazioni di Singer,
soprattutto quelle lanciate alla Chiesa cattolica.
Riferendosi ad alcuni discorsi di Pio XII e di Giovanni
Paolo II, in cui si approva la pratica dei trapianti
d’organo, Singer si dichiara sorpreso del fatto che
accettando l’equivalenza tra morte di fatto e morte
cerebrale la Chiesa si sia poi rifiutata di estenderla
anche ai neonati anencefalici. E, in effetti, se la mera
vita biologica del soggetto cerebralmente morto ci
autorizza a espiantare i suoi organi, perché non possiamo
fare lo stesso con la vita biologica del neonato
anencefalico, condannato, anch’egli, a morire in breve
tempo? Becchi fa notare, però, che è proprio questa
premessa a essere respinta dalla Chiesa: una volta
accertata la morte cerebrale, infatti, non saremmo più in
presenza di una vita biologica ma di un cadavere. Insomma,
dal momento che per la Chiesa «la perdita irreversibile
delle funzioni di tutto l’encefalo è il dato scientifico
che ci consentirebbe con sicurezza di stabilire la morte,
chi ha subìto tale perdita è morto; non così invece il
neonato anencefalico che, pur privo di corteccia
cerebrale, possiede tuttavia un tronco encefalico in
qualche modo ancora funzionante» (p. 70). Qui il neonato
anencefalico è paragonabile, semmai, al soggetto in stato
vegetativo e non a un soggetto dichiarato cerebralmente
morto. In tal senso la posizione della Chiesa, «si voglia
condividerla o meno», ha per Becchi «una sua coerenza» e
«diventa estremamente problematica solo nel momento in cui
ammettiamo che, in realtà, il morto cerebrale non è di
fatto ancora morto» (p. 70).
Proprio alla dottrina cattolica sull’argomento viene
dedicato un intero capitolo (Cap. IV.
Le ambiguità della Chiesa
cattolica,
pp. 113-138). Becchi nota, giustamente, che «se si
analizzano alcuni documenti (peraltro piuttosto scarsi)
del Magistero cattolico la posizione della Chiesa è [...]
molto più problematica di quanto non appaia a prima vista»
(p. 115). Citando alcuni importanti testi del Magistero
oltre a significative e autorevoli prese di posizione come
quelle del cardinale di Colonia Joachim Meisner e
dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, Becchi mostra come
nella Chiesa vi sia attualmente una propensione ad
accettare la pratica del prelievo dei trapianti da
cadavere, subordinando tale pratica a due fondamentali
condizioni: il consenso del donatore o dei suoi aventi
diritto e il pieno accertamento della sua «morte reale» (e
non “clinica”, come precisa Becchi commentando
l’espressione, che si trova nel recente
Compendio
del
Catechismo). Definendo «piuttosto difensiva e ambigua»
questa posizione per il fatto che in essa «non si menziona
mai la condizione clinica a partire dalla quale è lecito
il prelievo» (p. 135), Becchi sembra tuttavia smentire
quanto aveva scritto in precedenza, presentando la
posizione cattolica come una posizione che considera la
morte cerebrale «un dato scientifico definitivamente
acquisito» (p. 70). E a ben vedere le cose non stanno
propriamente così, come in parte anche Becchi mostra nel
suo testo. La Chiesa non è infatti una comunità
scientifica, e tutto quello che può fare in casi come
questi, e lo hanno fatto i diversi Pontefici da Pio XII in
poi, è farsi interprete e custode di quanto la coscienza
morale spontaneamente intuisce, e cioè che un espianto di
organi può essere moralmente lecito solo da cadaveri
dimostrati tali a tutti gli effetti. Così, per es.,
Giovanni Paolo II ha affermato che «di fronte agli odierni
parametri di accertamento della morte la Chiesa non fa
opzioni scientifiche» (cit. a p. 127), limitandosi a
considerare il criterio neurologico-cerebrale come un
criterio che «non appare in contrasto con gli elementi
essenziali di una corretta concezione antropologica» (p.
