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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 7 - Settembre 2008 
     
 

Il problema dell’empatia nella relazione di cura

                                                                  

di Giusi Venuti*

 

 

 

Se, riecheggiando Hegel, la filosofia si qualifica come “il proprio tempo appreso con il pensiero”, non deve allora apparire affatto strano che un non-medico si interroghi su quella crisi che da decenni stringe in una morsa il sapere e l’agire del medico nonostante il raddoppio delle aspettative di vita ed il miglioramento dello stato di salute della popolazione generale. [1]

Allora perché un disagio si insinua come un tarlo, perché l’impressione che il pensare sia sempre fuori luogo? Se, da una parte, si potrebbe rispondere che è proprio il disagio del non sentirsi mai a casa propria a costituire l’anima della ricerca autentica, dall’altra non si può, tuttavia, nascondere che esso nasca dalla consapevolezza di non poter dire nulla di veramente nuovo in merito alla ormai vexata quaestio. Nel desiderio, totalmente umano, di apportare nuovi argomenti, quel disagio assume allora una veste talmente subdola da far affiorare, per qualche istante, nella mente dello studioso il pensiero che, data l’impossibilità di dire il nuovo, sia meglio non dire niente. 

Ma poi, a ben rifletterci, perché pretendere di dire qualcosa di nuovo?

Caratteristica del pensare non è, forse, quella di ritornare su vecchi problemi, non è, forse, quella di andare sempre all’origine nel tentativo di re-interpretare e di decodificare le cause, o la causa, di tale crisi?

Solo se accettiamo questa impostazione possiamo comprendere ciò che David Clouser, primo professore di bioetica, afferma nel momento in cui dice che gli eticisti non sono dei riformatori perchè il loro compito è quello di portare alla luce i conflitti sottesi ai principi etici.[2]

Bisogna, allora, procedere alla profanazione con la consapevolezza che al di là di ogni legittimazione che derivi da un sapere, da una professione o dalla natura interdisciplinare della bioetica, è necessario che ciascuno si assuma la responsabilità di tali interrogativi.

L’essere paziente infatti non è solo un’identità e un ruolo che transitoriamente indossiamo, ma è più a fondo una possibilità che appartiene alla dimensione costitutiva del nostro esserci, in quanto mortali e per ciò stesso vulnerabili[3]. É in questa nuova prospettiva che quel disagio, da subdolo ingannatore, si fa amico fidato, amico che sorveglia il nostro andare e che lo mantiene retto dinanzi alle troppo facili prese di posizione.

***

 

Perché, in questo preciso momento storico, la scienza medica appare più che mai incapace di rapportarsi al proprio oggetto di studio: il paziente?

É colpa dei medici che dovrebbero imparare a vedere in quell’oggetto qualcosa di più che un corpo da guarire, o è colpa dei pazienti che, eccessivamente - e spesso malamente - informati, pretendono di ridurre l’opera del medico a mera prestazione funzionale alle proprie esigenze?

Buona parte degli studiosi fa propendere la bilancia tutta da una parte: il malessere sarebbe, così, interamente imputabile alla scienza medica.

La, forse eccessiva, tecnicizzazione, i tempi sempre più ridotti, la burocrazia asfissiante, hanno sicuramente contribuito a minare questa delicata relazione nelle sue fondamenta, tanto dall’invitarci a pensare a nuovi paradigmi alla luce dei quali rimodulare la comunicazione interrotta. Ma oltre a queste cause, che definirei esterne, ritengo che il motivo di tale crisi risieda nell’intima  natura dello stare in relazione in quanto tale.

Come ogni altro essere umano, infatti, il medico è sempre posto all’incrocio tra autentico aver cura ed inautentico prendersi cura, a differenza di qualunque altro essere umano egli ha, però, in questa situazione un potere innegabile perché strutturale, egli si trova di fronte ad una persona che, contestualmente, è priva di potere. Nella seduzione che viene dalla manipolabilità della vulnerabilità, il paziente corre allora il serio rischio di essere ridotto ad oggetto.

Come uscire dall’impasse?

Come considerare l’altro nella sua alterità, come ri-conoscerlo realmente come soggetto e non come mero oggetto? Come rispettarlo?

