Furono dati in maniera appropriata i precetti
giudiziali riguardo ai rapporti sociali del popolo?
Circa il secondo punto procediamo così. Sembra che
non in modo appropriato siano stati dati precetti
giudiziali relativi ai rapporti sociali del popolo.
Infatti gli uomini non possono convivere pacificamente, se
uno prende le cose che sono di un altro. Ma questo sembra
indotto proprio dalla legge; dice infatti il
Deuteronomio: «Se entri nella vigna del tuo prossimo,
potrai mangiare quanta uva ti piacerà» (23, 24). Dunque la
legge antica non provvedeva in maniera appropriata alla
pace tra gli uomini.
2. Inoltre, molte città e molti regni venivano
distrutte a causa del fatto che i possessi finivano nelle
mani delle donne, come dice Aristotele nella Politica
(2, 6). Ma proprio questo fu introdotto nella legge
antica; dice infatti la Scrittura: «Quando uno sarà morto
senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua
eredità alla figlia» (Num. 27, 8). Dunque la legge
non provvide in maniera appropriata alla pace tra gli
uomini.
3. Inoltre, la società umana si conserva
soprattutto per il fatto che gli uomini con il comprare e
con il vendere scambiano le cose di cui hanno bisogno,
come dice Aristotele (Pol. 1, 3). Ma la legge
antica tolse la capacità di vendere, poiché, come emerge
dal libro del Levitico (25), ordinò che il possesso
venduto tornasse al venditore al cinquantesimo anno, che
era l'anno del giubileo. In maniera non appropriata dunque
la legge rispetto a ciò ordinò il popolo.
4. Inoltre, nelle necessità degli uomini e
soprattutto di giovamento che gli uomini siano pronti a
dare in prestito reciprocamente. Proprio questa prontezza
viene compromessa dal fatto che i creditori non rendono le
cose prestate, secondo quello che si dice nel Libro del
Siracide (29, 10): «molti non danno in prestito, non
per malvagità, ma perché temono di essere». defraudati
gratuitamente La legge favoriva proprio questo. Primo,
perché così comandava il Deuteronomio (15, 2):
«ogni persona a cui qualcosa è dovuto non lo esigerà
dall'amico, dal suo prossimo, dal fratello, poiché si sarà
proclamato l'anno di remissione per il Signore»; e anche
nell'Esodo (22, 15) si dice che se un animale preso
in prestito dovesse morire alla presenza del padrone, non
si è tenuti a restituirlo. secondo, perché toglieva ogni
sicurezza al prestito; si dice infatti nel Deuteronomio
(24, 10): «quando presterai qualsiasi cosa al tuo
prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo
pegno»; e ancora (24, 12): «non andrai a dormire con il
suo pegno, ma subito glielo restituirai». Dunque nella
legge furono date disposizioni sui prestiti in maniera non
adeguata.
5. Inoltre, dalla frode concernente il deposito
deriva un pericolo grandissimo, perciò si deve usare la
massima cautela; infatti anche nel Secondo Libro dei
Maccabei (3, 15) si dice: «i sacerdoti elevavano
suppliche al cielo che aveva sancito la legge dei
depositi, perché fossero conservati integri a coloro che
li avevano consegnati». Ma, nei precetti della legge
antica, si usa poca cautela rispetto al deposito; infatti,
nell’Esodo (22, 10 e ss), si dice che, se si perde
il deposito, si deve stare al giuramento di colui che lo
custodiva. Dunque l'ordine dato della legge non fu a
questo riguardo conveniente.
6. Inoltre, come un qualsiasi mercenario dà in
affitto la sua opera, così anche altri danno in affitto la
propria casa o altre cose di tal genere. Ma, non è
necessario che subito il prezzo dell'affitto di una casa
sia subito pagato dall'affittuario. Quindi era anche
troppo duro ciò che ordinava il libro del Levitico
(19, 13): «Non tratterrai presso di te sino all'indomani
la paga del tuo operaio».
7. Inoltre, poiché è frequente la necessità di
ricorrere al tribunale, deve essere facile l'accesso al
giudice. In maniera non appropriata dunque fu stabilito
dalla legge che si andasse in un unico luogo per le
controversie (Deut. 17, 8).
