Home About International University Project Conferences Courses Lectures Projects Publications Readings Contribute Contact      

home \ associazione thomas international \ questioni di bioetica \ settembre 2008 \ recensioni: a. pessina, eutanasia. della morte e di altre cose.

Home

Redazione

Presentazione

Numero in corso

Archivio

Informazioni bibliografiche

Rassegna stampa

Contatti

Link utili

 

ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 7 - Settembre 2008 
     
 

Recensioni:

A. PESSINA, Eutanasia. Della morte e di altre cose, Cantagalli, Siena 2007, pp. 123, € 12,50

 

 

Persuaso che non si possa discutere dell’eutanasia «senza parlare della morte e di altre cose» (p. 7), Adriano Pessina ci consegna un volume agile e al tempo stesso – come è nel suo stile – di notevole spessore teorico. L’idea, infatti, è che anche in tema di eutanasia prima di «cambiare l’ordine del mondo» mediante strategie politiche occorra «far chiarezza nei propri pensieri» (p. 9), affrontando tutte le questioni che rendono estremamente confuso il dibattito e dalla cui delucidazione dipende, prima ancora che un’eventuale soluzione del problema, la sua corretta impostazione. Si parte così dalla tesi, apparentemente pacifica, secondo cui in materia di fine vita la libera scelta dell’individuo debba essere sovrana (Cap. 1), per poi discutere il c.d. “diritto di morire” (Cap. 4) passando per la distinzione tra “uccidere e lasciar morire” (Cap. 2) e per quella tra il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia omissiva (Cap. 3). Vengono inoltre proposte alcune riflessioni sul senso del morire nell’odierno contesto culturale (Cap. 5) e sulle implicazioni antropologiche e sociali dell’amministrazione medica della morte (Cap. 6). Infine, in dialogo critico con tesi rese note soprattutto da Hans Küng, si discute a livello filosofico-teologico l’alternativa tra disponibilità e indisponibilità della vita a partire dalle categorie del dono e della responsabilità (Cap. 7).     

Pessina avvia la sua indagine denunciando come equivoca e vaga l’espressione aiutare a morire, con cui spesso si intende l’azione del medico che pratica l’eutanasia. Quando l’aiuto consiste nel causare intenzionalmente la morte del paziente, in effetti, sarebbe più onesto – come fanno anche alcuni studiosi favorevoli all’eutanasia – riconoscere che il medico sta uccidendo (p. 12). Per “eutanasia”, pertanto, si deve intendere «l’atto con il quale si provoca direttamente e volontariamente il decesso di una persona affetta da malattia o disabilità gravi» (p. 27). Un “atto” simile è anche la decisione di non intervenire lasciando morire un paziente che potrebbe ancora trarre beneficio da una qualche terapia o trattamento. In questo caso si tratterebbe di eutanasia in forma di abbandono terapeutico, e cioè di omissione di trattamenti e supporti vitali ancora adeguati alla situazione clinica del paziente. Pessina preferisce non parlare, al riguardo, di “eutanasia passiva”, perché con quest’espressione spesso si fa riferimento al rifiuto dell’accanimento terapeutico, ovvero di «tutti quei trattamenti che risultano sproporzionati alla situazione clinica del paziente, che di fatto causano più danni che benefici alla persona trattata e che non riescono né a stabilizzarne né a migliorarne la condizione generale» (ibidem). Quest’ultima fattispecie non è inquadrabile come una forma di eutanasia, nemmeno passiva, perché manca la volontà di provocare la morte. Una morte che, pur conseguendo all’astensione medica, sopraggiunge a causa della malattia e non di un’azione umana. Quando questa morte è invece rinviata a ogni costo sarebbe meglio evitare l’espressione “accanimento terapeutico” sostituendola con quella di «accanimento clinico». E in effetti un trattamento terapeutico, se è veramente tale, non può in alcun modo configurarsi come una forma di “accanimento” (p. 28).