Credo che sia il caso di andare oltre le indagini fenomenologiche di stampo husserliano intorno al tema del corpo-proprio perché ho l’impressione che esse non costituiscano altro che un’aggiunta filosofica al problema in questione.

Io non credo infatti che la situazione di crisi in cui, da sempre, medico e paziente si trovano possa essere davvero risolta semplicemente ammaestrando i medici sullo specifico del loro oggetto di studio e auspicando il passaggio dal modello biomeccanico a quello biopscicosociale. Non credo che l’inserimento, nel corso di studi di medicina, delle medical humanities in quanto tali possa, davvero, dare un’altra impronta al sapere e all’agire del medico.

Le più recenti indagini si muovono, invece, in tal senso.

Quello che ci dicono è che la scienza medica deve finalmente imparare a parlare non di corpo, ma di corporeità e che i medici devono abbandonare il paternalismo, perché irrispettoso ed auto-centrato, abbandonare il concetto di autonomia del paziente perché indifferente ai bisogni reali, per assumere un atteggiamento empatico[4], l’unico che, centrando l’attenzione sul vulnerabile, getta un ponte tra il mondo del medico e quello del paziente. Ancora di più, sembra che proprio l’empatia debba essere pensata come il fondamento del modello di medicina biopsicosociale[5].

In questo senso l’empatia viene definita come l’atto del comprendere, dell’essere consapevole dei sentimenti, delle esperienze, dei pensieri dell’altro.[6]

Ora, quello che mi lascia perplessa è che la maggior parte di questi studiosi usa indistintamente i termini: empatia, simpatia e compassione come se avessero tutti lo stesso significato, quale quello di attenzione, immedesimazione e compartecipazione con le sofferenze dell’altro.[7]

D’altra parte «questa» empatia viene presentata come un nuovo paradigma, in cui scienza ed umanismo interagiscono, da seguire e da sostituire a quelli inadeguati ed insoddisfacenti del passato, come se la comprensione empatica, o la compassione, fosse veramente la panacea di tutti i mali, primo fra tutti la crisi in cui versa la medicina odierna.

In questo senso non è raro trovare degli schemi, come quello che sto per illustrare, che hanno lo scopo di esemplificare, anche troppo a mio avviso, la situazione che sto trattando.

 

Casella di testo: biopsychosocial model
↑
utilization of all the data
↑
scientific medicine
↑
ideal medical care
↑
compassion
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

I medici, fortemente convinti della veridicità dello schema sopraindicato, addestrano i giovani studenti all’empatia attraverso i giochi di ruolo. Durante le lezioni, vengono, infatti, invitati ad indossare i panni del paziente, in modo che possano rendersi conto di cosa voglia dire stare dall’altra parte.

L’empatia viene allora presentata come la caratteristica essenziale del medico che voglia dirsi virtuoso, del medico che voglia cioè agire onestamente secondo i precetti di Ippocrate e che non è neanche sfiorato dall’idea di servirsi in modo inappropriato del proprio potere.

Per essere un buon medico bisogna dunque afferrare (grasp) e comprendere[8] l’esperienza dell’altro come se fosse la propria.[9]

In questi termini l’empatia viene definita come un coinvolgimento soggettivo che ha lo scopo di entrare nel mondo dell’altro e di condividerne le sofferenze.[10]

Entrare nel mondo dell’altro e comprendere l’incidenza che la malattia ha sul corpo e sul mondo del paziente significa, secondo buona parte degli studiosi di Medical Humanities, diventare abili nell’utilizzare tutti i dati della narrazione al fine non solo di una corretta diagnosi, ma anche della liberazione della medicina dal riduzionismo metodologico.[11]

L’empatia sembra così divenire una tecnica, chi la utilizza obbedisce ai precetti di Ippocrate e si guadagna la benevolenza del paziente.[12]

Il metodo oggettivo, ed oggettivizzante, secondo cui i pazienti non vanno “ascoltati”, ma “auscultati”, viene ora messo da parte a favore del metodo basato sull’intervista medica.[13]

L’empatia, quale canone dell’intervista, assume la veste di guida. Addestrarsi all’empatia significa allora diventare abili nell’ottenere dei dati umani in modo più sistematico.