8. Inoltre, è possibile che si accordino terra
mentire non solo due, ma anche tre o più uomini. In
maniera non appropriata dunque si dice nel Deuteronomio
(19, 15 e ss) che «il fatto dovrà essere stabilito sulla
parola di due o di tre testimoni».
9. Inoltre, la pena dev'essere stabilita secondo la
gravità della colpa; si dice infatti nel Deuteronomio
(25, 2): «proporzionata alla gravità della sua colpa, sarà
la misura della pena». La legge invece stabiliva per i
differenti per colpe uguali; infatti si dice nell’Esodo
(22, 1) che il ladro renderà «cinque bovi per un bove e
quattro pecore per una pecora». Inoltre la legge puniva
peccati non molto gravi con pene gravi: ad esempio fu
lapidato uno che raccoglieva la legna nel giorno di sabato
(Num. 15, 32 e ss.). E si comanda anche di lapidare
il figlio ribelle per piccoli delitti, cioè perchè «si
dedica a bagordi e conviti» (Deut. 21, 18 ). Dunque
nella legge le punizioni non sono adeguatamente istituite.
10. Inoltre, come dice Agostino, «Cicerone scrisse
che otto sono i generi di pena nelle leggi: multa,
carcere, fustigazione, legge del taglione, infamia,
esilio, morte e schiavitù» (De Civitate Dei 21,
11). Di questi alcuni sono stabiliti dalla legge: ad
esempio, la multa, quando il ladro viene condannato
restituire il quintuplo o il quadruplo; il carcere, come
quando del Libro dei Numeri (15, 34), si comanda di
incarcerare qualcuno; la fustigazione, come nel passo del
Deuteronomio in cui si dice (25, 2): « Se il
colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo
farà stendere per terra e fustigare in sua presenza».
L'infamia poi veniva inflitta a colui che non voleva
prendere in moglie la vedova di suo fratello, la quale gli
prendeva uno dei calzari e gli sputava in faccia [Deut.
25, 9]. Anche la pena di morte veniva inflitta, come si
evince dal Levitico (20, 9): «Chiunque maledirà suo
padre o sua madre, sia messo a morte». Così la legge
sostenne pure la pena del taglione, dicendo: «Occhio per
occhio dente per dente» (Es. 21, 24). In maniera
non appropriata dunque sembra che la legge antica non
inflisse le altre due pene, cioè l'esilio e la servitù.
11. Inoltre, la pena non è dovuta se non per una
colpa. Ma le bestie non possono mai aver una colpa. Quindi
in maniera non appropriata è inflitta loro una pena,
secondo quello che si dice nell'Esodo (21, 28):
«Quando un bue uccide un uomo o una donna, sarà lapidato»
e nel Levitico (20, 16): «La donna che si sia
accoppiata con una bestia, sia uccisa insieme ad essa».
Così dunque sembra che in maniera non appropriata quelle
cose che riguardano il vivere insieme degli uomini tra
loro siano state regolate dalla legge antica.
12. Inoltre, il Signore comandò che l'omicidio
fosse punito con la morte di un uomo [Es. 21, 12].
Ma la morte di una bestia considerata molto inferiore
all'uccisione di un uomo. Dunque l'uccisione di una bestia
non può sostituire adeguatamente la pena per un omicidio.
In maniera inappropriata dunque si comanda nella
Scrittura, «quando si trovi il cadavere di un uomo ucciso
e non si conosca il colpevole dell'uccisione, gli anziani
della città più vicina prenderanno dall'armento una
vitellina che non abbia mai portato il giogo né abbia mai
arato la terra, la condurranno in una valle aspra e
sassosa che non è stata mai arata e non ha mai ricevuto
sementi, e là le spezzeranno la nuca» (Deut. 21).
Ma di contro vi è il fatto che nel Salmo 147,
Dio viene lodato per uno speciale beneficio (20): «Così
non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato
ad altri i suoi giudizi».