128). Se questo criterio è valido, dunque, non lo è perché
è “cerebrale”, “cardio-respiratorio” ecc., ma «in quanto
considerato segno della perduta capacità di integrazione
dell’organismo individuale come tale». La Chiesa, in altri
termini, sposa non tanto il criterio di morte cerebrale
quanto l’idea di morte come disintegrazione completa che
ad esso soggiace. Non è escluso, pertanto, che il criterio
cardio-polmonare esprima meglio di quello cerebrale questa
idea di totale disintegrazione. Anzi, stando al celebre
discorso di Pio XII sulla rianimazione, si può dire che in
esso fosse già contenuto addirittura un rifiuto
ante litteram
del criterio cerebrale, visto che il Papa dichiarò allora
che «considerazioni di ordine generale permettono di
credere che la vita umana continua fino a che le sue
funzioni vitali – a differenza della semplice vita degli
organi – si manifestano spontaneamente o sia pure con
l’aiuto di procedimenti artificiali» (Risposte
ad alcuni importanti quesiti sulla “rianimazione”,
cit. p. 117). Sono di questo avviso, per es., quasi tutti
gli studiosi cattolici intervenuti nella recente raccolta
di saggi Finis
Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?,
che contiene un contributo dello stesso Becchi. Se a ciò
si aggiunge che nel discorso precedentemente citato
Giovanni Paolo II ha fatto riferimento al consenso della
comunità scientifica come significativo parametro per
valutare l’affidabilità del criterio in gioco, si dovrebbe
concludere che, qualora mancasse tale consenso – e oggi
manca, come evidenzia Becchi, sempre di più – allora
verrebbe meno uno dei requisiti che rendono attualmente
credibile il criterio cerebrale.
A
prescindere dal prelievo di organi, sulla prassi medica
nei confronti dei pazienti in morte cerebrale, come è
risaputo, è unanime il consenso circa l’opportunità di
sospendere la terapia intensiva. Va ricordato, però, che
per la posizione cattolica ad autorizzare l’interruzione
della ventilazione artificiale di un paziente non è
l’impossibilità che egli ritorni alla vita cosciente, come
sembra attribuirle Becchi (p. 118), ma la prognosi
infausta, e cioè l’imminenza dell’arresto cardiaco
spontaneo che il respiratore si limiterebbe a rinviare
senza poter scongiurare. In ogni caso, e qui la posizione
della Chiesa e di Pio XII è in perfetta sintonia con
quella di Jonas, nell’impossibilità di determinare con
assoluta certezza il confine tra la vita e la morte vale
il principio in
dubio pro vita:
non possiamo prelevare gli organi di un uomo, magari solo
perché lo vediamo sdraiato e immobile, senza avere la
certezza che egli sia effettivamente morto.
Nell’ultimo capitolo
(V. Profili legislativi e giurisprudenziali sulla morte
cerebrale, pp. 139-164) vengono infine evidenziate
alcune implicazioni giuridiche a partire dalla normativa
italiana, che identifica la morte con la «cessazione di
tutte le funzioni dell’encefalo» (Legge n. 578/1993, art.
1, 1). Poiché però, come si è visto, i criteri utilizzati
per accertare la morte cerebrale non sono in grado di
rilevare la cessazione di tutte le funzioni
dell’encefalo, «se ne dovrebbe concludere che – a rigor di
legge – i prelievi degli organi oggi in Italia avvengono
non post mortem, ma quando la persona potrebbe
essere ancora viva» (p. 152). La nuova disposizione
secondo cui i criteri cerebrali valgono per tutti, e
dunque non solo per i potenziali donatori, è stata
escogitata, secondo Becchi, per fugare ogni sospetto che
il vero motivo della legge fosse quello di legittimare il
prelievo di organi. Così, una volta accertata la morte
cerebrale, è previsto che il medico stacchi comunque la
spina del respiratore, anche in caso di non donatore. E
«per rafforzare l’idea che abbiamo con certezza a che fare
con cadaveri», ricorda Becchi, sarà anzi obbligato a farlo
senza possibilità di avanzare obiezione di coscienza (p.