Quindi, intendendo il dialogo come tecnica, l’intervista trasforma la relazione in strumento e mezzo per interagire e scambiare informazioni con il paziente.

Il medico indossa la veste dell’empatia per ottenere un determinato risultato. Che ne è dell’incontro clinico? Che ne è della domanda di aiuto? Se ciò a cui assistiamo non è altro che una nuova riduzione rivestita di empatia, che ne è dell’approccio fenomenologico?

Nonostante l’elemento interattivo, l’intervista è, infatti, quanto di meno dialettico esista, nel senso che il suo scopo principale è raccogliere informazioni, fornire dati per la diagnosi, fornire informazioni per la cura e la prevenzione, cioè conoscere l’altro come unilateralità.

Anche quando l’intervista è concepita come approccio integrato, anche quando il medico adotta un atteggiamento empatico, comprensivo, attento, il suo scopo è far emergere dati rilevanti sulla persona e sui sintomi del paziente. Il protagonista dell’incontro è sempre e solo lui, perché è lui che fa le domande e le fa in modo pregiudizievole, orientando ed indicando la risposta del paziente.

Ma che succede se alla domanda il medico non ottiene la risposta attesa? L’intervista fallisce, il malato viene catalogato come strano e la possibilità di un reale incontro clinico viene negata sul nascere.

Non solo la distinzione tra i due approcci non è decisiva, ma se, incautamente,  il medico si decide per l’uno piuttosto che per l’altro, continuando a ragionare per dicotomie e contrapposizioni, incorre in una serie di situazioni critiche: o, come abbiamo già visto, identifica i sintomi, ma non incontra il paziente, o non riesce ad identificare i sintomi perché le risposte lo depistano, o identifica i sintomi ma rischia che nell’incontro, a causa di una eccessiva com-partecipazione, si comprometta l’oggettività, che pure resta prerogativa della scienza medica.[14]

Le perplessità cui mi riferivo non appartengono, dunque, solo ad una mia riflessione, ma sorgono all’interno di tali prospettive.

Non sono pochi gli studiosi che, dopo aver descritto le caratteristiche positive dell’atteggiamento empatico, concludono avanzando lo stesso dubbio: e se questo tipo di empatia non fosse davvero la soluzione? Se la mancata distinzione tra empatia, compassione e simpatia non facesse altro che confondere i giovani medici? [15]

Se il ponte, che con l’atteggiamento empatico si vuole gettare, non costituisse altro che una via di fuga dinanzi ad una situazione che, in qualunque modo la si affronti, sembra sfuggire di mano? Se l’identificazione con i propri pazienti nocesse, anziché fare bene al rapporto? [16]

L’identificazione non pare infatti produrre quell’apertura che abbiamo detto essere caratteristica del domandare autentico, ma al contrario provoca una chiusura, una con-centrazione su se stessi ed un inglobamento dell’altro; in questa chiusura rimane inascoltata, perché incompresa nella sua datità, proprio quella domanda di aiuto che sancisce il primum dell’atto medico. Probabilmente si sta allora commettendo di nuovo l’errore che, paradossalmente, l’approccio integrato voleva superare: si sta continuando a pensare la relazione per centrature e si sta sancendo una netta distinzione tra «dato naturale» e «dato personale» che in clinica non avrebbe ragione di esistere.

Anche se l’intervista centrata sul paziente è stata sviluppata per completare l’intervista centrata sul medico, è, tuttavia, sconsigliabile usarla separatamente senza integrarla. Il problema, quindi, non è quale dei due approcci sia migliore perchè c’è bisogno di ambedue.[17]

A ben guardare l’intervista testimonia proprio la difficoltà che il medico incontra nel momento in cui si rende conto che il metodo oggettivo, ed il modello biomeccanico che ne consegue, non è sufficiente, ma non ha la capacità di gestire in modo personale la relazione e così si illude che una buona tecnica della comunicazione, basata sull’empatia, lo possa trarre fuori dall’impaccio. In realtà tutto si rivela vano perché, al di là di una immediata impressione che si profila come soddisfacente, sia medico che paziente avvertono l’artificiosità della situazione e, anziché incontrarsi, si distanziano ulteriormente.