Ora, però, il fatto che sia nell’eutanasia vera e propria, sia nel rifiuto dell’accanimento clinico, la conseguenza sia la morte del paziente, ha indotto alcuni studiosi utilitaristi e liberali a considerare moralmente equivalenti l’“uccidere” e il “lasciar morire”, e cioè l’atto del causare la morte dalla sospensione di trattamenti sproporzionati da cui consegue la morte. Ma questa equivalenza, diventata «un vero e proprio cavallo di battaglia dei sostenitori dell’eutanasia» (p. 31), presuppone, come nota Pessina, che la morte dipenda sempre e solo dalle nostre decisioni e che non esista, dunque, qualcosa come una morte naturale o la stessa finitezza umana. In realtà, la sospensione di un trattamento che prolunga «un processo agonico già iniziato», lungi dal poter essere equiparata all’eutanasia, è «una doverosa accettazione della condizione mortale dell’uomo» e non va confusa con l’omissione di soccorso (p. 36). Che anche qui, come nel caso dell’abbandono terapeutico o dell’iniezione letale, l’esito sia pur sempre la morte, non significa che stiamo uccidendo. Una morte evitabile solo al prezzo di prolungare l’agonia del morente, infatti, non è una morte procurata ma una morte accettata. E questo, tiene a precisare Pessina, non significa rassegnazione. Quando «non c’è più niente da fare», infatti, «c’è in realtà ancora molto da fare», perché l’assistenza al morente richiede che non vengano interrotti trattamenti, come le cure palliative, che sollevano dal dolore e dalla sofferenza anche se non restiuiscono la salute (p. 39).  

Le suddette precisazioni consentono di affrontare il complesso tema del diritto di rifiutare i trattamenti (Cap. 3). Pessina ricorda come questo diritto non sia incondizionato. Lo dimostrano i casi delle vaccinazioni obbligatorie o di pazienti come i neonati, i bambini e gli anziani incapaci di intendere e di volere, che vengono trattati anche in mancanza di un consenso informato (pp. 42-43). Se nessuno considera questi trattamenti sanitari una forma di violenza, ciò accade perché si presuppone che esistano dei «criteri di natura oggettiva» al servizio della salute e della solidarietà: «la salute, infatti, non è una cosa, ma uno dei possibili modi di essere dell’esistenza umana: preoccuparsi della salute altrui significa, anche, preoccuparsi dell’altro» (p. 42). Chiarito ciò, Pessina fa notare come il diritto di rifiutare i trattamenti può essere equiparato all’eutanasia, e dunque a una richiesta volontaria di morte, solo a condizione di fare della libertà di scelta l’unico fondamento di legittimità di tale rifiuto. Ma così non è, come dimostra il fatto che anche i più radicali sostenitori della “buona morte” la ritengono lecita non per il semplice fatto che il soggetto la richiede liberamente, ma perché egli la richiede in «situazioni giudicate estreme o straordinarie» (p. 47), quali possono essere quelle di una grave patologia, magari nella sua fase terminale. Questa, secondo Pessina, è «un’ammissione importante», «perché sposta il centro dell’argomento dalla volontà alla situazione: in altri termini, la volontà sarebbe condizione necessaria, ma non sufficiente, per legittimare la scelta del paziente» (pp. 48-49). A rendere anche sufficiente questa condizione necessaria saranno dunque le ragioni dell’eventuale rifiuto del trattamento, che possono andare dalla rassegnazione rinunciataria al sacrificio, come quando si decide di non sottrarre più risorse, per es. economiche, alla propria famiglia in gravi difficoltà. Queste ragioni, aggiunge Pessina, non sono moralmente indifferenti. C’è differenza, infatti, «tra sapere di dover morire e rassegnarsi a morire o chiedere di morire perché la qualità della vita non risponde più alle proprie esigenze, alle proprie aspettative (o alle aspettative che altri hanno su di noi)» (p. 54). 

