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Recensioni:
A. PESSINA, Eutanasia. Della morte e di altre cose, Cantagalli, Siena 2007, pp. 123, € 12,50
Persuaso che non si possa discutere dell’eutanasia
«senza parlare
della morte e di altre cose»
(p. 7), Adriano Pessina ci consegna un volume agile e al
tempo stesso – come è nel suo stile – di notevole
spessore teorico. L’idea, infatti, è che anche in tema
di eutanasia prima di «cambiare l’ordine del mondo»
mediante strategie politiche occorra «far chiarezza nei
propri pensieri» (p. 9), affrontando tutte le questioni
che rendono estremamente confuso il dibattito e dalla
cui delucidazione dipende, prima ancora che un’eventuale
soluzione del problema, la sua corretta impostazione. Si
parte così dalla tesi, apparentemente pacifica, secondo
cui in materia di fine vita la libera scelta
dell’individuo debba essere sovrana (Cap. 1), per poi
discutere il c.d. “diritto di morire” (Cap. 4) passando
per la distinzione tra “uccidere e lasciar morire” (Cap.
2) e per quella tra il rifiuto dell’accanimento
terapeutico e l’eutanasia omissiva (Cap. 3). Vengono
inoltre proposte alcune riflessioni sul senso del morire
nell’odierno contesto culturale (Cap. 5) e sulle
implicazioni antropologiche e sociali
dell’amministrazione medica della morte (Cap. 6).
Infine, in dialogo critico con tesi rese note
soprattutto da Hans Küng, si discute a livello
filosofico-teologico l’alternativa tra disponibilità e
indisponibilità della vita a partire dalle categorie del
dono e della responsabilità (Cap. 7).
Pessina avvia la sua indagine denunciando come equivoca e
vaga l’espressione
aiutare a morire,
con cui spesso si intende l’azione del medico che pratica
l’eutanasia. Quando l’aiuto consiste nel causare
intenzionalmente la morte del paziente, in effetti,
sarebbe più onesto – come fanno anche alcuni studiosi
favorevoli all’eutanasia – riconoscere che il medico sta
uccidendo
(p. 12). Per “eutanasia”, pertanto, si deve intendere
«l’atto con il quale si provoca direttamente e
volontariamente il decesso di una persona affetta da
malattia o disabilità gravi» (p. 27). Un “atto” simile è
anche la decisione di non intervenire lasciando morire un
paziente che potrebbe ancora trarre beneficio da una
qualche terapia o trattamento. In questo caso si
tratterebbe di eutanasia in forma di
abbandono terapeutico,
e cioè di omissione di trattamenti e supporti vitali
ancora adeguati alla situazione clinica del paziente.
Pessina preferisce non parlare, al riguardo, di “eutanasia
passiva”, perché con quest’espressione spesso si fa
riferimento al
rifiuto dell’accanimento terapeutico,
ovvero di «tutti quei trattamenti che risultano
sproporzionati alla situazione clinica del paziente, che
di fatto causano più danni che benefici alla persona
trattata e che non riescono né a stabilizzarne né a
migliorarne la condizione generale» (ibidem).
Quest’ultima fattispecie non è inquadrabile come una forma
di eutanasia, nemmeno passiva, perché manca la volontà di
provocare la morte. Una morte che, pur
conseguendo
all’astensione medica, sopraggiunge
a causa
della malattia e non di un’azione umana. Quando questa
morte è invece rinviata a ogni costo sarebbe meglio
evitare l’espressione “accanimento terapeutico”
sostituendola con quella di «accanimento
clinico».
E in effetti un trattamento
terapeutico,
se è veramente tale, non può in alcun modo configurarsi
come una forma di “accanimento” (p. 28).