Rispondo dicendo che, come dice Agostino, riferendo
un detto di Cicerone «un popolo è l'unione di una
moltitudine associata dall'accettazione di un medesimo
diritto e dall'utilità dei rapporti reciproci» (De
Civitate Dei 2, 21). Di conseguenza la stessa nozione
di popolo implica che i rapporti degli uomini tra loro
siano ordinati dal giusto precetto della legge. Ora, gli
uomini hanno tra loro due i tipi di rapporti: il primo che
è costituito dall'autorità dei principi; il secondo invece
che è costituito dalla volontà delle persone private. E
poiché ciascuno può disporre con la propria volontà
soltanto di quanto ricade sotto il proprio potere, allora
è necessario che la decisione delle cause civili e il tipo
di pene da infliggere ai malfattori, siano riservate
all'autorità dei principi, sotto il cui potere questi
uomini sono. Le persone private hanno invece il potere
soltanto sulle cose che possiedono: perciò possono di
propria volontà scambiarsi le cose che possiedono, cioè
comprando, vendendo, donando e facendo altre cose del
genere.
Sia gli uni sia gli altri rapporti furono determinati
adeguatamente dalla legge. Essa stabilì infatti dei
giudici, come emerge dal Deuteronomio (16, 18):
«Costituirai giudici e magistrati in tutte le città
affinché giudichino il popolo con giusto giudizio». La
legge istituì anche il giusto svolgimento del giudizio,
come dice il Deuteronomio (1, 16 e ss.): «giudicate
con giustizia le questioni che uno può avere con il
fratello o con lo straniero. Nei vostri giudizi non avrete
riguardi personali». La legge tolse poi l'occasione al
giudizio ingiusto, proibendo ai giudici di accettare
regali, come emerge dall'Esodo (23, 8) e dal
Deuteronomio (16, 19). Stabilì anche il numero di due
o tre testimoni, come emerge dal Deuteronomio (17,
6 e 19, 15). E istituì anche certe pene per i diversi
delitti, come sarà detto in seguito.
Circa i beni posseduti, è però cosa ottima, come dice
Aristotele nella Politica (2, 2), che i possessi
siano distinti e l'uso dei beni in parte sia comune e in
parte venga messo in comune per volontà dei proprietari.
Così, nella legge furono stabilite queste tre cose. In
primo luogo, i possessi furono divisi tra le singole
persone; dice infatti la Scrittura: «Io vi ho dato la
terra in proprietà. La dividerete a sorte tra voi» (Num.
33, 53 e ss.). E poiché a causa delle irregolarità nei
possessi molti stati sono distrutti, come dice Aristotele
(Pol. 2, 6), la legge stabiliva tre rimedi R.
regolare i possessi. Il primo fu quello di dividerli
ugualmente secondo il numero degli uomini; si dice infatti
nel Libro del Numeri (33,54): «Ai più numerosi date
una porzione più grande, ai meno numerosi una porzione più
piccola». Un altro rimedio fu quello di imporre che i
possessi non fossero alienati in eterno, ma che è dopo un
certo tempo tornassero i loro padroni, terre non
confondere la distinzione di possessi assegnati. Il terzo
rimedio, finalizzato a togliere tale confusione, era
quello di fare in modo che ai morti succedessero i
parenti: in primo grado il figlio, poi la figlia, in terzo
luogo i fratelli, poi gli zii, e alla fine gli altri
parenti [Num. 28, 8 e ss.]. E per conservare la
distinzione delle assegnazioni fatte, la legge stabilì
ulteriormente che le donne che gli ereditavano, sposassero
uomini della loro tribù [Num. 36].
In secondo luogo, la legge stabilì che in certi casi l'uso
dei beni fosse comune. E ciò innanzi tutto riguardo alla
cura di essi; vi è infatti il precetto: «Se vedi smarrito
un bue o una pecora di un tuo fratello, non farai finta di
niente, ma li ricondurrai a tuo fratello» (Deut. 22
1-4); e così altri simili. – Poi, riguardo al loro
sfruttamento. Infatti era permesso a tutti, entrando nella
vigna dell'amico, di mangiare, purché non si portasse
niente fuori. Il riferimento ai poveri in particolare,
erano lasciati i loro i manipoli dimenticati, i frutti e i
grappoli abbandonati, come si dice nel Levitico
(19, 9) e nel Deuteronomio (24, 19 e ss.). Erano
anche messe in comune le cose che nascevano dalla terra il
settimo anno, come si dice nell’Esodo (23, 11) e
nel Levitico (25, 4).
In terzo luogo, la legge codificò la condivisione dei beni
che veniva fatta da coloro che erano padroni delle cose.