140). In questo modo, però, la legge avalla
un’ingiustizia, esercitando pressione sui non donatori per
dissuaderli dalla loro scelta «con l’argomento che tanto
non potranno contare su quel trattamento differenziato (il
respiratore accesso in attesa dell’arresto
cardiocircolatorio) che
la
precedente legge n. 644 del 1975 loro ancora garantiva»
(p. 140).
Becchi conclude la sua indagine con «una
proposta ragionevole» (pp. 162-165). Si è detto che un
soggetto cerebralmente morto non è (ancora) un cadavere.
Questo non ci impedisce però l’espianto dei suoi organi,
aggiunge Becchi, che sarebbe moralmente giustificato –
benché provochi la morte del donatore – allo stesso modo
in cui è pienamente giustificata la sospensione di un
trattamento ormai inutile, che prolunga penosamente il
processo del morire. Così, come non parliamo di
“eutanasia” in quest’ultimo caso, non dovremmo parlare di
eutanasia neanche nel caso del prelievo di organi. Il caso
classico dell’eutanasia, infatti, «è quello di un malato
terminale cosciente che chiede al suo medico di porre
termine alla sua vita con una iniezione letale, ma questa
situazione non è in alcun modo paragonabile all’azione del
medico quando procede al prelievo degli organi da un morto
cerebrale. Egli non sta uccidendo qualcuno che tra mille
sofferenze continuerebbe a vivere, ma pone soltanto fine
ad un processo che, dopo l’accertamento della morte
cerebrale, sarebbe comunque lecito interrompere,
sospendendo la terapia intensiva» (p. 94). Questa
soluzione, tuttavia, sembra non tenere in dovuta
considerazione il complesso problema della differenza tra
“uccidere” e “lasciar morire”, che caratterizza, come è
noto, tutte le questioni etiche di fine vita. E in
effetti, se i
pazienti in morte cerebrale sono vivi,
“lasciarli morire” sospendendo la ventilazione artificiale
è moralmente diverso dal provocare la loro morte
espiantandone gli organi: nel primo caso accettiamo la
loro morte, nel secondo caso invece li uccidiamo noi.
Sembra che qui Becchi compia la stessa mossa che Jonas
rimproverava al Comitato di Harvard, e cioè quella di
coprire, dietro la nobile finalità del gesto, la sua
natura intrinseca: prelevare organi da un paziente in
morte cerebrale –
se
questo
paziente, come ritiene Becchi, è vivo – significa infatti
ucciderlo e non soltanto salvare un altro paziente
bisognoso di trapianto. Si potrebbe obiettare che se il
morto cerebrale non è ancora
un
cadavere è però iniziato un processo irreversibile che lo
condurrà alla morte. Visto però che questo processo può
durare mesi e perfino anni (come dimostrano i casi
illustrati dallo stesso Becchi), come sarà possibile
distinguerlo dalla vita che non è lecito interrompere?
Anche la vita, infatti, è un processo irreversibile che
conduce alla morte. Un giorno di più è sempre un giorno di
meno. Introdurre l’idea di un consenso anticipato,
informando il potenziale donatore «che il prelievo, pur
non procurandogli alcun danno, avverrà in un momento in
cui il processo del morire è già cominciato ma non ancora
finito» (p. 95) non risolve la cosa. Tra quest’ultimo caso
e quello di eutanasia del malato terminale, infatti, non
ci sarebbe la differenza che invece a Becchi sta a cuore
mantenere: se i soggetti cerebralmente morti che hanno
rilasciato un precedente consenso non sono cadaveri ma
moribondi irreversibili, allora considerare lecito il
prelievo dei loro organi non è diverso dal considerare
lecita anche l’eutanasia volontaria dei malati terminali
(magari per finalità umanitarie come liberare un posto
letto per altri pazienti con prospettive di guarigione).