Ora,
però, il fatto che sia nell’eutanasia vera e propria, sia
nel rifiuto dell’accanimento clinico, la conseguenza sia
la morte del paziente, ha indotto alcuni studiosi
utilitaristi e liberali a considerare moralmente
equivalenti l’“uccidere” e il “lasciar morire”, e cioè
l’atto del causare la morte dalla sospensione di
trattamenti sproporzionati da cui consegue la morte. Ma
questa equivalenza, diventata «un vero e proprio cavallo
di battaglia dei sostenitori dell’eutanasia» (p. 31),
presuppone, come nota Pessina, che la morte dipenda
sempre
e
solo
dalle nostre decisioni e che non esista, dunque, qualcosa
come una morte naturale o la stessa finitezza umana. In
realtà, la sospensione di un trattamento che prolunga «un
processo agonico già iniziato», lungi dal poter essere
equiparata all’eutanasia, è «una doverosa accettazione
della condizione mortale dell’uomo» e non va confusa con
l’omissione di soccorso (p. 36). Che anche qui, come nel
caso dell’abbandono terapeutico o dell’iniezione letale,
l’esito sia pur sempre la morte,
non significa che stiamo
uccidendo.
Una morte evitabile solo al prezzo di prolungare l’agonia
del morente, infatti, non è una morte
procurata
ma una morte
accettata.
E questo, tiene a precisare Pessina, non significa
rassegnazione. Quando «non
c’è più niente da fare»,
infatti, «c’è in realtà ancora molto da fare», perché
l’assistenza al morente richiede che non vengano
interrotti trattamenti, come le cure palliative, che
sollevano dal dolore e dalla sofferenza anche se non
restiuiscono la salute (p. 39).
Le
suddette precisazioni consentono di affrontare il
complesso tema del diritto di rifiutare i trattamenti
(Cap. 3). Pessina ricorda come questo diritto non sia
incondizionato. Lo dimostrano i casi delle vaccinazioni
obbligatorie o di pazienti come i neonati, i bambini e gli
anziani incapaci di intendere e di volere, che vengono
trattati anche in mancanza di un consenso informato (pp.
42-43). Se nessuno considera questi trattamenti sanitari
una forma di violenza, ciò accade perché si presuppone che
esistano dei «criteri di natura oggettiva» al servizio
della salute e della solidarietà: «la salute, infatti, non
è una cosa,
ma uno dei possibili modi di essere dell’esistenza umana:
preoccuparsi della salute altrui significa, anche,
preoccuparsi dell’altro» (p. 42). Chiarito ciò, Pessina fa
notare come il diritto di rifiutare i trattamenti può
essere equiparato all’eutanasia, e dunque a una richiesta
volontaria di morte, solo a condizione di fare della
libertà di scelta l’unico
fondamento di legittimità di tale rifiuto. Ma così non è,
come dimostra il fatto che anche i più radicali
sostenitori della “buona morte” la ritengono lecita non
per il semplice fatto che il soggetto la richiede
liberamente, ma perché egli la richiede in «situazioni
giudicate estreme
o straordinarie»
(p. 47), quali possono essere quelle di una grave
patologia, magari nella sua fase terminale. Questa,
secondo Pessina, è «un’ammissione importante», «perché
sposta il centro dell’argomento dalla
volontà
alla situazione:
in altri termini, la volontà sarebbe condizione
necessaria,
ma non sufficiente,
per legittimare la scelta del paziente» (pp. 48-49). A
rendere anche sufficiente questa condizione necessaria
saranno dunque le
ragioni
dell’eventuale rifiuto del trattamento, che possono andare
dalla rassegnazione rinunciataria al sacrificio, come
quando si decide di non sottrarre più risorse, per es.
economiche, alla propria famiglia in gravi difficoltà.
Queste ragioni, aggiunge Pessina, non sono moralmente
indifferenti. C’è differenza, infatti, «tra sapere di
dover morire e
rassegnarsi
a morire o chiedere di morire perché la qualità della vita
non risponde più alle proprie esigenze, alle proprie
aspettative (o alle aspettative che altri hanno su di
noi)» (p. 54).
Subordinare la libertà di scelta a una gerarchia di valori
non significa però, come spesso invece si tende a credere,
imporre una qualche forma di paternalismo bioetico o di
costrizione a vivere. Quando una persona decide,
liberamente e consapevolmente, di rifiutare un trattamento
salvavita, non resta altra possibilità, «una volta
esercitata ogni legittima forma di pressione persuasiva,
se non quella di accettare tale decisione» (p. 57). È in
nome della stessa dignità della persona, infatti, che si
dovranno rispettarne le decisioni «che la riguardano
direttamente, anche qualora venissero considerate
moralmente sbagliate». Dal lato del paziente, del resto,
il rifiuto dei trattamenti non può «essere considerato in
senso proprio come un suicidio», ma come «una forma di
rassegnazione, visto che la morte sarebbe provocata dalla
patologia in corso e non dal soggetto stesso» (ibidem).