Una era puramente gratuita; si dice infatti nel
Deuteronomio (14, 28 e ss.): «alla fine di ogni
triennio metterai da parte un'altra decima, e verrà il
levita, lo straniero, l'orfano e la vedova, e ne
mangeranno e si sazieranno». Un’latra invece comportava
una ricompensa di utilità: così avveniva nelle
compravendite, nella locazione e nell'affitto, nei
prestiti, nei depositi, tutte cose su cui si possono
trovare disposizioni precise nella legge. Di conseguenza è
evidente che la legge antica ordinò in maniera sufficiente
lo stare insieme di quel popolo.
Risposta al primo argomento: come dice Paolo nella
Lettera ai Romani (8, 3): «Chi ama il
prossimo, ma ha adempiuto la legge», dal momento che tutti
i precetti della legge, e in maniera particolare quelli
che sono ordinati al prossimo, sembrano essere finalizzati
proprio a questo: che gli uomini si animino
reciprocamente. Ora, dall'amore deriva che gli uomini
mettano reciprocamente in comune i loro beni, poiché come
dice la Prima Lettera di Giovanni (3, 17): «Chi
vedrà suo fratello partire necessità, e gli chiuderà il
proprio cuore, in che modo la carità di Dio rimarrà in
lui?». E perciò la legge tendeva ad abituare gli uomini a
mettere in comune con facilità le proprie cose: così anche
Paolo nella Prima Lettera a Timoteo (16, 18),
comanda ai ricchi di «dare con facilità e mettere in
comune». Ora, non è facile condividere per chi non
sopporta che il prossimo prenda qualche cosa del suo,
senza fare un grave danno. Perciò la legge ordinò che
fosse lecito, a chi entrava nella vigna del prossimo,
mangiare il frutto dei grappoli; non permetterò però di
portarne fuori, per non dare occasione di arrecare un
danno grave, dal quale la pace sarebbe stata turbata. E
questa pace tra persone ben regolate e disciplinate, non
viene turbata per queste piccole sottrazioni, che anzi
consolidano soprattutto l'amicizia e abituano gli uomini a
condividere con facilità.
Risposta al secondo argomento: la legge non stabilì
che le donne ereditassero i beni paterni, se non in
mancanza di figli maschi. In tal caso era però necessario
che si concedesse l'eredità alle donne per soddisfazione
del padre, per il quale sarebbe stato doloroso lasciare la
propria eredità a persone totalmente estranee. Tuttavia in
questo la legge utilizzò la debita cautela, comandando che
le donne che prendevano in eredità i beni paterni,
sposassero uomini della propria tribù, per impedire che i
possedimenti assegnati delle diverse tribù si
confondessero tra loro, come emerge dall'ultimo libro dei
Numeri.
Risposta al terzo argomento: come dice Aristotele
nella Politica (2, 4), il regolamento dei possessi
giova molto alla conservazione di uno stato o di un
popolo. Di conseguenza, come egli stesso dice, presso
certe città pagane fu stabilito «che nessuno potesse
vendere il suo possesso, se non per un danno manifesto».
Se infatti i possessi vengono continuamente venduti, può
capitare che tutti i possessi si concentrino nelle mani di
pochi e così in sarà necessario che la città, o la
regione, sia abbandonata dai suoi abitanti. Ecco perché la
legge antica, al fine di rimuovere un tale pericolo,
concesse la vendita temporanea dei possessi; e ciò anche
per far fronte alla necessità degli uomini. Ordinò però
che, dopo un certo tempo, il possesso tornasse al
venditore. Questo sistema fu istituito per non confondere
i possessi assegnati, rimanendo sempre la stessa
distinzione determinata nelle tribù.
Siccome, però, le case di città non erano state assegnate
a sorte, la legge concesse che si potessero vendere per
sempre, e così anche i beni mobili. Non era infatti
stabilito il numero delle case di città, così come era
invece certa la misura del possedimento, al quale non
bisognava fare aggiunte; poteva invece aumentare il numero
delle case di città. D'altra parte, le case che non erano
all'interno della città, ma nei campi privi di mura di
cinta, non potevano essere venduti in perpetuo, poiché
queste case sono costruite solo per coltivare e per
custodire i possessi; perciò correttamente la legge le
sottopose alla stessa norma riguardante questi ultimi.