Subordinare la libertà di scelta a una gerarchia di valori non significa però, come spesso invece si tende a credere, imporre una qualche forma di paternalismo bioetico o di costrizione a vivere. Quando una persona decide, liberamente e consapevolmente, di rifiutare un trattamento salvavita, non resta altra possibilità, «una volta esercitata ogni legittima forma di pressione persuasiva, se non quella di accettare tale decisione» (p. 57). È in nome della stessa dignità della persona, infatti, che si dovranno rispettarne le decisioni «che la riguardano direttamente, anche qualora venissero considerate moralmente sbagliate». Dal lato del paziente, del resto, il rifiuto dei trattamenti non può «essere considerato in senso proprio come un suicidio», ma come «una forma di rassegnazione, visto che la morte sarebbe provocata dalla patologia in corso e non dal soggetto stesso» (ibidem). Questo diritto a non subire imposizioni sanitarie non è però un diritto di morire, come se la rassegnazione al decorso di una malattia ad esito infausto fosse equivalente al suicidio medicalmente assistito. Quando si parla di un diritto individuale di morire, infatti, spesso si dimentica che «affermare un diritto significa sempre avanzare una richiesta, una pretesa verso altri» (p. 62). Un diritto alle cure, per es., implica un dovere di assistenza da parte della classe medica. E questo dovere è oggettivo perché oggettivo è il bene della salute, come dimostrano i casi prima citati delle cure somministrate a soggetti incapaci di intendere e di volere. Ma se è così, allora tutti coloro che, come Max Charlesworth, tendono a identificare la buona morte con la morte scelta, dovranno spiegare come sia possibile «istituire doveri oggettivi nei confronti di scelte che si qualificano come puramente soggettive» (p. 56). Se infatti c’è un diritto di morire ci sarà anche il dovere, da parte di qualcun altro, di uccidere. Ma così il pluralismo liberale distrugge se stesso, visto che nessuno potrebbe fare obiezione di coscienza di fronte al dovere di uccidere così come nessuno può farla di fronte al dovere di assistere i propri pazienti.

In realtà, secondo Pessina, il vero dovere del medico non è di farsi mero esecutore della volontà del paziente, ma è quello «di proteggere il suo stesso paziente nei confronti di derive psicologiche dettate da depressione, stati d’ansia, senso di abbandono» (p. 99). Promuovere l’amministrazione della morte, invece, «finisce di fatto con l’avallare il giudizio che il paziente dà di se stesso, e cioè di essere di troppo, di peso, di non avere più quella dignità che, se fosse riconosciuta socialmente, comporterebbe il rifiuto di acconsentire alla sua richiesta» (ibidem). Con la sgradevole conseguenza che l’accettazione dell’eutanasia fungerebbe «da concausa alla richiesta di eutanasia», creando «le condizioni culturali e sociali che avallano la percezione di sottostima che il soggetto ha di sé» e introducendo nella società l’idea «che alcuni esseri umani fanno bene a considerare la loro vita indegna» (p. 100). A questo proposito Pessina si domanda quale significato si debba attribuire all’espressione vita degna di essere o no vissuta. In certe situazioni di sofferenza e di grave malattia, si dice, la vita non è più degna di essere vissuta. Questa formula, apparentemente convincente, nasconde però un’idea inconfessabile: dire che ci sono situazioni in cui la vita di una persona non vale più la pena di essere vissuta significa dire che ci sono situazioni in cui è meglio che quella persona non esista più. La vita di una persona, infatti, non è qualcosa che la persona possiede, ma è la stessa persona. La vita di Tizio è Tizio stesso. Certo, una vita da schiavi, di povertà e di miseria non è degna dell’uomo. Ma in questo caso sono le condizioni di vita a non essere degne dell’uomo e non la sua stessa vita (pp. 100-101). Del resto, solo se un uomo continua ad avere la sua dignità noi possiamo dire che ci sono condizioni che per lui non sono degne, che non sono cioè conformi alla sua dignità. La dignità di un uomo è dunque ontologicamente intangibile, nel senso che non può essergli tolta dall’esterno o da ciò che gli accade. Un uomo può perdere la sua dignità solo moralmente, per es. quando non rispetta la dignità dell’altro: così facendo, infatti, egli non toglie all’altro la sua dignità ma perde la propria.