Ma dove e come trovare il trait d’union tra medico e paziente? Come stare tra oggettività e compartecipazione?

La strada per una reale integrazione deve passare, in via preliminare, attraverso una chiarificazione terminologica dei termini: empatia, simpatia e compassione e, parallelamente, attraverso la crucialità dell’incontro clinico.

Perché definisco cruciale l’incontro clinico? Per il fatto che mette faccia a faccia, non uno, ma due esseri umani che, a partire da una estraneità irriducibile, lottano per il reciproco riconoscimento: il medico vuole essere riconosciuto come tale ed esercita il suo potere, la scienza e l’arte; il malato vuole essere riconosciuto nel suo bisogno e, nel momento in cui si reca dal medico, ha la facoltà di decidere se fare della propria vulnerabilità uno strumento di potere (dare fiducia o no, raccontare tutto o nascondere) o di riconoscimento: accettare l’altro e accettare la distanza che lo separa dall’altro.

E allora, vista l’ambiguità, che significa provare empatia? Davvero quando ci sentiamo empatici pensiamo di essere noi stessi l’essere che soffre, mettendoci al suo posto? Davvero immaginiamo le nostre reazioni fuse, in qualche misteriosa maniera con quelle di chi soffre?

Gli stessi studiosi che avanzano queste teorie non mancano di avanzare, contemporaneamente, dei dubbi in merito alla possibilità autentica di assumere in prima persona l’esperienza di chi ci sta accanto. È così che, lungi dal risolversi, il problema dell’empatia si complica ulteriormente.

L’esigenza di fare chiarezza, dimostrando come l’empatia abbia un che di oggettivo, di cui è invece mancante la simpatia, è alla base del lavoro di Robert Katz.

Lo studioso, dopo essersi chiesto se sia davvero possibile distinguere l’empatia dalla simpatia,[18] giunge alla conclusione che, nonostante entrambi i termini si riferiscano a delle situazioni in cui i sentimenti risultano coinvolti, tuttavia l’empatia focalizza l’attenzione non sul soggetto senziente, ma sull’oggetto/soggetto sentito e, quindi, ha un che di oggettivo.

Quando empatizziamo, scrive Katz, focalizziamo, infatti, la nostra attenzione sui sentimenti e sulla situazione di un’altra persona, mentre quando simpatizziamo stabiliamo un parallelismo tra i nostri sentimenti e quelli dell’altro così che non siamo per nulla concentrati sulla realtà oggettiva e sul carattere personale della situazione dell’altro. In questo caso l’analogia prende il posto dell’attenzione e la comprensione dell’altro, perdendo di oggettività, risulta compromessa.[19]

L’empatia, come la simpatia, consiste di sentimenti e implica un coinvolgimento emotivo, ma a differenza della simpatia non stabilisce quella similitudine che, generalmente, porta a chiedersi: che farei io se mi trovassi al suo posto?

Fino a questo punto il discorso di Katz potrebbe anche funzionare: definendo infatti la simpatia come quel movimento reattivo che fa tornare sul soggetto stesso che la prova la preoccupazione che in realtà dovrebbe esser rivolta all’altro soggetto, lo studioso stabilisce come sia l’empatia, intesa appunto come attenzione, la base sulla quale costruire autentiche relazioni di aiuto. Nel momento in cui deve, però, dare una definizione chiara, da una parte scrive che quando empatizziamo non possiamo mai interamente fuggire le nostre necessità - facendoci, quindi, pensare ad una impossibilità di divenire uno con l’altro, annullando la distanza e la diversità dei vissuti, dall’altra, sostiene che durante l’atto empatico perdiamo completamente la consapevolezza di noi stessi per annullarci, temporaneamente, nell’oggetto/soggetto che ci sta di fronte.[20]

La continua contraddizione non fa altro che disorientarci rendendoci impossibile capire in che modo funzioni quest’empatia. Ci viene detto che consiste di attenzione. Ora ad-tensione significa, etimologicamente, tendere verso, aprirsi ad un significato.