Risposta al quarto argomento: come è stato appena
detto, l'intenzione della legge era quella di abituare con
i suoi precetti gli uomini a venire incontro facilmente
alle necessità gli uni degli altri, poiché è questo
soprattutto alimenta l'amicizia. E proprio questa
prontezza nel venire incontro agli altri non solo fu
stabilita nelle elargizioni gratuite e definitive, e ma
anche nei prestiti: poiché tale aiuto è più frequente è
spesso più necessario. La legge istituì allora questa
prontezza nel venire in aiuto in più modi. Primo,
ordinando di dare in prestito con facilità e di non
ritirarsi con l'avvicinarsi dell'anno della remissione,
come si dice nel Deuteronomio (15, 7 e ss). –
Secondo, ordinando di non gravare colui al quale è stato
concesso il prestito o con l'usura o anche prendendo in
pegno qualcosa di assolutamente necessario alla vita; e,
se si prendevano queste cose, ordinando che si
restituissero subito. Dice infatti il Deuteronomio
(23, 19): «Non farai al tuo fratello prestiti ad usura»; e
ancora (24, 6): «Non prenderai in pegno né le pietre
inferiore della macina domestica né la pietra superiore,
perché sarebbe come se il creditore mettesse nelle tue
mani la sua vita». Inoltre dice l’Esodo (22, 26):
«se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo
renderai prima del tramonto del sole». – Terzo, la legge
stabilì che non si esigesse dal creditore in modo
inopportuno. Di conseguenza si dice nell’Esodo (22,
25): «Se avrai il prestato del denaro a qualche povero del
mio popolo, a qualcuno che abita con te, non sarai con lui
pressante come un esattore». E per questo si comanda
inoltre nel Deuteronomio (24, 10 e ss): «Quando
presterai qualsiasi cosa al tuo prossimo, non entrerai in
casa sua per prendere il suo pegno; ma starai fuori e egli
stesso ti porterà fuori il pegno»: questo, sia perché la
casa e per ciascuno il rifugio più sicuro, quindi è
spiacevole per l'uomo essere invaso nella sua casa, sia
anche perché la legge non concedeva il creditore di
prendere il pegno che voleva, ma piuttosto concedeva al
creditore di dare ciò di cui meno aveva bisogno. – Quarto,
la legge stabilì che nel settimo anno i debiti venissero
del tutto condonati [Deut. 15, 1-4]. Era infatti
probabile che quanti potevano restituire, lo facessero
prima del settimo anno e non defraudassero senza motivo il
creditore. Se invece era per loro del tutto impossibile
restituire, per la stessa ragione bisognava loro condonare
il debito per amore fraterno, in base al quale anche
sarebbe stato un necessario concederlo nuovamente data la
loro indigenza. – Riguardo agli animali prestati la legge
stabiliva che, se morivano, o si indebolivano in assenza
di chi aveva prestati, chi li aveva presi in prestito
doveva restituirli, a causa della sua negligenza. Se
invece, essendo il padrone presente, morivano o si
indebolivano, non c’era il dovere di restituirli, ancor di
più se erano stati prestati a pagamento [Es. 22, 14
e ss.]; allo stesso modo infatti avrebbero potuto morire o
debilitarsi presso il padrone e, così, il prestito non
sarebbe stato gratuito, ma avrebbe portato un guadagno. E
questa norma andava osservata soprattutto quando gli
animali erano presi in prestito dietro pagamento, poiché
allora il padrone riceva già un certo compenso per
l’animale e, di conseguenza, non poteva accrescerlo
attraverso la restituzione degli animali, se non a causa
della negligenza di chi avrebbe dovuto custodirlo. Se
invece gli animali non erano stati prestati a pagamento,
poteva essere equo che si restituisse l’equivalente
dell’uso dell’animale morto o indebolito.