Al termine della sua indagine Pessina conclude con una riflessione su un’altra espressione abusata, e cioè quella secondo cui la vita è indisponibile perché è un dono di Dio. Espressione che rischia di essere continuamente fraintesa, a causa del contesto secolarizzato e «poco avvezzo al linguaggio della fede vissuta» in cui viene a volte imprudentemente lanciata. Espressione che, inoltre, appare logicamente ambigua, se la vita della persona non è qualcosa che la persona riceve come un dono ma l’esserci stesso della persona: «chi riceve il dono della vita non pre-esiste alla vita stessa e la vita non è qualcosa che si aggiunge all’uomo» (p. 106). Affermare l’indisponibilità della vita, in fondo, significa affermare questa inseparabilità di colui che vive dalla propria vita. Giustificare l’eutanasia invocando la disponibilità della vita significa al contrario dimenticare che «posso disporre soltanto di ciò che non sono io e [che] posso farlo soltanto perché l’io che dispone di sé non è tolto» (p. 107).

Questa indisponibilità, che potremmo definire trascendentale, rimanda a una relazione di trascendenza. Gli stessi difensori dell’eutanasia, nella misura in cui affermano che c’è qualcosa di più importante che vivere, finiscono per riconoscere una qualche forma di trascendenza. Nella fede biblica questa trascendenza è espressione di un Dio rispetto al quale l’indisponibilità della vita non è altro che la dignità, preziosa, di colui che vive, che esiste come creatura solo nella misura in cui è continuamente amato. Al di là di ogni retorica del dolore, spesso a torto, qualche volta a ragione, rimproverata alla prospettiva cristiana, Pessina chiarisce: «Non si è amati da Dio perché si è malati, perché si è sofferenti o esistenzialmente affaticati, ma si è amati da Dio perché si è» (p. 109). Rimanere in vita nonostante tutto, così suona il messaggio finale di Pessina, significa non soltanto affidarsi a questo mistero, ma anche tenere aperta «l’inquieta ricerca sul perché della morte» (p. 116), che risulterebbe invece soffocata dalla produzione tecnica del decesso.

Su quest’ultimo punto forse sarebbe stato utile, in dialogo con Hans Küng, sviluppare ulteriormente il discorso su un piano fenomenologico-religioso oltre che metafisico-teologico. In effetti si potrebbe obiettare, come fa Küng, che mantenere in vita un uomo che soffre è, da parte del Creatore, non un dono ma una crudele imposizione. Così, di fronte alla sofferenza, sorge tragicamente la domanda sul “perché”, sempre sospesa tra la supplica e la bestemmia. E bisogna riconoscere che la fede, contrariamente a quanto spesso si crede, non ha risposte facili a questa domanda. Gli amici di Giobbe, in fondo, dimostrano come i limiti di tutti i discorsi su eutanasia, sofferenza e dignità della morte dipendano dal fatto che si tratta di discorsi fatti da gente in buona salute, che mentre parla non sta soffrendo né si trova in prossimità della morte. Perciò le parole degli altri, soprattutto quelle che indicano una possibile via di uscita alla disperazione del malato, suonano vuote, fredde e distaccate, quasi beffarde, come se chi non soffre non fosse capace di prendere sul serio chi soffre. Chi parla della sofferenza altrui, inoltre, è proprio così sicuro di poterne parlare allo stesso modo quando sarà lui stesso a soffrire? Il dolore e la sofferenza, insomma, sembrano destinati per definizione a essere sottovalutati, almeno fino a quando non sono provati in prima persona. Ma quando sono provati in prima persona, purtroppo, non si è più nella condizione di chi può aiutare ma in quella di chi deve essere a sua volta aiutato. A meno che non vi sia qualcuno che, avendo sofferto può comprendere il nostro soffrire e che, essendo guarito, può aiutarci a guarire. Ed è proprio il Risorto, a cui Pessina infine accenna, che sembra incarnare pienamente questa figura del “guaritore ferito”, lasciando intravedere, nell’abisso della prova, la speranza di un suo definitivo superamento.

 

 

Luciano Sesta

 
     
     
 
 
Confezionando