Allora, come conciliare questo atto originariamente accogliente, con quello che poi viene detto dell’empatia, che cioè consista in un entrare nella mente e nel vissuto altrui perdendo sé stessi? Viene ribadito come questa perdita sia solo un fatto temporaneo il cui fine sia quello di andare dentro per tirare fuori le esperienze altrui. Ma, il punto è: che significa andare dentro? Come ci si può annullare per poi riprendersi? Come posso pensare di vivere con distacco l’immersione nell’esperienza dell’altro? Immergersi, utilizzando appieno la metafora, significa, necessariamente, bagnarsi.

Eppure, a parte gli studiosi che ho citato, sono in molti a ritenere che le cose stiano così.

Carl Rogers, lo psicoterapista che ha fatto scuola in merito alle riflessioni sul tema dell’empatia, mette l’empathic understanding al centro dell'interesse clinico, considerandola una delle tre condizioni necessarie e sufficienti per il cambiamento psicologico. In questi termini l’empatia è pensata come la capacità di entrare nel mondo personale del cliente[21] in modo così intimo da poter capire non solo quello che egli prova coscientemente, ma anche ciò che si trova al di sotto della sua consapevolezza, e come la capacità del terapeuta di comunicare la sua comprensione dei sentimenti e dei pensieri del cliente, usando un linguaggio sintonizzato sul suo. [22]

Ma, io mi chiedo, come si può stabilire con il paziente un simile intimità, come ci si può sentire a casa con chi sta vivendo, a causa della malattia, un’esperienza di profondo sradicamento? Se la malattia, come abbiamo detto, trasforma non solo il corpo, ma anche il vissuto, se la malattia è ciò che, per il dis-agio che crea, toglie dal proprio luogo, di quale casa stiamo parlando?

Credo che i fraintendimenti e l’incapacità di stabilire cosa l’empatia sia - se un andare dentro, se una sorta di imitazione, se un coinvolgimento emotivo e via dicendo - dipendano, in buona parte dal fatto che la maggior parte degli studiosi fa riferimento a quella concezione dell’empatia che ci è stata tramandata da Lipps e che implica un movimento, direi invasivo, del soggetto nei confronti dell’oggetto, mentre sconosce l’uso che i fenomenologi[23] fanno del termine e che, a sua volta, rimanda al senso greco della parola.[24]

Nell’accezione moderna e contemporanea l’empatia, l’Ein-fühlung, indica un atto di partecipazione emotiva e d’immedesimante comprensione nei confronti di un altro soggetto umano.

Il sentire di cui Lipps parla non ha un’impronta materialistico-fisiologistica, ma deve essere pensato come una sorta di imitazione interiore dell’oggetto, un suo riviverlo interiormente, come è evidente nella percezione della semplice linea, in cui mi trovo a ripercorrere in un movimento interiore il movimento della linea stessa, per sintetizzarlo in unità. In questi termini tale atto è definibile come un moto psichico “da…verso”: dalla madre verso il figlio, dall’amante verso l’amato, da me, un me senza nome eppure incarnato, verso un altro Io altrettanto anonimo.

Talvolta questo moto unidirezionale in direzione dell’altro si converte in una simmetria di affetti: in un circolo simpatetico.

Giungiamo così ad un altro problema. Che cos’è la simpatia? Quale il suo rapporto con l’atto empatico?

La complessità delle argomentazioni è tale per cui non mi è possibile in questa sede approfondirle accuratamente, tuttavia ciò che ho notato è che le analisi di tutti gli studiosi non ci aiutano a capire come sia possibile partecipare emotivamente al dolore di un altro senza fondersi con lui.

È come se mancasse un passaggio essenziale. È come se si fosse assolutamente certi che ciò di cui l’altro ha bisogno sia una partecipazione fatta di compenetrazione. E se non fosse così?