Risposta al quinto argomento: la differenza che
intercorre tra il prestito e il deposito consiste in
questo: la cosa prestata viene consegnata per l'utilità di
colui al quale è prestata; la cosa depositata, invece, per
l'utilità di chi la consegna. Perciò in certi casi una
persona era maggiormente tenuta a restituire il debito,
che a restituire il deposito. Il deposito infatti si
poteva perdere in due modi. In un modo, per una causa
inevitabile: ad esempio per una causa naturale, come il
caso in cui l'animale depositato moriva o si indeboliva, o
per una causa esterna, come il caso in cui l'animale
veniva preso dai nemici o divorato da una belva. In quest’ultimo
caso il depositario era tenuto a portare al padrone i
resti dell’animale ucciso; negli altri casi sopra
menzionati, non c’era l’obbligo di restituire nulla, ma
per togliere ogni sospetto di frode, occorreva solo
prestare giuramento. – Il secondo modo in cui si poteva
perdere il deposito era per causa evitabile: ad esempio,
per un furto. Pertanto, a causa della negligenza del
custode, c’era l’obbligo di restituire. Ma, come è stato
detto prima, colui che aveva preso in prestito un animale,
era tenuto a restituirlo anche se era morto o si era
indebolito, in assenza del padrone. A quest’ultimo infatti
veniva attribuita una negligenza minore che al
depositario, al quale si faceva carico solo del furto.
Risposta al sesto argomento: gli operai che
prestano la loro opera sono poveri che con il loro lavoro
cercano il vitto quotidiano; perciò, la legge comandò
giustamente che si pagasse subito la loro mercede, perchè
non mancassero del vitto. Ma quelli che prestano in
affitto altre cose, in genere, sono ricchi e quindi non
hanno bisogno del prezzo del fitto per il fabbisogno
quotidiano. Perciò i due casi sono di natura diversa.
Risposta al settimo argomento: i giudici vengono
costituiti dagli uomini per dirimere ciò che può essere
ambiguo in materia di giustizia. Ora, una cosa può essere
ambigua in due modi. In un modo, presso le persone
semplici; in questo caso, per eliminare il dubbio, si
comanda nel Deuteronomio (16, 18): «Costituirai
giudici e magistrati in tutte le città affinché giudichino
il popolo con giusto giudizio». – In un altro modo, può
accadere che qualcosa sia dubbio anche presso gli esperti;
in questo caso, terre togliere il dubbio, la legge stabilì
che tutti si recassero nel luogo più importante scelto da
Dio, in cui vi era sia il sommo sacerdote, per dirimere le
controversie relative alle cerimonie del culto divino, sia
il sommo giudice del popolo, per determinare quanto
riguardava i giudizi tra gli uomini: in questo modo anche
oggi le cause sono portate dai giudici inferiori a quelli
superiori mediante l'appello, oppure per un consulto. Si
dice infatti nelle Deuteronomio (17, 8 e ss.):
«Quando in una causa ti sarà troppo difficile decidere e
vedrai parole diverse dai giudici entro le porte della tua
città, salirai al luogo che il Signore avrà scelto e
andrai e i sacerdoti della stirpe levitica e al giudice
che sarà allora in carica». Ora, tali di giudizi ambigui
non capitavano di frequente. Di conseguenza il popolo non
era gravato per questo.
Risposta all’ottavo argomento: negli affari umani,
non si può avere una prova dimostrativa e infallibile, mai
sufficiente una qualche prova congetturale, come accade
per la persuasione operata dagli oratori. Perciò, sebbene
sia possibile che due o tre testimoni si accordino per
mentire, tuttavia non è una cosa facile o probabile; ecco
perché la loro testimonianza si prende per vera,
specialmente poi se nel testimoniare non vacillano, o non
destano altri sospetti. Affinché poi i testimoni non si
allontanassero facilmente dalla verità, la legge stabilì
che si esaminassero con grande diligenza e che fossero
puniti gravemente quelli che venivano riconosciuti come
bugiardi [Deut. 19, 16 e ss.].
Tuttavia ci fu una ragione figurativa nella determinazione
di codesto numero: esso sta a indicare l'infallibile
verità delle Persone divine, che talvolta sono ricordate
come due sole – perché lo Spirito Santo è il nesso tra le
due – e talaltra sono espresse tutte e tre, secondo il
commento che Agostino fa al passo del Vangelo di Giovanni
(8, 17): «Nella vostra legge è scritto che la
testimonianza di due uomini e verace».
Risposta al nono argomento: non solo per la gravità
della colpa, ma anche per altri gravi motivi, viene
inflitta una pena. Primo, per la grandezza del peccato: a
un delitto maggiore, essendo pari tutto il resto, è dovuta
una pena più grave. Secondo, per l'abitudine di peccare:
dai peccati consueti gli uomini non si staccano facilmente
senza gravi pene. Terzo, per l'intensità della
concupiscenza o del piacere nel peccare: da questi peccati
gli uomini non si distaccano senza gravi pene. Quarto, per
la facilità nel commettere peccato e del nasconderlo: tali
peccati, quando si scoprono, sono maggiormente da punire,
per incutere paura negli altri.