Questo diritto a non subire imposizioni sanitarie non è
però un diritto di morire, come se la rassegnazione al
decorso di una malattia ad esito infausto fosse
equivalente al suicidio medicalmente assistito. Quando si
parla di un diritto
individuale
di morire, infatti, spesso si dimentica che «affermare un
diritto significa sempre avanzare una richiesta, una
pretesa verso altri»
(p. 62). Un diritto alle cure, per es., implica un dovere
di assistenza da parte della classe medica. E questo
dovere è oggettivo perché oggettivo è il bene della
salute, come dimostrano i casi prima citati delle cure
somministrate a soggetti incapaci di intendere e di
volere. Ma se è così, allora tutti coloro che, come Max
Charlesworth, tendono a identificare la
buona morte
con la morte scelta,
dovranno spiegare come sia possibile «istituire doveri
oggettivi nei confronti di scelte che si qualificano come
puramente soggettive» (p. 56). Se infatti c’è un diritto
di morire ci sarà anche il dovere, da parte di qualcun
altro, di uccidere. Ma così il pluralismo liberale
distrugge se stesso, visto che nessuno potrebbe fare
obiezione di coscienza di fronte al dovere di uccidere
così come nessuno può farla di fronte al dovere di
assistere i propri pazienti.
In
realtà, secondo Pessina, il vero dovere del medico non è
di farsi mero esecutore della volontà del paziente, ma è
quello «di proteggere il suo stesso paziente nei confronti
di derive psicologiche dettate da depressione, stati
d’ansia, senso di abbandono» (p. 99). Promuovere
l’amministrazione della morte, invece, «finisce di fatto
con l’avallare il giudizio che il paziente dà di se
stesso, e cioè di essere di troppo, di peso, di non avere
più quella dignità che, se fosse riconosciuta socialmente,
comporterebbe il rifiuto di acconsentire alla sua
richiesta» (ibidem).
Con la sgradevole conseguenza che l’accettazione
dell’eutanasia fungerebbe «da concausa alla richiesta di
eutanasia», creando «le condizioni culturali e sociali che
avallano la percezione di sottostima che il soggetto ha di
sé» e introducendo nella società l’idea «che
alcuni esseri umani
fanno bene a considerare la loro vita indegna» (p. 100). A
questo proposito Pessina si domanda quale significato si
debba attribuire all’espressione
vita degna di essere o no
vissuta.
In certe situazioni di sofferenza e di grave malattia, si
dice, la vita non è più degna di essere vissuta. Questa
formula, apparentemente convincente, nasconde però un’idea
inconfessabile: dire che ci sono situazioni in cui la vita
di una persona non vale più la pena di essere vissuta
significa dire che ci sono situazioni in cui
è meglio che quella
persona non esista più.
La vita di una persona, infatti, non è qualcosa che la
persona possiede, ma è la stessa persona. La vita di Tizio
è Tizio stesso. Certo, una vita da schiavi, di povertà e
di miseria non è
degna
dell’uomo. Ma in questo caso sono le
condizioni
di vita a non essere degne dell’uomo e non la sua stessa
vita
(pp.
100-101). Del resto, solo se un uomo continua ad avere la
sua dignità noi possiamo dire che ci sono condizioni che
per lui non sono degne, che non sono cioè
conformi
alla sua dignità. La dignità di un uomo è dunque
ontologicamente
intangibile, nel senso che non può essergli tolta
dall’esterno o da ciò che gli accade. Un uomo può perdere
la sua dignità solo
moralmente,
per es. quando non rispetta la dignità dell’altro: così
facendo, infatti, egli non toglie all’altro la sua dignità
ma perde la propria.
Al
termine della sua indagine Pessina conclude con una
riflessione su un’altra espressione abusata, e cioè quella
secondo cui la vita
è indisponibile perché è un dono di Dio.