Chi soffre in prima persona è solito ribadire che nessuno può capire il suo stato. A tal proposito così scrive Virginia Woolf:

 

Della compassione, per esempio, possiamo farne a meno. Quell’illusione di un mondo così formato da echeggiare ogni gemito, di esseri umani così legati da bisogni e paure comuni che, se tiri il polso di uno, trascini l’altro, dove, per quanto strane siano le tue esperienze, anche altri le hanno vissute, dove, per quanto lontano ti spingi nella tua mente, qualcun altro c’è stato prima di te - è tutta un’illusione. Non conosciamo la nostra anima, figuriamoci l’anima degli altri. Gli esseri umani non procedono mano nella mano per tutta la strada: C’è una foresta vergine in ognuno; un campo innevato dove anche l’impronta di un uccello è sconosciuta. Qui procediamo da soli. [25]

 

Forse ciò che non riusciamo a comprendere è che nella domanda di aiuto non sta la richiesta di una illusoria immedesimazione, ma l’accorato bisogno di un contatto, il desiderio di una vicinanza scandita dalla consapevolezza della incolmabile ed inaggirabile distanza.

Le indagini che Edith Stein ha dedicato alla fenomenologia dell’atto empatico possono forse aiutarci a fare un pò di chiarezza.

Ciò che innanzi tutto preme alla Stein è stabilire una netta differenza tra un essere umano ed un corpo fisico. L’altro che io mi trovo di fronte non è assimilabile ad una bella opera d’arte nella quale mi trasferisco e nella quale ritrovo una parte di me stesso. L’altro non corrisponde all’idea che io ho di lui,[26] non è una finzione della mente che prende corpo e che, fichtianamente, l’io decide di opporsi come un non-Io da superare, ma è un altro in carne ed ossa con un suo vissuto che mi si presenta immediatamente, irrompe in me, come una soggettività altra. Io ho coscienza di questa alterità, mi rendo cioè immediatamente conto, anche solo guardandolo negli occhi, che la sua presenza mette in questione la mia soggettività, la certezza che ho di me, e la positività “ingenua” del mondo nel quale sono rinchiuso.

L’io si pone dunque in rapporto all’altro.

L’altro, in quanto alter-ego, non è afferrabile con atti mentali, ma con stati emozionali, è un sentire permeato d’intenzionalità, che favorisce il trascendimento di me e si apre all’altro così che possa cogliere i suoi vissuti.

L’altro, di cui si coglie la differenza con l’io, è il diverso da me; c’è tra l’io e il tu solo una “condivisione” del suo dolore e del suo gioire, in altri termini del suo vivere; un legame, spiega la Stein, che non s’identifica mai, né può rendere sostituibile l’io al tu.

Per far comprendere meglio il paradosso che si verifica nell’atto empatico la Stein introduce la distinzione tra originarietà e non originarietà:

Nel momento in cui io mi rivolgo al dolore dell’altro non ritrovo qualcosa del mio dolore passato o semplicemente ricordato, non mi immedesimo nel senso che vado invasivamente dentro il suo vissuto per portarlo dentro i miei schemi concettuali, perché quel vissuto con il quale entro in contatto è originario ed ha un senso per chi lo prova nell’hic et nunc della propria realtà di vita, che è, e resta, anche se comunicata, comunque dell’altro e non mia. E, allora, perché la Stein dice che quel vissuto, pur se non originario per me, ha, anche per me, qualcosa di originario? È, per me, originario in quanto (come la percezione esterna) si presenta lì davanti a me ed è quindi qualcosa che, portandomi comunemente a dire “te lo leggo negli occhi”, io assimilo al vedere, ma non è originario in quanto al contenuto perché il dolore visto non è il mio, ma dell’altro. Viene così scardinata la logica occidentale secondo cui il vedere corrisponde al sapere.

In realtà empatia significa allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere la gioia o il dolore altrui, mantenendo la distinzione tra me e l’altro. Può accadere, spesso accade, che in un secondo tempo avvenga una partecipazione emotiva nella forma del gioire o del soffrire insieme, ma può avvenire solo se c’è stata empatia, se l’orizzonte della mia esperienza si è ampliato, se sono stato disposto ad uscire fuori dal mio luogo per incontrare l’altro in un luogo che non corrisponde alla sua casa - come vuole Rogers - (otterrei così un falso sapere perché, immedesimandomi, resterei sempre presso di me) ma che si profila come una terra che non è di nessuno: la terra della relazione.

Il vissuto empatico presenta sempre un certo grado di mediatezza, non è un atto in cui immediatamente cogliamo l’io estraneo e se così ci appare è una illusione.