Rispetto poi alla grandezza stessa del peccato si possono
distinguere quattro gradi, ma anche in uno stesso è
identico fatto. Di questi gradi, il primo si ha quando uno
commette il peccato involontariamente. Se esso è stato del
tutto involontario, chi lo commette totalmente assolto
dalla pena; come dice il Deuteronomio (22, 25 e ss.),
la fanciulla che viene violentata in un campo, «non è rea
di morte, poiché gridò e nessuno venne a liberarla». Se
invece il peccato è stato in qualche modo volontario, ma
tuttavia è compiuto per debolezza – ad esempio, quando
qualcuno pecca per passione –, si tratta di un peccato
minore; e anche la pena, per la rettitudine del giudizio,
deve diminuire, a meno che non venga gravata per il bene
comune, cioè terra allontanare gli uomini da simili
peccati, come è stato detto prima. – Il secondo grado del
peccato si ha quando uno pecca per ignoranza. E allora non
veniva considerato colpevole, per la negligenza
nell'apprendere; tuttavia non veniva punito dai giudici,
ma doveva espiare il suo peccato con dei sacrifici. Si
dice infatti nel Levitico (4, 2 e ss): «L'anima che
avrà peccato per ignoranza...». Ma questo va inteso in
riferimento all'ignoranza del fatto, non invece
all'ignoranza del precetto divino, che tutti invece erano
tenuti a conoscere. – Il terzo grado del peccato si ha
quando qualcuno pecca per superbia, cioè con una certa
deliberazione e con una certa malizia. E allora costui
veniva punito secondo la gravità del delitto. – Il quarto
grado invece si ha quando si peccava per insolenza e
pertinacia. E allora il peccatore doveva essere
addirittura ucciso, come ribelle e distruttore dell'ordine
della legge.
In base a questo, si deve dire che nella pena per il furto
si considerava nella legge quello che accade nella
maggioranza dei casi. Quindi per il furto di quelle cose
che facilmente possono essere custodite dai ladri, chi
rubava doveva restituire il doppio. Le pecore invece non
si possono facilmente custodire dal furto, perchè
pascolano nei campi e, quindi, capitava più spesso che
venissero rubate. Di conseguenza, per questo furto, la
legge stabilì una pena più severa: per una pecora rubata
se ne dovevano restituire quattro. I buoi poi erano più
difficili da custodire, poiché si trovano nei campi e non
pascolano in branco come le pecore. Perciò, per il furto
dei buoi, la legge stabilì una pena ancora maggiore: per
un bue rubato se ne dovevano restituire cinque. E questo
avveniva a meno che l’animale rubato non fosse stato
ritrovato vivo presso il ladro, poiché allora costui
doveva restituire solo il doppio, come negli altri furti;
si poteva infatti presumere che avesse pensato di
restituirlo, in base al fatto che lo conservava vivo.
Oppure si può dire, con le parole della Glossa che
«il bue ha cinque utilizzi: viene immolato, ara, nutre con
le sue carni, dà il latte e offre il cuoio per molti usi»:
ecco perchè per un bue se ne restituivano cinque. La
pecora invece ha quattro utilizzi: «viene immolata, nutre,
dà il latte e offre la lana». – Il figlio ribelle, invece,
veniva ucciso non perchè mangiava e beveva, ma a causa
dell’ostinazione e della ribellione che veniva punita
sempre con la morte come è stato detto. – Quell’uomo poi
che raccoglieva la legna nel giorno di sabato fu lapidato
come violatore della legge, che comandava di rispettare il
sabato in ricordo della fede nella creazione del mondo,
come è stato detto sopra. [Q. 100, a. 5]. Pertanto costui
fu ucciso come colpevole di infedeltà.
Risposta al decimo argomento: la legge antica
inflisse la pena di morte per i crimini più gravi: per i
peccati contro Dio, per l’omicidio, per il rapimento, per
le offese verso i genitori, per l’adulterio e per
l’incesto. Invece per il furto della roba altrui usò la
pena della multa. Per i ferimenti e le mutilazioni
inflisse la pena del taglione; e così pure per il peccato
di falsa testimonianza. Per le altre colpe minori stabilì
la pena della flagellazione o dell’ignominia.