Pensare che il prelievo di organi sia immorale per il
semplice
fatto
che i morti cerebrali non sono veramente morti, tuttavia,
significa per Becchi cadere in un equivoco analogo a
quello in cui è caduto il Comitato di Harvard: «L’errore,
sempre più evidente, è stato quello di aver voluto
risolvere un problema etico-giuridico con una presunta
definizione scientifica. E se noi oggi concludessimo che,
poiché la definizione si è rivelata falsa, viene meno
anche la possibilità del trapianto faremmo, sia pure al
contrario, lo stesso errato ragionamento di coloro che
sulla base di quella definizione avevano giustificato i
trapianti. Il problema
etico-giuridico
dei trapianti non si risolve con una definizione
medico-scientifica
della morte» (p. 163). In effetti le definizioni
scientifiche sono solo una condizione necessaria, e non
anche sufficiente, per risolvere un problema etico. Se
pertanto è vero che un agire responsabile non può basarsi
direttamente sulla validità o meno delle nostre
definizioni, è però anche vero che queste definizioni sono
lo strumento
interpretativo
di
un’esperienza (anche di senso comune) che è poi il
criterio che ci induce a considerarle valide o meno. È
dunque a quest’esperienza che occorre guardare, per
evitare che il rifiuto di risolvere i nostri problemi
morali basandoci sulle definizioni diventi un
irresponsabile distogliere lo sguardo dalla realtà che
esse cercano di esprimere. In altri termini: se dalla
contestazione della definizione medico-scientifica di
Harvard viene meno la possibilità dei trapianti questo non
accade perché la definizione si è rivelata falsa, ma
perché le persone alle quali è stata erroneamente
applicata
potrebbero
essere vive. Ma se le cose stanno così, delle due l’una: o
si accetta la validità scientifica del criterio di Harvard
e dunque anche la liceità morale dei trapianti, oppure si
rifiuta tale validità, ma allora non si possono più
giustificare i trapianti. La pur condivisibile
affermazione che “il problema
etico-giuridico
dei trapianti non si risolve con una definizione
medico-scientifica
della morte” qui rischia, come si può vedere, di
proteggere da ogni possibile smentita la soluzione che si
è già deciso di dare al problema. E, in effetti, sembra
che Becchi dia per scontata la liceità morale dei
trapianti qualunque
sia la validità del criterio di morte utilizzato. Lo si
evince dai suoi commenti finali sulla prospettiva di
Shewmon. Il fatto che secondo il neurologo statunitense si
possa disattivare la ventilazione artificiale solo dopo la
cessazione completa delle funzioni del tripode vitale (non
soltanto del cervello, dunque, ma anche del cuore e dei
polmoni), e il fatto che l’impossibilità di una ripresa
spontanea delle funzioni vitali sia certificabile solo
dopo venti minuti di attesa, sarebbero un criterio di
morte insoddisfacente, secondo il nostro Autore, perché
non ci consente di affrontare «in modo adeguato il
problema relativo all’eventuale ricerca di nuove procedure
di prelievo per sostituire quella attualmente in uso» (p.
109). Da un cadavere di venti minuti, in effetti, non si
possono prelevare organi in buone condizioni. Questo,
però, non è un argomento contro la tesi di Shewmon. Lo
sarebbe solo se la validità dei criteri di accertamento
della morte dipendesse dalla loro capacità di giustificare
moralmente l’espianto di organi. Che però è esattamente
l’idea che Becchi contesta in tutto il suo lavoro. In
attesa di saperne di più, la proposta più ragionevole
rimane ancora quella di Hans Jonas e di Pio XII:
in dubio pro vita.
Luciano Sesta
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