Espressione che rischia di essere continuamente fraintesa,
a causa del contesto secolarizzato e «poco avvezzo al
linguaggio della fede vissuta» in cui viene a volte
imprudentemente lanciata. Espressione che, inoltre, appare
logicamente ambigua, se la vita della persona non è
qualcosa che la persona riceve come un dono ma l’esserci
stesso
della persona: «chi riceve il dono della vita non
pre-esiste alla vita stessa e la vita non è qualcosa che
si aggiunge all’uomo» (p. 106). Affermare l’indisponibilità
della vita, in fondo, significa affermare questa
inseparabilità di colui che vive dalla propria vita.
Giustificare l’eutanasia invocando la disponibilità della
vita significa al contrario dimenticare che «posso
disporre soltanto di ciò che non sono io e [che] posso
farlo soltanto perché l’io che dispone di sé non è tolto»
(p. 107).
Questa
indisponibilità, che potremmo definire trascendentale,
rimanda a una relazione di trascendenza. Gli stessi
difensori dell’eutanasia, nella misura in cui affermano
che c’è qualcosa di più importante che vivere, finiscono
per riconoscere una qualche forma di trascendenza. Nella
fede biblica questa trascendenza è espressione di un Dio
rispetto al quale l’indisponibilità della vita non è altro
che la dignità, preziosa, di colui che vive, che esiste
come creatura solo nella misura in cui è continuamente
amato. Al di là di ogni retorica del dolore, spesso a
torto, qualche volta a ragione, rimproverata alla
prospettiva cristiana, Pessina chiarisce: «Non si è amati
da Dio perché
si è malati, perché
si è sofferenti o esistenzialmente affaticati, ma si è
amati da Dio perché
si è»
(p. 109). Rimanere in vita nonostante tutto, così suona il
messaggio finale di Pessina, significa non soltanto
affidarsi a questo mistero, ma anche tenere aperta
«l’inquieta ricerca sul perché della morte» (p. 116), che
risulterebbe invece soffocata dalla produzione tecnica del
decesso.
Su
quest’ultimo punto forse sarebbe stato utile, in dialogo
con Hans Küng, sviluppare ulteriormente il discorso su un
piano fenomenologico-religioso oltre che
metafisico-teologico. In effetti si potrebbe obiettare,
come fa Küng, che mantenere in vita un uomo che soffre è,
da parte del Creatore, non un dono ma una crudele
imposizione. Così, di fronte alla sofferenza, sorge
tragicamente la domanda sul “perché”, sempre sospesa tra
la supplica e la bestemmia. E bisogna riconoscere che la
fede, contrariamente a quanto spesso si crede, non ha
risposte facili a questa domanda. Gli amici di Giobbe, in
fondo, dimostrano come i limiti di tutti i discorsi su
eutanasia, sofferenza e dignità della morte dipendano dal
fatto che si tratta
di discorsi fatti da gente in buona salute,
che mentre parla non sta soffrendo né si trova in
prossimità della morte. Perciò le parole degli altri,
soprattutto quelle che indicano una possibile via di
uscita alla disperazione del malato, suonano vuote, fredde
e distaccate, quasi beffarde, come se chi non soffre non
fosse capace di prendere sul serio chi soffre. Chi parla
della sofferenza altrui, inoltre, è proprio così sicuro di
poterne parlare allo stesso modo quando sarà lui stesso a
soffrire? Il dolore e la sofferenza, insomma, sembrano
destinati per definizione a essere sottovalutati, almeno
fino a quando non sono provati in prima persona. Ma quando
sono provati in prima persona, purtroppo, non si è più
nella condizione di chi può aiutare ma in quella di chi
deve essere a sua volta aiutato. A meno che non vi sia
qualcuno che, avendo sofferto può
comprendere
il nostro soffrire e che, essendo guarito, può aiutarci a
guarire.
Ed è proprio il Risorto, a cui Pessina infine accenna, che
sembra incarnare pienamente questa figura del “guaritore
ferito”, lasciando intravedere, nell’abisso della prova,
la speranza di un suo definitivo superamento.
Luciano Sesta |
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