Ricade sotto il precetto il
modo virtuoso di adempierlo?
Circa il nono punto procediamo così. Sembra che
ricada sotto il precetto il modo virtuoso di adempierlo.
Si ha infatti un modo virtuoso di agire quando uno compie
giustamente cose giuste, e con forza quelle forti, e
similmente avviene per altre virtù. Ma il Deuteronomio
comanda (16, 20): «Compirai con giustizia quanto è
giusto». Dunque, ricade sotto il precetto il modo virtuoso
di adempierlo.
2. Inoltre, la cosa
che più ricade sotto il precetto è quella che costituisce
l’intenzione del legislatore. Ma l’intenzione del
legislatore è principalmente quella di rendere gli uomini
virtuosi, come dice il Filosofo nel secondo libro dell’Etica
Nicomachea (c. 1). D’altra parte, è proprio dei
virtuosi agire virtuosamente. Dunque, ricade sotto il
precetto il modo virtuoso di adempierlo.
3. Inoltre, il modo
virtuoso di un atto sembra consistere propriamente nel
compierlo volontariamente e con piacere. Ora, questo
ricade sotto il precetto della legge divina; dice infatti
il Salmo 99 (2): «Servite il Signore in letizia» e
dice la Seconda Lettera ai Corinti (9, 7): «Non con
tristezza, né per forza, poiché il Signore ama chi dona
con gioia». E la Glossa aggiunge: «Tutto ciò che
fai di bene, fallo con gioia, e allora lo compirai bene;
se invece lo farai con tristezza, esso viene da te, ma non
sei tu che lo fai». Dunque, ricade sotto il precetto
della legge il modo virtuoso di adempierlo.
Ma di contro vi è il fatto che nessuno può operare
al modo in cui opera l’uomo virtuoso, se non possiede
l’abito della virtù, come emerge da quello che il Filsofo
dice nel secondo (c. 5) e nel quinto libro (c. 8) dell’Etica
Nicomachea. D’altra parte, chi trasgredisce un
precetto, merita una pena. Ne segue, dunque, che chi non
ha l’abito della virtù, qualunque cosa faccia, merita una
pena. Ma questo è contro l’intenzione della legge, che
intende indurre alla virtù l’uomo, abituandolo alle opere
buone. Dunque, non ricade sotto il precetto il modo
virtuoso di adempierlo.
Rispondo dicendo che, come sopra è stato detto
(q. 90, a. 3), il precetto della legge ha forza coattiva.
Perciò, ricade direttamente sotto il precetto della
legge, ciò a cui la legge costringe. Ora, la coazione
della legge avviene attraverso il timore dele pene,
come si dice nel decimo libro dell’Etica Nicomachea
(c. 9). Infatti quello che ricade propriamente sotto
il precetto è ciò per cui la legge colpisce con una
pena. Ma nello stabilire la pensa, la legge divina e
quelle umana si mostrano diverse. Infatti una legge
non può infliggere una pena per le cose che per le cose
di cui il legislatore non ha possibilità di giudicare,
perché la legge punisce a seguito di un giudizio. L’uomo,
poi, che è il latore della legge umana, è in grado di
giudicare solo gli atti esterni, perché, come si dice
nel Primo Libro dei Rei (16, 7), «gli uomini
vedono quello che appare». Ma solo Dio, che è latore
della legge divina, può giudicare sui moventi interiori
della volontà, secondo quanto si dice nel Salmo
7 (10): «Dio scruta i cuori e reni».
In base a questo, si deve dire che il modo virtuoso
dell’agire sotto un certo aspetto concerne la legge
umana e la legge divina, sotto un altro, invece, né
la legge umana né quella divina. Ora, il modo virtuoso
dell’agire, secondo quanto dice il Filosofo nel secondo
libro dell’Etica Nicomachea (c. 4), consta di
tre elementi: 1) che uno agisca «sapendo»: se infatti
qualcuno fa qualcosa per ignoranza, lo fa accidentalmente.
Perciò, sia la legge umana che quella divina tengono
conto dell’ignoranza nel considerare le pena o le scuse.
2) che uno agisca «volendo», ossia «scegliendo e scegliendo
per un dato scopo»; in ciò sono implicati due
dei moti interiori, cioè la volontà e l’intenzione,
dei quali si è parlato in precedenza (qq. 8, 12). E
di questi due tiene conto non la legge umana ma solo
quella divina. La legge umana non punisce infatti quello
che vuole uccidere e non uccide; lo punisce invece la
legge divina, secondo quanto si dice nel Vangelo secondo
Matteo (5, 22): «Chi si adira con suo fratello sarà
reo di giudizio». 1) che uno «agisca e si comporti in
modo fermo e irremovibile». E questa fermezza riguarda
propriamente l’abito, in quanto, cioè, uno agisce per
l’abito che è in lui radicato. E in base a questo, non
ricade sotto il precetto, né della legge umana, né della
legge divina, il modo virtuoso di adempierlo: infatti
né dall’uomo, né da Dio è punito, come trasgressore
del precetto, chi, senza avere l’abito della pietà,
onora i genitori.
Risposta al primo argomento: il modo di compiere un
atto di giustizia che non ricade sotto il precetto, è che
esso sia compiuto secondo l’ordine del diritto e non in
base all’abito della giustizia.
Risposta al secondo argomento: l’intenzione del
legislatore ha di mira due cose. La prima è la virtù, cui
intende arrivare mediante i precetti della legge. Un’altra
è l’oggetto su cui intende dare il precetto e questo è il
mezzo per condurre o predisporre alla virtù, cioè l’atto
virtuoso. Infatti il fine del precetto non si identifica
con la materia su cui il precetto viene dato: così nemmeno
nelle altre cose il fine si identifica con ciò che porta
al fine.
Risposta al terzo argomento: compiere senza
tristezza l’opera della virtù ricade sotto il precetto
della legge divina, perché chiunque realizza un’azione con
tristezza non vuole compierla. Ma agire provando piacere,
ossia con letizia e gioia, in qualche modo ricade sotto il
precetto, in quanto, cioè, la gioia che ha la sua causa
nell’amore, deriva dall’amore verso Dio e verso il
prossimo, amore che ricade sotto il precetto. Ma in
qualche modo, non vi ricade, in quanto la gioia è
conseguenza dell’abito; si dice infatti nel secondo libro
dell’Etica Nicomachea (c. 3): «il piacere è segno
dell’abito già generato». Infatti un atto può essere
gradito o piacevole o per il fine o perché la sua coerenza
con l’abito. |