L’empatia non va cercata percorrendo l’impossibile strada della fusione, l’empatia non è un idillio, ma è un dramma che scatta nel momento in cui due corpi e due vissuti assolutamente differenti escono dalla solitudine delle loro monadi mossi dal desiderio di incontrarsi e comunicare le loro esperienze. È proprio in questa uscita da sé che il rischio di confondersi con l’altro o di dominarlo come se fosse un oggetto diventa altissimo. L’empatia è rendersi conto dell’ineludibilità di questo rischio e sorvegliarlo, poiché è solo nel rischio che si dà autentica relazione.

Mettere in rilievo, contro molte concezioni dell’empatia come immedesimazione o immediata partecipazione emotiva, la separazione, anzi la discontinuità tra me e l’altra, l’altro, vuol dire una cosa molto importante: prima ancora della partecipazione, anzi per darle la sua piena verità, conta entrare in relazione. L’empatia ha tutta l’intensità del sentire, non è una forma di conoscenza intellettuale. Il suo valore cognitivo è il rendersi conto dell’essere in relazione, comprensione - questa - che significa viversi come non autosufficienti, come limitati e vulnerabili e, al tempo stesso, come aperti a qualcosa d’altro.

L’apertura cui la Stein si riferisce è una apertura intenzionale, non una disposizione del cuore.

Non è l’Io che, pensando, genera l’essere, ma è l’essere che, ontologicamente, precede e dà contenuto alla coscienza. La relazione è possibile in quanto esiste già qualcosa a cui legarci, non è strutturata e voluta dall’Io. Il passivo precede ontologicamente l’attivo.

In questa precedenza ontologica il concetto di vulnerabilità acquista il suo senso autentico. Un senso che, non riducibile a quello di fragilità o di precarietà, ci rievoca la struttura originaria della nostra ex-sistentia, del nostro essere qui ed ora in virtù di quell’eccedenza, di quell’esteriorità/estraneità che continuamente ci pro-voca e che raramente, riconoscendo, accogliamo.

Riconoscere la precedenza ontologica significa sospendere in se stessi il lavoro dell’immaginazione, accettare che gli altri con cui entriamo in contatto - visto che abitiamo un mondo comune - siano diversi dalle creature della nostra immaginazione. Con questa accettazione compiamo un movimento interiore opposto rispetto a quello che facciamo nel momento in cui ci immedesimiamo - movimento tanto invasivo quanto espropriante visto che toglie all’altro la possibilità di assumersi la propria cura - e che non consiste nello svuotarsi, ma nel fare posto de-centrandosi. Ritengo che la differenza sia essenziale: quando decido di fare posto, io non mi annullo, non mi svuoto per farmi riempire dall’altro, ma mi contraggo restando al mio posto.

A questo punto l’empatia assume una rilevanza etica. Come intendere infatti questo decentramento se non come disponibilità, e come intendere questa disponibilità se non come la piena responsabilità verso l’altro? E responsabilità non è, forse, autentico aver cura?

L’empatia modifica radicalmente la struttura della coscienza perché apre alla relazione con altro. Condividere le emozioni, comprendersi reciprocamente può essere un’affermazione retorica o un’illusione se non ha alla base la trasformazione della propria esperienza prodotta dal tener conto della persona dell’altro. L’empatia invita a scoprire quanto di solo apparentemente ovvio e spontaneo c’è in questo “tener conto della persona dell’altro”. Se non si riduce ad una funzione cerebrale l’empatia implica infatti una riorganizzazione di tutte le azioni della nostra vita. Per “capire” che cosa prova l’altro dobbiamo effettuare spostamenti, variazioni di prospettiva e di programmi per recarci lì dove l’altro è.

Senza la mediazione dell’esperienza vissuta, senza il fastidio o l’insofferenza che, talvolta, questo confronto inevitabilmente porta con sé, queste affermazioni non significano nulla.

L’empatia non è allora riducibile ad una competenza tra le altre, non è una tecnica della comunicazione che funge da captatio benevolentiae, ma è l’essere a disposizione, il farsi capaci dell’altro uomo, è quell’a-priori sul quale si fonda la possibilità stessa di cura.