La legge antica stabilì la pena della schiavitù in due
casi. Primo, quando nel settimo anno, anno della
remissione, uno schiavo non voleva usufruire del beneficio
della legge per diventare libero. Allora come pena gli
veniva imposto di rimanere schiavo per sempre. Secondo,
veniva inflitta al ladro quando non aveva nulla che poteva
restituire [Es. 22, 3].
La legge non stabilì completamente la pena dell’esilio,
poiché solo presso quel popolo Dio veniva adorato, essendo
gli altri popoli corrotti dall’idolatria; di conseguenza
se qualcuno fosse stato completamente escluso da quel
popolo sarebbe stata data a lui l’occasione
dell’idolatria. Ecco perché nel Primo Libro dei Re,
si dice che Davide disse a Saul: «maledetti siano quelli
che oggi mi scacciarono perchè io non abiti nella eredità
del Signore, dicendo: vai, servi gli dei stranieri» (26,
19). Tuttavia esisteva un esilio particolare. Si legge
infatti nel Deuteronomio (19, 4 e ss.): «chi ferirà
il suo prossimo senza saperlo, potendo provare di non aver
avuto alcun odio verso di lui», poteva fuggire in una
delle città di rifugio e rimanere lì fino alla morte del
sommo sacerdote. Allora infatti gli era lecito tornare a
casa sua, perchè in generale le ire private si placano
nelle pubbliche disgrazie del popolo, e così i familiari
del morto non sarebbero stati più così propensi alla sua
uccisione.
Risposta all’undicesimo argomento: si comandava di
uccidere quelle bestie, non a causa di una qualche loro
colpa, ma come una pena inflitta ai loro padroni, che non
le avevano preservate da simili peccati. Pertanto, si
puniva maggiormente il padrone se il bue avesse avuto già
l'abitudine di assalire con le corna, caso in cui si
poteva prevenire il pericolo, piuttosto che nel caso in
cui lo avesse fatto per la prima volta. – Oppure si
uccideva l'animale a riprovazione del peccato e affinché
quella vista incutesse negli uomini in qualche terrore.
Risposta al dodicesimo argomento: come dice Mosé
Maimonide [Doct. Perplex. P. 4 c. 40], la ragione è
letterale di quel comando era data dal fatto che spesso
l'uccisore apparteneva alla città più vicina. Di
conseguenza l'uccisione della vitellina serviva ad
indagare un omicidio nascosto. E questo era fatto per tre
motivi: in primo luogo, perchè gli anziani della città
giuravano di non aver trascurato per nulla la sicurezza
delle strade; in secondo luogo perchè il padrone della
vitellina veniva danneggiato dall’uccisione dell’animale
e, se si fosse scoperto l’omicidio, la vitellina non
sarebbe stata uccisa; il terzo motivo era infine dato dal
fatto che il luogo in cui la vitellina veniva uccisa,
rimaneva incolto. Perciò, per evitare tutti questi danni,
gli abitanti di quella città avrebbero facilmente rivelato
l'omicida, se lo conoscevano; accadeva poi raramente il
caso che non trapelasse nessuna voce o indizio
sull'accaduto.
Oppure questo si faceva per incutere terrore, a
riprovazione dell'omicidio. Infatti attraverso l'uccisione
di una vita e Lina, che è un animale utile e pieno di
forza, specialmente prima di lavorare sotto il giogo,
veniva indicato che chiunque avesse commesso un omicidio,
per quanto fosse utile e forte, era da uccidere; ed era da
uccidere con una morte crudele, cosa che era indicata dal
fracassamento della testa; e doveva essere escluso
dall'umano consorzio come vile e ignobile, cosa che era
indicata dal fatto che la vitellina uccisa veniva
abbandonata alla putrefazione in un luogo aspro e incolto.
In senso mistico poi attraverso la vitellina dell'armento
viene indicata la carne di Cristo, che non portò il gioco,
perché non commise peccato, e non arò la terra, cioè non
conobbe la macchia della sedizione. Attraverso il fatto
che la vitellina veniva uccisa in una valle incolta, si
indicava la morte disprezzata di Cristo, per mezzo della
quale sono state mondate tutte le colpe e il diavolo è
stato mostrato come autore di omicidio. |