Il sofferente chiede qualcosa, ma non conosce perfettamente ciò di cui ha bisogno. Non si tratta semplicemente di ignoranza sul piano scientifico o di imperizia tecnica. È tutto il suo mondo precedente che è stato messo in scacco dall’evento patologico. Egli abita un mondo nuovo. Ed è lì che ci chiede di andare.

 


 


* Dottore di ricerca in Scienze Cognitive – Università di Messina

 

[1] J.A. MARCUM, Biomechanical and phenomenological models of the body, the meaning of illness and quality of care, in «Medicine, Health Care and Philosophy», vol. 7, No. 3, 2004, p. 311.

[2] Cfr. A. JONSEN, The Birth of Bioethics, Oxford University Press, New York, 1998, p. 328.

[3] Cfr. AA.VV. Il paziente, il medico e l’arte della cura, a cura di M. GENSABELLA, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006.

[4] Comunemente inteso come coinvolgimento emotivo, come compenetrazione nei bisogni dell’altro.

[5] I. SWITANKOWSKY, Empathy as a Foundation for the Biopsychosocial model of Medicine, in «Humane Healthcare», vol. 3 No. 2e.

[6] Ivi.

[7] Cfr. S. CARMEL e S.M. GLICK, Compassionate-Empathic Physicians: personality traits and social-organizational factors that enhance or inhibit this behaviour pattern, «Soc. Sci. Med.» Vol. 43 No. 8, 1996, p. 1253.

[8] Nel senso etimologico di compre-hendere, prendere dentro di sé, includere.

[9] R.L. KATZ, Empathy. Its nature and use, The Free Press of Glencoe collier-Macmillan Limited, London, 1963, p. 26.

[10] E.D. PELLEGRINO, D.C. THOMASMA, The virtues  in medical practice, Oxford University Press, New York Oxford, 1993, p. 78.

[11] Z.E. NEUWIRTH, Physician-empathy-should we care? The Lancet, vol. 350, No. 9078, Saturday 30 August 1997, p. 606.

[12] C.E. RUDEBECK, Grasping the existential anatomy, in Handbook of Phenomenology and Medicine,  ed. by S. Kay Toombs, Kluwer Academy Publischers, Drodrect/Boston/London, Vol. 68, 2001, p. 311.

[13] Cfr. R.C. SMITH, La storia del paziente: un approccio integrato all’intervista medica, Il pensiero scientifico editore, Roma, 1997.

[14] E.D. PELLEGRINO, D.C. THOMASMA, The virtues  in medical practice, cit., p. 78.

[15] K.A. EDWARDS, Critiquing Empathy. Insights for Professional Education, «Second Opinion», No. 4, December 2000, p. 35.

[16] C.E. RUDEBECK Grasping the existential anatomy, cit., p. 314.

[17] Cfr. R.C. SMITH, La storia del paziente, cit.

[18]Cfr. R.L. KATZ, Empathy its nature and uses, The Free Press of Glencoe, Collier-Macmillan Limited, London, 1963, p. 8.

[19] R.L. KATZ, Empathy its nature and uses, cit., p. 8.

[20] Ibidem, p. 9.

[21] È così che Rogers chiama il paziente.

[22] C.R. ROGERS, A Way of Being, Houghton Mifflin, Boston 1980, pp. 142-143.

[23] In particolare mi riferisco, come si vedrà più avanti, a Scheler, Husserl ed Stein.

[24] Εμπάθεια significa infatti essere esposto, essere soggetto a ... Un movimento, dunque, opposto rispetto a quello di cui abbiamo sino adesso trattato. Si tratta di un movimento dall’esterno dell’anima verso il suo interno. L’altro che irrompe è altro rispetto all’anima; è un altro non psichico al cui contatto l’anima viene alterata.

[25] V. WOOLF, Sulla malattia, trad. it. N. Gardini, Bollati Boringhieri, Milano, 2006, p. 12.

[26] “L’empatia non è una ideazione, dato che si tratta di cogliere ciò che esiste «hic et nunc». E. Stein, Il Problema dell’Empatia, cit., p. 73.

 
     
     
     
 
 
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